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lunedì 19 luglio 2021

QUELLA DI FLORENZIA, UNA STORIA DA RACCONTARE di Michele Giacomantonio (Puntata 10 di 10)

Decima puntata
LE FORZE MI VENGONO MENO…
Le ultime settimane di vita


 


Florenzia già anziana e l’entrata della Casa generalizia a Roma

Florenzia seguì i problemi della congregazione fino alle ultime ore di vita con una partecipazione che andava dai problemi più impegnativi della congregazione e delle case fino alle vicende delle singole suore. Poneva domande, dava consigli, si preoccupava della loro salute...
Anche nel chiedere aiuto alle consorelle era molto discreta. Uno dei malanni che la vecchiaia le aveva recato era il gonfiore alle gambe e il problema che aveva tutte le mattine, anche perché era divenuta molto robusta, era quello di allacciarsi le scarpe. Da sola non ci riusciva e quindi aspettava la prima suora che passasse per il corridoio e potesse aiutarla. Spesso questa era suor Colomba e la Madre un giorno le chiese:
– Che cosa pensi, quando fai questo servizio?
– A niente, Madre.
– E invece devi pensare che lo fai per amore del Signore.
Le difficoltà nei movimenti facevano sì che avesse sempre bisogno di qualcuno che l’aiutasse a coricarsi e ad alzarsi. Una notte cadde dal letto, ma per non disturbare le consorelle durante il sonno non volle chiedere aiuto. Rimase a terra fino al mattino, quando la trovarono tutta infreddolita perché era inverno.
Amava conversare e comunicare con le consorelle. Lo faceva di persona o per lettera.
Aveva una grande dote di discernimento nel giudicare le persone ed era sempre prodiga di consigli, ma badava bene a farlo amichevolmente senza  pregiudizio. Fin da giovane, era stata devota di suor Teresa di Gesù Bambino e voleva che soprattutto le novizie ne leggessero la vita e la <<Storia di un’anima>>. Suor Maria Maddalena era rimasta colpita dal brano in cui Teresa si era scelta una consorella che le correggesse i difetti.
– Quale suora mi potrebbe essere di aiuto?, si chiedeva, ed era titubante, perché pensava a una consorella molto sveglia e intraprendente, ma aveva dei dubbi.
– Che cosa la preoccupa suor Maria Maddalena? – le chiede un giorno Florenzia vedendola turbata.
La giovane le confidò il suo problema e le fece anche il nome della suora a cui aveva pensato.
– Se vuoi un mio consiglio, non credo che quella suora sia adatta per la tua anima. Ti faccio io una proposta e poi decidi tu.
Suor Maria Maddalena seguì il consiglio della Madre e si trovò bene, mentre la consorella a cui aveva pensato dopo pochi anni perdette la vocazione e abbandonò l’abito e l’istituto.
Alla capacità di discernimento univa un naturale senso pedagogico basato sulla fiducia nell’interlocutore. Un giorno, mentre è alla finestra della casa di Roma che guarda i bambini giocare nel cortile, si accorge che una giovane suora aveva perso la pazienza con un bambino che continuava a fare capricci. Florenzia subito non dice niente, ma nel pomeriggio fa chiamare la suora nella sua stanza. Questa si era accorta che la Madre aveva notato la sua reazione ed era impaurita. Chissà che cosa le avrebbe detto… Era così severa… Florenzia vede la suora tutta tremante e cerca di metterla a suo agio, la invita a sedersi.
– L’ho fatta chiamare, cara figliola, per sapere se si trova bene con noi. Incontra difficoltà nella vita religiosa? Sta bene in salute?
La giovane è sorpresa. Credeva di doversi scusare e, invece, la Madre l’invitava a una conversazione serena. Senza rimproverarle nulla, Florenzia le parla dell’amore di Cristo, dello spirito di sacrificio che le suore devono acquistare, della carità verso gli altri.
– Molte volte è difficile trattare con i bambini, specie se sono dei piccoli ribelli. Ma Gesù amava i bambini e li portava ad esempio agli adulti. Con loro bisogna avere più pazienza che con i grandi.
Un altro episodio la vede esercitare questa virtù pedagogica con una bambina. C’era in istituto una ragazzina di 13 anni, Teresa, che le suore avevano accolto per carità, visto che la famiglia non poteva mantenerla. Florenzia amava chiacchierare con lei e Teresa, rassicurata dalla confidenza che le dimostrava la Madre, un giorno le chiese perché non potesse indossare l’abito delle novizie e divenire suora.
– Sei ancora troppo giovane, Teresa. Devi avere pazienza, verrà anche il tuo momento, la rassicurò la Madre.
– Ma è già un anno che sono qui e conosco tutte le preghiere meglio di tante novizie. Perché non fa un’eccezione?
Florenzia vede che la ragazzina non vuole convincersi e sembra chiudere il discorso.

La cameretta di Florenzia nella Casa di Roma ora trasformata in Cappella.

