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lunedì 13 marzo 2017

I temi scomodi. Riflettendo sulla fede cristiana e il modo di intenderla. (di Michele Giacomantonio)

L’avvicinarsi della Pasqua è sempre stata per me l’occasione per riflettere su alcuni fondamenti della fede cristiana ed in particolare quelli più controversi ma dotati di un loro fascino come ad esempio l’autocoscienza che il Gesù uomo aveva della sua natura divina- se l’avesse fin da bambino oppure sia venuta scoprendola lungo la strada con l’aiuto dello Spirito Santo -; oppure, per fare un altro esempio, di che tipo di abbandono parla Gesù quando sulla croce ripete i primi versi del Salmo 22 “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”.
La sorpresa più grande è scoprire come in molti, forse soprattutto teologi e sacerdoti, reagiscono a questi interrogativi rifiutandoli: “Gesù aveva coscienza della sua divinità dall’infanzia, non leggi i vangeli di Luca e di Matteo?”: “Gesù sulla croce prega alcuni salmi è pretestuoso voler dare un significato contingente a quelle parole”. Si ha paura di accettare un piano di riflessione e di discussione che potrebbe giungere a scalfire le proprie ed altrui sicurezze anche perché l’immagine che abbiamo della divinità è tutta filosofica e caratterizzata su una teologia che è dipendente dalla filosofia e non dalla Sacra Scrittura. Dio è onnipotente ed omnisciente perché altrimenti non sarebbe Dio, come si può pensare che ci sia qualcosa che sfugge alla sua conoscenza? Come si può pensare ad un conflitto nella Trinità?
E’ quando fai osservare che il Dio della Sacra Scrittura è un Dio che si pente ( per esempio di aver mandato il diluvio), che si commuove e cambia opinione, che accetta di discutere e di trattare con Mosé e Abramo, ecc.; che la gran parte degli esegeti oggi non dà più un valore storico ai Vangeli dell’infanzia bensì un importante valore teologico; che è impossibile ricostruire dai Vangeli una vita di Gesù perché esprimono piuttosto la coscienza che evangelisti e comunità cristiane primitive avevano della missione di Gesù; quando fai osservare questo l’ascolto si interrompe e ti si guarda come un eretico. Chi vuole riflettere sulla fede non è ben visto perché la Fede viene intesa piuttosto come una camomilla che distende i pensieri e non piuttosto come una bevanda che li stimola.
In modo particolare questo mi sembra vero riguardo al cosiddetto dramma della croce su cui il grande teologo luterano J. Moltmann ha scritto un libro “Il Dio crocifisso” ed un altro grande teologo cattolico H. Urs Von Balthasar ne ha ripreso alcuni temi  nella “Teologia dei tre giorni”.
Che cosa dice Moltmann? Che sulla croce si compie un dramma: la Prima Persona della Trinità abbandona la Seconda, il Figlio, proprio come dice il salmo che Gesù recita.
Certo parlare di una crisi interna alla Trinità quale si rivelerebbe un abbandono del Figlio da parte del Padre suona troppo enfatico eppure dobbiamo essere grati a questo teologo che ha richiamato con forza che sulla croce si sviluppa un dramma perché, solitamente, si tende a sorvolare sul Salmo 22.  Giustamente è stato osservato che il grido di morte che Gesù lancia dalla croce è ‘la ferita aperta’ di ogni teologia cristiana.
Certo “abbandono” non vuol dire separazione, annullamento perché Dio non può limitare e vulnerare se stesso. Ma anche il volere restringere il conflitto non fra Dio e Dio ma fra Gesù e suo Padre, perché Gesù non rivolge il suo grido al Dio dell’Alleanza ma specificatamente a suo Padre, non cambia di molto la drammaticità della situazione. Dopo l’incarnazione può esistere un Gesù separato dal Figlio? Quindi anche un conflitto fra Gesù e il Padre non è meno grave perché questo abbandono da parte di Dio mette in gioco non solo l’esistenza personale di Gesù ma la validità della sua predicazione su Dio. Mette in gioco anche la divinità del suo Dio e la paternità del Padre suo, che Gesù aveva reso accessibili agli uomini.
Come uscire da questo cortocircuito? Analizzando il contenuto del Salmo se non si riduce la gravità dello scontro si getta però luce sulla sua natura cioè sulle motivazioni. Scopriamo così che il salmista non si lamenta compiangendo il proprio destino ma piuttosto si appella alla fedeltà di Dio. Gesù chiede al Padre di mostrare la sua giustizia: “Si parlerà del Signore alla generazione che viene;/ annunceranno la sua giustizia;/ al popolo che nascerà diranno:/ ‘Ecco l’opera del Signore?” 31-32 “.
Ma se Gesù pone una questione di giustizia il nodo deve riguardare il progetto che lui sta portando a compimento e rispetto al quale il Padre rivela qualche resistenza. Se è così, allora forse è possibile fare un po’ di luce su questo dialogo drammatico e per gran parte muto del quale ci giungono solo alcune frasi. Possiamo immaginare che il cuore del dialogo, quello dal quale scaturisce la decisione che delinea il nuovo universo, cominci con il  “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” di cui parlano Matteo (27,46) e Marco (11,34), appunto l’inizio del Salmo 22. E si conclude con “Nelle tue mani Padre consegno il mio spirito” cioè l’inizio del Salmo 31 di cui parla Luca 23,46.
Una ipotesi di ricostruzione di questo dialogo è quella proposta venerdì a Porto Salvo e che ho pubblicato venerdì su facebook e sui network locali.

    Michele Giacomantonio

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