Scusate se vi disturbo con una riflessione amara, che mi tormenta da stamani e che ho deciso di esternare forse soltanto per poterla accantonare dopo una serena condivisione. Non frequentando i social, lo faccio sulle pagine della stampa locale, confidando nella gentilezza dei direttori che ringrazio se vorranno ospitarla, e che ringrazio comunque.
Premetto che non me ne frega niente della Schlein che sostiene che i voti sono più numerosi di quelli presi dalla Meloni, di Vannacci che esulta e di quanti altri hanno voluto usare il referendum come test politico. Premetto che non mi illudevo, in fondo, che le cose andassero diversamente: già domenica mattina alle 8, quando mi sono presentato al seggio tra sguardi quasi sorpresi – ero il terzo dopo un’ora – si respirava l’atmosfera di evidente inutilità del rituale a cui ci stavamo sottoponendo tutti, votanti, scrutatori e forze dell’ordine nei paraggi.
Quello che mi spinge a scrivere queste brevi righe, dunque, non è il desiderio di commentare i risultati fallimentari del referendum, né la prevedibile, bassissima affluenza. È il dato definitivo di Lipari sul quinto quesito, quello che riguardava la cittadinanza ai cittadini extracomunitari, dove il 59,1% dei votanti ha detto sì (a livello nazionale lo ha fatto il 65,4%), mentre il 40,9% ha detto no.
Lipari è uno dei comuni d’Italia con la maggiore percentuale di residenti extracomunitari o stranieri, e dove è sotto gli occhi di tutti un modello di integrazione pienamente – e direi naturalmente – realizzata, senza razzismo, discriminazioni, pregiudizi, conflitti sociali legati al tema dell’appartenenza etnica.
Quando alla Festa dei Popoli vedo lunghe file di persone in paziente attesa del cous-cous e la piazza gremita di gente che balla, penso con orgoglio di appartenere a una stirpe ospitale, che abita un’isola aperta alla diversità e per certi versi felice di esserlo.
Oggi però lo penso meno. Quei quattro cittadini su dieci che hanno barrato il no sulla scheda, quegli otto cittadini che non hanno ritenuto utile dedicare dieci minuti per esprimere un voto, sono l’altra faccia di una medaglia che non giudico, ma che mi stupisce profondamente.
Tutti noi conosciamo almeno uno “straniero maggiorenne extracomunitario” che vive qui e che dovrà aspettare dieci anni per vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana. Dieci anni in cui vivrà le stesse gioie e le stesse miserie di noi che siamo italiani di nascita, in cui sarà uno di noi, ma senza esserlo del tutto. Dieci anni sono tanti. Non siamo eterni: l’aspettativa di vita nel nostro Paese è poco più di ottant’anni, e spesso quei dieci anni potrebbero essere stati i migliori della sua esistenza. Quelli più produttivi, e non intendo in termini lavorativi, ma per la capacità di sognare ancora una vita migliore e dignitosa, dove non sentirsi estranei.
Ma tant’è, bisogna rispettare l’esito del voto democratico.
Ecco, anche la democrazia mi amareggia, oggi. Perché i lavoratori – o gli ex lavoratori – e i loro datori di lavoro hanno potuto esprimere il proprio voto sulle questioni che li riguardavano direttamente. Invece quelli a cui stava più a cuore il quinto quesito referendario no, non lo hanno potuto fare. Abbiamo scelto noi per loro. Secondo me, questa è una democrazia imperfetta, e forse incontrando qualcuno di loro gli chiederò scusa.
Pietro Lo Cascio
Premetto che non me ne frega niente della Schlein che sostiene che i voti sono più numerosi di quelli presi dalla Meloni, di Vannacci che esulta e di quanti altri hanno voluto usare il referendum come test politico. Premetto che non mi illudevo, in fondo, che le cose andassero diversamente: già domenica mattina alle 8, quando mi sono presentato al seggio tra sguardi quasi sorpresi – ero il terzo dopo un’ora – si respirava l’atmosfera di evidente inutilità del rituale a cui ci stavamo sottoponendo tutti, votanti, scrutatori e forze dell’ordine nei paraggi.
Quello che mi spinge a scrivere queste brevi righe, dunque, non è il desiderio di commentare i risultati fallimentari del referendum, né la prevedibile, bassissima affluenza. È il dato definitivo di Lipari sul quinto quesito, quello che riguardava la cittadinanza ai cittadini extracomunitari, dove il 59,1% dei votanti ha detto sì (a livello nazionale lo ha fatto il 65,4%), mentre il 40,9% ha detto no.
Lipari è uno dei comuni d’Italia con la maggiore percentuale di residenti extracomunitari o stranieri, e dove è sotto gli occhi di tutti un modello di integrazione pienamente – e direi naturalmente – realizzata, senza razzismo, discriminazioni, pregiudizi, conflitti sociali legati al tema dell’appartenenza etnica.
Quando alla Festa dei Popoli vedo lunghe file di persone in paziente attesa del cous-cous e la piazza gremita di gente che balla, penso con orgoglio di appartenere a una stirpe ospitale, che abita un’isola aperta alla diversità e per certi versi felice di esserlo.
Oggi però lo penso meno. Quei quattro cittadini su dieci che hanno barrato il no sulla scheda, quegli otto cittadini che non hanno ritenuto utile dedicare dieci minuti per esprimere un voto, sono l’altra faccia di una medaglia che non giudico, ma che mi stupisce profondamente.
Tutti noi conosciamo almeno uno “straniero maggiorenne extracomunitario” che vive qui e che dovrà aspettare dieci anni per vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana. Dieci anni in cui vivrà le stesse gioie e le stesse miserie di noi che siamo italiani di nascita, in cui sarà uno di noi, ma senza esserlo del tutto. Dieci anni sono tanti. Non siamo eterni: l’aspettativa di vita nel nostro Paese è poco più di ottant’anni, e spesso quei dieci anni potrebbero essere stati i migliori della sua esistenza. Quelli più produttivi, e non intendo in termini lavorativi, ma per la capacità di sognare ancora una vita migliore e dignitosa, dove non sentirsi estranei.
Ma tant’è, bisogna rispettare l’esito del voto democratico.
Ecco, anche la democrazia mi amareggia, oggi. Perché i lavoratori – o gli ex lavoratori – e i loro datori di lavoro hanno potuto esprimere il proprio voto sulle questioni che li riguardavano direttamente. Invece quelli a cui stava più a cuore il quinto quesito referendario no, non lo hanno potuto fare. Abbiamo scelto noi per loro. Secondo me, questa è una democrazia imperfetta, e forse incontrando qualcuno di loro gli chiederò scusa.
Pietro Lo Cascio
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.