– Teresa, in giardino c’è un piccolo tronco di albero quasi secco; vedi di estirparlo e portalo qui.
Sembra un incarico di responsabilità e Teresa, lieta, corre in giardino. Provò e riprovò a svellere il tronco, ma per quanti sforzi facesse la pianta non si mosse di un centimetro. Delusa, stanca e accaldata, tornò dalla Madre.
– Il tronco è più grande di me, non riesco a smuoverlo.
– Vedi, Teresa, ci sono cose che alla tua età, con le tue forze puoi fare e altre no. Quello che si verifica per le piante, accade nella nostra vita. Quando si è giovani, bisogna pensare a curare la vita e a raddrizzarla se ce n’è bisogno. Quindi in questo periodo studia, lavora e strappa, se occorre, le erbe cattive, cioè le cattive inclinazioni che scopri in te. Il Signore premierà la tua generosità e, se vorrà, quando sarai più grandicella, potrai diventare suora.
Spesso andava a trovare la suora che era in cucina.
– Figlia mia, fammi pulire la verdura, diceva.
– Madre, mai io non voglio che lei faccia queste cose –, rispondeva imbarazzata la suora cuciniera.
– Perché no? Non ho forse anch’io il diritto di andare in paradiso con il mio lavoro? Vede, fra pentole e pentolini sta spesso la nostra santità.
– Spesso qui, Madre, non si ha nemmeno il tempo di dire un Gloria.
– Eppure è semplice. Quando accende il fuoco, si ricordi dell’inferno e del purgatorio e così il suo impegno sarà, tra meditazione e lavoro, tutto per Gesù. Che cosa vuole di più? Si faccia santa e preghi per me.
Molto tempo Florenzia lo dedica alle lettere rivolte alle suore lontane o alle circolari che scrive per Natale o per Pasqua. Sono quasi sempre lettere serene e, se qualche volta deve rimproverare, lo fa con franchezza come con la stessa franchezza è pronta a chiedere scusa se si accorge di essere stata ingiusta o di avere ecceduto. Ma nell’ultimo anno di vita doveva avere un cruccio molto forte che serbava dentro di sé, anche se qualche volta prorompeva alla superficie.
La circolare del 31 marzo 1955 è particolare e sembra rilevare questo stato d’animo: “Il mio cuore materno – vi si legge dopo l’indirizzo alle “figliuole carissime” e l’annunzio dell’approssimarsi della Pasqua – sente il bisogno di manifestare i sensi di soprannaturale affetto che a voi mi lega, affetto purtroppo mal corrisposto perché, se il cuore delle figlie battesse all’unisono con quello della Madre, ben diversa sarebbe la vostra condotta. Soffro tanto nel considerare che voi non vi amate, non vi compatite scambievolmente, anzi spesso si deve constatare quello spirito di fazione, di ribellione, di mormorazione, di riferire i difetti delle consorelle trasportandoli di Comunità in Comunità, inasprendo gli animi e disseminando malanimo e discordie. Che piaga terribile!!! Figliuole care, perché amareggiare tanto il cuore di Gesù e quello della Madre vostra? Penso, però, che la Quaresima sarà stata un periodo di ravvedimento e che la S. Pasqua del 1955 segnerà per il nostro istituto l’inizio di un rifiorimento dello spirito di carità vera e sentita, che stabilirà nelle anime vostre e nelle vostre comunità la pace e la gioia santa che unisce i cuori a Gesù. Questo l’augurio sentito che la Madre vi fa giungere in questa S. Pasqua, fiduciosa che ognuna di voi coopererà a rimarginare questa piaga terribile che tende a distruggere lo spirito religioso nei membri della nostra cara Congregazione”.
E, infine, la conclusione: “Figliuole care, l’avvenire della nostra cara Congregazione è nelle vostre mani, scuotetevi e in questa Pasqua fate propositi santi”.
Critiche di questo tipo non erano usuali in Florenzia. Probabilmente negli ultimi mesi vi era una vena di pessimismo che l’amareggiava e che, di tanto in tanto, emergeva. Di più, proprio in questi ultimi mesi, scomparivano alcune compagne – suor Veronica e suor Nazarena – che erano state con lei fin dai primi momenti della creazione dell’istituto.
Il 18 febbraio 1956 Florenzia, che sente approssimarsi la propria fine, scrive a suor Pia, che era ancora in Sicilia, chiedendole, se possibile, di sospendere le visite in programma e tornare a Roma. È una lettera espresso che consegna alla segretaria generale per spedirla. Ma questa, oltre a spedire la lettera, decide di telefonare alla casa di Acireale dove era suor Pia per manifestarle le sue preoccupazioni. Niente di grave in apparenza, solo la pressione un po’ alta, ma il fatto che Florenzia avesse chiesto il rientro della vicaria l’aveva messa in allarme. La telefonata confermò a suor Pia alcuni presentimenti che lei stessa aveva avuto e così – “spinta da un incubo che la tormentava” – decise di partire senza frapporre indugi.
Il 19 suor Pia è già a Roma. Vi era arrivata la sera precedente a tarda ora, avendo viaggiato tutto il giorno, e non aveva voluto disturbare Florenzia. Ma la mattina del 20, alle nove, è già nella sua camera. La Madre sta benino e non sembra che sia prossima alla morte. È felice di vedere suor Pia e subito vuole essere messa al corrente di come vanno le cose in Sicilia e, in particolare, a Palermo e a Petralìa Sottana, dove vi erano stati problemi nella realizzazione delle nuove sedi. Parlano per tre ore fino a mezzogiorno e Florenzia vuole conoscere tutto, fin nei minimi particolari, delle case, ma anche delle suore, dei bambini assistiti, delle aspiranti alla vita religiosa, delle postulanti, delle novizie, delle opere di carità. Aveva nella sua testa, con grande lucidità, il quadro delle attività siciliane e con interesse voleva essere aggiornata.
Nel pomeriggio fa chiamare il padre francescano che le ha promesso la donazione di una villetta a Roma centro da parte di una benefattrice. È un problema che le sta molto a cuore. Ha sempre sperato – visto che Monte Mario risulta un po’ fuori mano – di potere avere una casa anche piccola a Roma dove potessero abitare le suore che dovevano frequentare le scuole. Meglio se fosse dalle parti di San Pietro, “per essere più vicine al Papa”. Il padre arriva subito e l’incontro si tiene nella cameretta di Florenzia, che lo accoglie seduta nella sua solita poltrona di legno, alla presenza di suor Pia e della segretaria generale. Ma padre Bernardo non ha novità e pare a Florenzia troppo evasivo. Essa, però, è pressata dal tempo che le sfugge e si rivolge al francescano con toni accorati: “Padre, Lei mi può aiutare, mi deve aiutare. Non ho più testa né gambe, non posso più muovermi, non posso più reggere l’istituto… Ci deve aiutare, segua la pratica della donazione della casa in città. Poi c’è da fare la chiesa, il progetto è pronto, desidero essere sepolta nella nuova chiesa vicina a Gesù, vicino alla Madonna, in mezzo alle mie figlie”.

2. Un transito sereno

  Quella del martedì, 21 febbraio 1956, fu la giornata fatidica. Pioveva e vi era umido e freddo. La mattina Florenzia non se la sentì di alzarsi per sedersi sulla sua poltrona come faceva sempre, ma rimase a letto. Questo fu il segnale che soffriva molto e le forze la sorreggevano sempre meno, anche se lei alle domande di come si sentisse rispondeva sempre “bene”. Chiese di parlare con don Traiano, il cappellano dell’istituto, ma questi era fuori sede e così suor Pia pensò di far venire il parroco di Nostra Signora di Guadalupe, che era la loro parrocchia e distava dalla casa un paio di centinaia di metri. Don Paolo arrivò subito e le suore gli suggerirono di dire che non erano state loro a chiamarlo, ma che era venuto di sua iniziativa per una visita di cortesia. Florenzia, che aveva compreso la preoccupazione delle consorelle, fu contenta di vederlo.
“Padre parroco, come faceva a sapere che stavo male?”, chiese con una punta di ironia.
“Madre – rispose sorridendo don Paolo –, il parroco sa tutto”. E, dopo questi convenevoli, la suora chiese di confessarsi. Dopo il parroco volle somministrarle il viatico, anche se Florenzia appariva serena nel volto, parlava e non manifestava nessun segno di crisi grave. Ed ora, aggiunse don Paolo, facciamo la comunione. “Non posso – rispose questa imbarazzata – ho fatto da poco colazione”. “Non importa – ribatté don Paolo –, la dispenso io”. E recitò le preghiere di preparazione e di ringraziamento alla comunione a voce alta e chiara.
Intorno al letto le suore, che nel frattempo, dopo la confessione erano sopraggiunte, prendendo posto nella stanzetta o sostando nel corridoio dinanzi alla porta, impietrite dal dolore, seguivano ogni suo movimento e ogni sua parola. Florenzia recitò alcune preghiere insieme al parroco, da sola ridisse la preghiera a Gesù crocifisso “Anima Christi”. Poi ripeté più volte: “Nel bel cuore di Gesù che mi ha redento, in pace io riposo e mi addormento”. Quindi, col suo solito sorriso, si fece aiutare a mettersi seduta nel letto e si mise a conversare col parroco chiedendogli perché da un po’ di tempo non invitava le sue suore ad andare in parrocchia e, in particolare, perché non le aveva invitate alla solenne festa dell’incoronazione della Madonna. Però, sia perché parlava piano, sia perché incespicava un po’ nelle parole, non si capiva tanto bene quello che diceva.
Si erano fatte già le 12,30 e, mentre conversavano, il parroco chiese se voleva amministrato quello che oggi si chiama sacramento dell’unzione degli infermi e che allora era conosciuta come estrema unzione. Florenzia acconsentì sorridendo, seguì attentamente tutta la cerimonia, vi partecipò con devozione, rispondendo “Amen” con voce chiara. Le suore, con il cuore straziato, seguivano i minimi movimenti della Madre, che in viso era serenissima.
In questo intervallo, arrivò anche il medico curante che le auscultò il cuore, disse che era un po’ debole, ma che non c’era una vera gravità, e andò via. Il parroco, a questo punto, volle darle anche la benedizione papale e, nell’atto che Florenzia ebbe Gesù crocifisso fra le mani, lo strinse forte e, a voce alta e chiara, disse: “Gesù, Gesù mio” e baciò il crocifisso con trasporto. Lo consegnò poi nelle mani del parroco, che lo posò sul tavolo, e ancora a voce alta disse: “Gesù, Gesù mio, Gesù bello”.
Quindi, rivolgendosi alle suore, disse: “Perdono tutte le suore, anche le più discole e benedico di cuore le vicine e le lontane”. Stette un po’ di tempo in silenzio, ringraziò don Paolo e questi, vedendo che stava benino, andò via. Erano le 13,30 e si era trattenuto per circa tre ore.
Accettò di mangiare qualcosa e volle alzarsi e sedersi sulla sua poltrona. Scesero a trovarla, per informarsi sulla sua salute, suor Biagina, che era stata a letto con acuti dolori intercostali, e suor Adele che, malgrado avesse la febbre, aveva voluto fare una visitina alla Madre. A questa, che le chiedeva come stesse, Florenzia rispose sorridendo: “Io sto bene, è lei che è tanto malata. Cerchi di salvaguardarsi”.
Le suore passarono il pomeriggio tutte intorno a Florenzia e – vedendola serena e attenta, come al solito, alla conversazione – si interrogavano perché mai il parroco avesse voluto amministrarle l’estrema unzione. A suor Ludovina, che durante l’assenza di suor Pia dormiva in camera con lei e, quindi, durante la notte si alzava diverse volte per assisterla, disse: “Lei vada a letto a riposare ora, io riposerò stanotte”. A suor Amalia, che di solito si occupava del bucato, disse: “Consegni presto la biancheria ad uso mio che mi servirà”. Riflettendo su queste frasi, suor Pia si chiese se fosse un indizio che Florenzia presagiva la propria morte. Ma non disse nulla a questo proposito. Alle 18,30 fece cena, mangiò come al solito e bevve acqua calda con succo di mandarino, perché sentiva freddo. Alle ore 19 volle che le suore andassero a cenare e rimasero a farle compagnia solo suor Ludovina e suor Amalia.
In questo intervallo, venne a trovarla don Traiano che era rientrato in istituto. Lei gli disse, contenta, che vi era stato don Paolo, di aver fatto la comunione e di aver ricevuto anche l’estrema unzione.
Se lei ha pazienza, Padre, vorrei esporle un ragionamento che sono venuta facendo in questi ultimi mesi e che è come un riassunto della mia vita spirituale. Il mio cammino spirituale. Il Padre le disse che era felice di ascoltarla e Florenzia riprese il discorso.

Interno della chiesa di Pirrera, oggi

“Vede, Padre, la cosa più importante nella mia vita è stata la preghiera, e cioè il dialogo con Gesù e con la Madonna. Ma forse, ancor prima della preghiera, è stato il silenzio. Le suore pensano che io sia un po’ fissata con il silenzio. E può essere vero. Con l’età anche alcuni valori finiscono con l’apparire manie. Ma per me il silenzio vuol dire l’incontro della mia anima con Dio. Il silenzio è una tale forza trasformatrice che ci fa scoprire la nostra povertà umana, la nostra incapacità, i nostri limiti. Il silenzio non è il nulla, ma è ascolto per cogliere la presenza di un altro che è oltre la percezione dei nostri sensi. Il silenzio è la premessa della preghiera, perché vuol dire fare spazio all’ascolto di Dio. Questo l’ho sempre saputo, fin da bambina, quando passavo lunghe ore in silenzio dinanzi al quadro della Madonna degli Angeli nella vecchia chiesetta di Pirrera a Lipari. E un giorno, il giorno della mia prima comunione, ho sentito finalmente la voce di Gesù.
Ho detto molte volte che “Gesù parla alle anime silenziose. Quando si accorge che nel nostro cuore si nutrono pensieri che non sono per lui, ci lascia sole e non si può conoscere la via che porta al cielo”. Sì, il silenzio è già preghiera. E la preghiera è stata per me l’alimento giornaliero, il sostegno a cui appoggiarmi nelle difficoltà. La preghiera fatta di ascolto e di dialogo. Dialogo con Gesù. Dialogo con la Madonna. Dialogo e meditazione. Anche il rosario è stato per me dialogo e meditazione. Un modo di comunicare con Dio lungo i misteri della fede.
Silenzio e preghiera sono fra loro connessi e uno introduce all’altro, così come la perfetta letizia e l’abbandono a Dio, che sono le altre tappe di questo cammino sulla strada dello Spirito.
La perfetta letizia è stato il passaggio, credo, più complesso. Mi riusciva difficile pensare come si potesse rimanere nella gioia interiore di fronte a eventi terribili, a disgrazie familiari, alla sofferenza che vedevi intorno a te. Il racconto di Francesco che torna da Perugia in una durissima notte d’inverno e, giunto al convento, non lo lasciano entrare, la prima volta che lo sentii mi parve una storiella, allo stesso tempo, irritante e divertente. Com’è possibile essere lieto, quando subisci un’ingiustizia? Com’è possibile non reagire?
È possibile – mi disse un giorno un frate francescano –, se al centro non ci sei tu, se non sei tu al centro dei tuoi pensieri, delle tue emozioni, del tuo mondo. Fino a quando non ti poni in un angolo e non occupi quel centro con Dio, non puoi. Per questo, la perfetta letizia pretende l’abbandono fiducioso a Dio.
Ho ancora nelle orecchie le parole di quel frate. Si chiamava padre Daniele e lo conobbi viaggiando sulla nave verso gli Stati Uniti e poi lo ritrovai a New York nella chiesa di Sant’Antonio. Quel viaggio verso l’America fu un momento importante della mia maturazione spirituale e, soprattutto, la notte terribile di tempesta quando pareva che dovessimo affondare e sentivo intorno a me grida e pianti. La mattina, la tempesta si era quietata e raccoglievamo morti e feriti. Allora mi sono detta che, se ero ancora viva, è perché l’aveva voluto Dio e, quindi, la mia vita non mi apparteneva più. Apparteneva a lui e dovevo vivere ogni momento nella gioia di servirlo. Da quel momento, per quanto forti fossero le preoccupazioni, mi dicevo che, se una cosa era bene che si verificasse, allora Dio avrebbe provveduto. Se c’era qualcosa che io avrei potuto fare, dovevo impegnarmi sino in fondo. Ma se le cose esorbitavano dalle mie possibilità dovevo affidarmi a lui.
Affidarsi a Dio non è lo stesso che fidarsi di Dio, è un passo in più. Vuol dire abbandonarsi a lui e avere la certezza che tutto quello che ti succede ha una finalità e questa finalità non può non essere buona perché viene da Dio. Le contrarietà sono le forti carezze di Dio. Le difficoltà, le prove arrivano perché Dio vuole saggiare la nostra fiducia in lui, ma lui stesso le avrebbe risolte. Alle mie suore, di fronte alle traversie, alle contrarietà e alle preoccupazioni, ho sempre detto: “Uniformiamoci alla volontà di Dio, il quale tutto sa risolvere per il nostro bene”.
Dio, Padre, non è mai stato per me un essere impersonale. È sempre stato una persona viva e vera. È stato Gesù e Gesù è stato l’unico e grande amore della mia vita. Gesù che mi parla attraverso la Scrittura, Gesù che mi parla nell’Eucaristia. Anche nella ricerca di Gesù Francesco mi è stato maestro. Il Gesù della povertà del Presepio, il Gesù dell’umiltà della Croce, il Gesù dell’annientamento dell’Eucaristia. Sono tre momenti che rendono Gesù vero, presente. Eppure fra questi tre momenti quello verso cui ho sempre provato un particolare trasporto è l’Eucaristia. Nell’Eucaristia Gesù si è annientato per rimanere con gli uomini per sempre. E così non siamo stati più soli. Alle mie suore, che si lamentavano qualche volta della solitudine in cui vivevano a Rosarno, a Castagnolino, in Brasile ho sempre ricordato: “Gesù dimora con voi e, quindi, avete tutto. Amatelo Gesù. Ditegli spesso: Gesù ti amo, resta con noi”. Per questo volevo che il primo pensiero nell’apertura di una casa fosse quello della cappella in cui celebrare la messa, possibilmente tutti i giorni.
L’Eucaristia è stata per me il centro della giornata e alle mie figliole dicevo di dividere la loro giornata in due periodi di raccoglimento: la prima metà in costante ringraziamento per l’eucaristia ricevuta la mattina, e la seconda mezza giornata vissuta nell’attesa della comunione dell’indomani.
L’amore per Gesù è stato il culmine del mio percorso. L’amore per gli uomini e, in particolare, per i più bisognosi non è che l’estensione di questo amore. Sì, l’amore è stato il movente di ogni aspirazione nella mia vita, di ogni opera intrapresa, l’amore che innalza all’Onnipotente un cantico di gioia, di gratitudine, di riconoscenza nel trambusto di una vita sacrificata, francescanamente vissuta. Nel povero mendicante, nell’ammalato che soffre, nella ragazza madre abbandonata, nel bambino senza affetti vedevo Gesù. Ho scritto alle mie figliole in Brasile, che tanti problemi hanno avuto nell’ospedale di Jatai: “Oh, come sarebbe bello, se in uno dei tanti ammalati trovaste Gesù in persona. Ma se non lo trovate visibile, lo troverete sempre invisibile. Quando avvicinate un ammalato, andate col pensiero che vedete Gesù”. E a tutte ho sempre ricordato che, quando un povero bussa alla porta, bisogna accoglierlo e aiutarlo, perché in lui c’è l’immagine di Gesù Cristo. Ecco, questo è il testamento che lascio alle mie figliole, un percorso per diventare sante non compiendo azioni straordinarie, ma affrontando i problemi di tutti i giorni lungo quella “piccola via” che ci ha indicato suor Teresa di Gesù Bambino”.

La casa della famiglia Profilio a Pirrera trasformata in casa di preghiera con la sua piccola cappella

Parlò a lungo Florenzia ed era veramente come se volesse consegnare a  don Traiano il proprio testamento spirituale. In alcuni momenti la voce sembrava spegnersi in gola ma, subito, riprendeva come se quel racconto fosse il canto della sua vita.
Dopo cena, il cappellano si incontrò con le suore e le tranquillizzò perché Florenzia era lucida e serena. Il tempo della ricreazione le suore lo passarono rimanendo attorno alla Madre e, all’orario delle preghiere serali, le chiesero la benedizione e andarono in cappella. A recitare le preghiere con Florenzia rimasero suor Pia e suor Ludovina e la Madre partecipò alle preghiere col solito fervore facendo sentire la propria voce.
Poi volle alzarsi e, mentre suor Pia le rifaceva il letto, suor Ludovina l’aiutava a sorreggersi. A un tratto esclamò: “Le forze mi vengono meno”. Subito suor Pia accorse e a stento le due suore la sorressero per fare quei pochi passi dalla poltrona al letto. Nell’attimo di mettersi a letto, Florenzia si sconvolse in viso e, mentre le suore cercavano di farle prendere la posizione più giusta che la aiutasse a respirare, chiuse per sempre gli occhi. Erano le 21 precise del 22 febbraio 1956,, l’orario in cui, in quel periodo dell’anno, la comunità andava a riposare. Subito accorsero le suore che si inginocchiarono intorno al letto e pregavano e piangevano. Accorse anche don Traiano per l’ultima benedizione e anche lui si raccolse in preghiera.

3. L’omaggio a Florenzia

Ricomposta la salma, le suore, don Traiano e le orfanelle più grandi, che chiesero di poter restare, passarono la notte in veglia di preghiera alternando, fra le lacrime, le orazioni con la lettura della passione e morte del Signore. 

La cerimonia dell’olio per la luce dinnanzi alla tomba di Madre Florenzia nella Cappella della Casa generalizia.

Il corpo rimase esposto nella sua stessa camera per due giorni, fino alle 18 del giovedì, quando Florenzia fu deposta nella cassa dalle sue stesse figlie e portata in cappella dove la bara rimase aperta tra una profusione di fiori e ceri accesi. Le suore vegliarono per tre notti e quasi tre giorni. La Madre per tutti i tre giorni conservò l’aspetto di una persona viva, soavemente addormentata, senza la freddezza e il pallore della morte.
Moltissime furono le autorità religiose, i sacerdoti, che vennero a sostare in preghiera. Così anche le suore della zona e poi un via vai di vicini, di parenti delle ragazze assistite, di famiglie amiche e di persone sconosciute. Le suore posarono sul corpo della Madre medagliette dell’Immacolata e piccoli crocifissi per poterli poi conservare come ricordo della defunta. La bara rimase aperta fino alle 10,30 del venerdì 24 febbraio. Quando si chiuse la bara, gli uomini addetti alla saldatura, avevano tentato di stendere le braccia lungo il corpo, ma fu inutile perché per ben due volte le mani da sole si ricongiungevano nella posizione primitiva, cioè a stringere il crocifisso, la corona del rosario e la santa Regola che erano sul petto.
Il  corpo di Madre Florenzia Profilio ora riposa nella chiesa della Casa generalizia dell’Istituto a Roma in via delle Benedettine. Dal luglio del 1980 è iniziato il cammino verso il riconoscimento della sua santità ed il 14 aprile 2018 il Santo Padre ha firmato il decreto col riconoscimento delle virtù eroiche della Serva di Dio e l’attribuzione quindi del titolo di Venerabile..
                                                                                           (10.Fine)

Coronavirus, in Sicilia altri 300 casi. L'Isola seconda per nuovi positivi, preoccupa l'incidenza settimanale

Sono 300 i nuovi positivi al Coronavirus in Sicilia su 9.523 tamponi processati, con l'indice di positività che è sceso a 3,1% (ieri era schizzato al 6,9%). È quanto emerge dal bollettino del ministero della Salute. Ieri erano stati 404 i nuovi casi a fronte di 5.832 tamponi processati. 
La Sicilia, attualmente, ha la seconda incidenza settimanale più alta d'Italia, 48, e precede la Sardegna con 62. Dopo 4 giorni senza decessi, oggi c'è, purtroppo, una nuova vittima. Salgono i ricoveri, sia quelli ordinari (5) che quelli in terapia intensiva (1). I guariti sono 41 in 24 ore.

Appello a Musumeci per il pontile di Ginostra. L'articolo del nostro direttore sulla Gazzetta del sud del 19 luglio 2021

Lipari: Convocato consiglio comunale per approvazione DUP e Bilancio di previsione 2020/2022


Operatori ecologici Uil nel Comune di Lipari. Nuova assemblea sindacale il 22 luglio



La solitudine dei cultori della cultura (di Pietro Lo Cascio)

Dopo un lungo torpore pandemico e stagionale, in questo principio d’estate Lipari sembra essersi felicemente trasformata in un’instancabile fucina di eventi culturali. Un’affollata rassegna cinematografica che ci ha proposto anche argomenti coraggiosi, un festival dedicato al complesso tema del dialogo tra arte e letteratura, la presentazione di un libro rigoroso ma coinvolgente sulla preistoria dell’arcipelago, una mostra di arti figurative e plastiche nel suggestivo spazio del chiostro normanno, e infine l’avvio del consueto ciclo di pomeriggi letterari, si sono avvicendati riempiendo di continui appuntamenti il calendario.

Di questi, nulla dobbiamo all’amministrazione comunale, che ormai da una decina di anni concentra i propri sforzi in materia – mi si conceda la perifrasi – esclusivamente in occasione della ricorrenza patronale.

Le iniziative sopra citate si devono invece a singoli e ad associazioni, spesso in collaborazione con il Parco archeologico, a parte la presentazione del libro che è stata organizzata da quest’ultimo. C’è solo da essere orgogliosi del fatto che una piccola comunità, una piccola isola, si sappia fare carico delle latitanze amministrative e vi sopperisca con generosi sforzi, perché la cultura è un bene comune.

La cultura è un bene comune, ma le occasioni culturali purtroppo no. A giudicare dalla partecipazione, questi appuntamenti sembrano infatti essere divenuti espressione dell’appartenenza a questa o a quella fazione, una sorta di disfida a chi mobilita meglio e di più.

I ghibellini del pomeriggio letterario non presenziano alla mostra del guelfo, il guelfo non assiste alle proiezioni dei servi della gleba, questi si materializzano solo in occasione della propria rassegna e, infine, gli stranieri del festival non se li fila nessuno, tanto sono stranieri.

Lo sciovinismo culturale è triste quando divide un continente o un Paese. Diventa grottesco, a mio avviso, quando divide una piccola comunità dove fare cultura è faticoso, impegnativo, difficile, dove per farlo bisogna inventarsi di tutto. Lo sciovinismo culturale è l’anticamera di un processo molto più pericoloso, l’autoreferenzialità.

Il mio non è un giudizio ma, avendo partecipato a tutte le occasioni sopra ricordate, ha il mero valore di una constatazione. Alcune possono essermi piaciute di più, altre meno; tuttavia, ognuna ha certamente lasciato qualcosa, e mi sento di ringraziare chiunque si sia speso e abbia speso per portare uno spiffero di conoscenza, un momento di riflessione o di approfondimento, uno stimolo al confronto.

Di solito in queste disfide non vince nessuno, ma perdiamo tutti.

Pietro Lo Cascio

E' deceduto Fabrizio Taranto

Domenica 18 luglio 2021, è, prematuramente volato al Cielo,

FABRIZIO TARANTO

di anni 39

Ne danno il triste annuncio Sabrina con i figli Danilo e Lucia, i genitori, la sorella, i suoceri ed i familiari tutti.

I funerali si svolgeranno martedì 20 c.m., alle ore 10, nella Chiesa di San Lorenzo in Malfa.

I familiari ringraziano quanti si uniranno al loro dolore.

Le onoranze funebri sono a cura della ditta ALFA E OMEGA di Lipari

Le condoglianze qui postate saranno trasferite dalla ditta ALFA E OMEGA alla famiglia


In ricordo di Mimmo Marturano (di Caterina Conti)

Ecco un'altro amico che ci lascia. 
Carissimo Mimmo abbiamo fatto quasi tutto il percorso della vita insieme tra suoni di chitarra e cantate nell'Isola di Vulcano. Dagli inizi del turismo alle Eolie sino ad
adesso. 
Abbiamo avuto una vita bellissima e siamo stati fortunati nell'aver vissuto in uno dei posti più belli del mondo. 
Mancherai a tutti noi e mancherai all'Isola.
Io ti dico un arrivederci a presto.
Caterina Conti

Un mare di cinema. Oggi presentazione progetto editoriale: Tutte le donne della mia vita". Interverranno la Izzo e Tognazzi



Diciannove luglio 2018: Le Eolie sulla Gazzetta del sud con un articolo del nostro direttore


 

Rifiuti: Rizzo denuncia grave situazione igienico - sanitaria

Spett.li Loveral, Comando Vigili Lipari, Ufficio Igiene, Municipio, Presidente Consiglio Comunale Lipari

Oggetto: Condizioni igienico sanitarie – Pirrera

Il sottoscritto in qualità di Consigliere del Comune di Lipari, Isole Eolie, premesso che
 anche a mezzo social ho accertato la grave situazione igienico-sanitaria verificatasi in data 12/07/2021 nella Frazione di Pianogreca in Lipari, segnatamente nella zona di “Pirrera” e “Collo Pirrera”;
 montagne di rifiuti risultano non raccolte e ammucchiate nei cassonetti e in prossimità degli stessi; a fronte dell’esose tariffe versate, l’utenza soffre a cagione di un servizio pessimo,
si chiede Alla ditta in oggetto di intervenire con urgenza, stante la gravità della situazione narrata.

Si inoltra al Comando Vigili per gli accertamenti in loco; all’Ufficio Igiene per l’irrogazione della penale prevista ope legis in caso di inadempienza contrattuale;
Si trasmette per conoscenza al Presidente del Consiglio Comunale e per adempimenti di competenza.
Francesco Rizzo (consigliere comunale)

Buon Compleanno ad Annunziata Rizzo, Bartolina Mantineo, Veronica D'Amico, Carmelo Picciolo, Michela Spinnato, Anamaria Amie, Rosy Mollica, Lidia Natoli, Antonio Fichera, Sara Cesario, Irene Alaimo, Maria Giovenco, Bartolina Puglisi, Fatima Sabihi, Mirabito Cristoforo

Oggi è il 19 Luglio. Buongiorno con questa cartolina dalle Eolie

ALICUDI

I festeggiamenti per la Madonna di Porto Salvo del 18.7.21 nel video di Giuseppe Cincotta

domenica 18 luglio 2021

Covid-19: 404 nuovi contagi, tasso di positività record. Nessun decesso

La Sicilia supera per il secondo giorno consecutivo quota 400 casi: l'Isola si attesta a quota 404, ma ad allarmare è l'altissimo tasso di positività, che arriva al 6,9 per cento. In altre parole i casi sono più o meno lo stesso numero di ieri, quando erano stati 431, ma i tamponi sono molti di meno, 5.832: ieri l'incidenza era meno della metà, il 3,3 per cento. 
Non ci sono vittime, così come nei tre giorni precedenti

Museo della pomice e parco a Lipari. Musumeci indica le mosse della Regione. L'articolo del nostro direttore sulla Gazzetta del sud del 18 luglio 2021



 

Personaggi sotto il sole delle Eolie: Ricky Tognazzi/Simona Izzo e Andrea Zenga/Rosalinda Cannavò


La nostra cucina che bontà!!!

Tognazzi e la Izzo sono al ristorante E Pulera; Zenga e Cannavò al ristorante Sangre Rojo

Grazie assessore Samonà (di Fulvio Pellegrino)

Roberto Marturano, Alberto Samonà
e Fulvio Pellegrino
Il gruppo Lega Isole Eolie, ringrazia ancora una volta l'on. Le Assessore ai Beni Culturali della Regione Sicilia Alberto Samona', per la dedizione e l'attenzione continua verso le nostre isole, la nostra cultura e le nostre immense ricchezze archeologiche.
Siamo soddisfatti del suo impegno e delle sue idee e delle azioni future che porteranno alla valorizzazione dei beni culturali e archeologici nonché delle bellezze naturali e storiche.
Fulvio Pellegrino (Commissario Lega alle Eolie)

I ringraziamenti delle famiglie Coluccio e Lo Schiavo

Video dell'intervento del presidente del consiglio comunale Biviano durante l'incontro tra Musumeci e civico consesso

Pubblichiamo un'ampia parte dell'intervento del presidente del consiglio comunale di Lipari, Giacomo Biviano durante l'incontro tra Musumeci e civico consesso. 

Il video si interrompe in quanto non ci hanno più concesso di proseguire da parte dello staff di Musumeci. 

Probabilmente quando abbiamo ottenuto di entrare nella sala di rappresentanza non si è capito che, con il collega presente, intendevamo registrare tutto l'incontro. 

Buon Compleanno a Emma Favata, Mariagrazia Longo, Laura Pavarin, Carmen China, Silvio Merlino, Aicha Rossi, Matteo Ventrice, Filippo Galletta, Lilli Sciacchitano, Vincenza Greco, Aurora Bianchi, Gabry Mirabito, Gianluca Lo Schiavo, Edda Paino

LA PAROLA. Commento al Vangelo di domenica 18 luglio 2021

I ringraziamenti della famiglia della signora Giovannina Ziino nata Falanga

A Lipari si festeggia oggi la Madonna di Porto Salvo


Madonna di Porto Salvo è uno dei titoli con cui è venerata Maria, madre di Gesù, come protettrice dei marittimi. La Madonna di Porto Salvo viene festeggiata dai cattolici in alcune località costiere italiane, quali Lipari.
 È principalmente venerata nel Sud Italia

Oggi è il 18 Luglio. Buongiorno e buona domenica con questa cartolina dalle Eolie

Marina Corta (Lipari) Foto : Giancarlo D'Ambra

sabato 17 luglio 2021

E' deceduto Domenico Marturano "Mimmo"

Le onoranze funebri sono a cura della ditta
ALFA E OMEGA di Lipari
Alla famiglia le nostre condoglianze

QUELLA DI FLORENZIA, UNA STORIA DA RACCONTARE di Michele Giacomantonio (Puntata 9 di 10)


Nona puntata
LA MISSIONE IN BRASILE

1. Verso una nuova esperienza

Brasile. La regione del Mato Grosso

Florenzia aveva sempre desiderato che la sua congregazione avesse un respiro missionario. Già nel 1905 al tempo della fondazione aveva pensato di qualificare in questo senso il suo progetto e, nel 1937, aveva scritto al vescovo di Acireale per conoscere le pratiche da compiere per aprire una casa in Africa orientale, ma il proposito non ebbe seguito.
Alla Madre venivano in mente questi ricordi, mentre padre Oderico, un cappuccino missionario in Brasile, in una mattina primaverile della fine di maggio del 1953, le parlava della drammatica situazione dei poveri e dei bambini in quelle terre, dove soprattutto l’ignoranza e, per quanto riguardava gli indios, un’esistenza disumana e priva dei diritti civili, erano alla base della fame e della miseria. Padre Oderico sperava che Florenzia accettasse di inviare in Brasile alcune suore per aprire una missione.
 C’è tanto lavoro da fare – spiega il missionario – e, per quanto qui la situazione sia difficile per moltissimi, non c’è paragone con la povertà di quei luoghi. Proprio stamattina ho letto un articolo sulla situazione economica e politica del Brasile. Questi sono anni drammatici segnati dall’inflazione e, soprattutto, da una corruzione dilagante che fanno di questo enorme paese al tempo stesso una realtà ricchissima per le materie prime e poverissima dal punto di vista sociale. Questo in generale, reverendissima Madre, ma nello stato di Goiàs nel Mato Grosso, che è la realtà che conosco meglio, la situazione è forse peggiore, anche se proprio in questa regione è stata progettata e sono iniziati i lavori per realizzare una nuova capitale, Brasilia. Questo vorrà dire investimenti e lavoro, ma c’è anche il rischio che si approfondiscano le forti lacerazioni sociali e il caos.
Dare il via a un’esperienza missionaria – osserva Florenzia – mi piacerebbe molto, è sempre stato il mio sogno. Soprattutto da quando abbiamo il riconoscimento pontificio. Mi è sempre rimasta in mente una conversazione che ebbi a New York con madre Francesca Cabrini, ora divenuta santa. A un certo punto mi disse: “Ho desiderato con forza aprire la casa generalizia a Roma ed avere il riconoscimento pontificio. Che senso ha fare i missionari nel mondo con un istituto riconosciuto solo dalla diocesi?”. Questa sua considerazione non l’ho mai dimenticata e mi ha sostenuto, quando, subito finita la guerra, volli venire a Roma proprio per realizzare questo programma. Ma noi siamo ancora poche e con risorse molto limitate.
La missione in Brasile potrebbe essere l’occasione per avere nuove vocazioni.
Sarebbe una grazia del Signore. Se lei ci aiuta, proveremo ad avviare anche questa esperienza. Ne parlerò al prossimo Consiglio. Certo, non posso pensare di accompagnare io le mie suore come ho fatto ancora fino a una decina di anni fa, sono ormai troppo vecchia e acciaccata, ma sceglierò io una a una le suore da mandare. 

La cappella della Casa generalizia a Roma
E il Consiglio approvò la proposta di Florenzia e, il 20 giugno 1953, si svolse nella cappella della casa di Roma la cerimonia del saluto alle suore missionarie: suor Matilde, che sarà la superiora, quindi suor Assuntina, suor Arcangela e suor Isabella. Florenzia dà lettura di una lettera che consegna poi a tutt’e quattro le suore. Raccomandiamo – dice fra l’altro la lettera – spirito di sacrificio e di abnegazione, amore sororale, rispetto e obbedienza alla Madre superiora, tale da essere la sposa fedele di Gesù e la degna figlia del Serafico Padre San Francesco. Il Signore la benedica e l’accompagni”.
Il 30 giugno partirono da Roma e il viaggio in mare durò 15 giorni, salpando da Genova e toccando Lisbona, Rio de Janeiro, fino a Santos, dove il viaggio via mare si concluse per iniziare quello via terra verso Sâo Paulo, Uberaba e, infine, Jatai.
Di questo viaggio, come della missione in Brasile, suor Matilde terrà un diario in cui andrà registrando fatti e sentimenti, a cominciare da quelli contrastanti che accompagnano le suore alla partenza: animo generoso, entusiasmo, cristiana rassegnazione, fede viva pensando di compiere i divini voleri, dolore per il distacco da Florenzia, dalle consorelle e dal proprio paese. Viaggiavano in terza classe, ma non era più la terza classe del viaggio di Florenzia per New York di sessant’anni prima. La nave era nuova, bella, pulita, anzi addirittura candida, e suor Matilde, suor Arcangela, suor Assuntina e suor Isabella avevano le loro cabine.
Durante la navigazione, le nostre suore conversano con gli altri viaggiatori, ma non trascurano le preghiere e le celebrazioni. Diligentemente suor Matilde annota nel suo diario che al pomeriggio c’è la recita del rosario, partecipata da parecchi passeggeri, nella grande terrazza della nave, alternata a canti popolari accompagnati dalla fisarmonica; poi la benedizione con altri canti alla Vergine in lingua italiana e spagnola. Quanto alle messe, vi erano diverse celebrazioni nei vari reparti e nelle sale di seconda classe alle quali le nostre suore avevano libero accesso.
Questo permette loro di fare amicizia con altre suore che viaggiavano in seconda e prima classe. Purtroppo non mancò il cattivo tempo e il mare burrascoso che, qualche volta, le costringeva a disertare i pasti e a rimanere in cabina distese sul letto perché il mare era così forte che era anche difficile stare in piedi. Ma c’erano anche le occasioni per grandi momenti di allegria e il tempo per imparare un po’ di portoghese. E questo, mentre aiutavano il cappellano a scegliere e copiare le canzoncine da cantare durante il rosario della sera, e a preparare alcuni bambini per la prima comunione.
  
Rio de Janeiro
Finalmente, il 15 luglio, si arrivò a Rio de Janeiro. Tutti sono sul ponte più alto per scorgere le montagne che si disegnano all’orizzonte e assistere all’avvicinamento verso questa terra nuova che, per molti, sarebbe dovuta diventare la loro nuova terra. Ecco finalmente il Corcovado, la montagnola a forma di pan di zucchero, con in cima la statua del Cristo.
Scese a terra, le nostre suore trovano chi le accompagna proprio ai piedi della statua da cui possono ammirare la città di Rio. Viene loro detto, e suor Matilde lo appunta sul diario, che solo a Rio si potevano contemplare i monti, perché per tutto il Brasile avrebbero trovato solo sterminate pianure e verdi boscaglie. Partiti da Rio, il giorno dopo sono a Santos che di fatto è il porto di Sâo Paulo, la meta del viaggio via mare.
Al porto, ad attenderle per aiutarle nel disbrigo delle faccende burocratiche, vi è padre Odorico.
Benvenute in Brasile, sorelle – esordisce il cappuccino –, prima di raggiungere Jatai che sarà la sede della missione, ci fermeremo otto giorni a Sâo Paulo, ospiti delle suore agostiniane per ambientarvi un po’ e cominciare a fare i conti con la lingua portoghese che credo non conosciate.
– Ne abbiamo avuto qualche saggio sulla nave – commenta suor Isabella – e abbiamo capito che è piuttosto intricata e difficile.
– In queste giornate – continua padre Oderico – visiteremo alcuni ospedali per vedere come funzionano, visto che questa in futuro sarà la vostra occupazione e incontreremo anche il vicario vescovile di Jatai dalla cui parrocchia dipenderete.
Come le suore agostiniane, anche il vicario fu molto affabile e disponibile con le nostre suore. Le agostiniane le sommersero di attenzioni e di consigli aiutandosi nella conversazione con i gesti, quando le parole non erano comprese e il vicario promise di prendersi cura di loro mettendole in guardia che proprio a Jatai la situazione era un po’ delicata, perché nel comprensorio vi era una discreta presenza di protestanti e la loro comunità aveva manifestato anch’essa interesse per l’ospedale.
– Ma sono sicuro –concluse salutandole – che con un po’ di sana prudenza e di carità cristiana tutto andrà per il meglio.

2. L’ospedale di Jatai

Da Sâo Paulo a Jatai andarono in aereo. A incontrarle a Jatai c’erano suore e frati  agostiniani, la dottoressa dell’ospedale col marito che erano bergamaschi. In macchina si andò subito a vedere la casa dove avrebbero vissuto. Vista da fuori, era nuova, graziosa, luminosa, vicino all’ospedale, ma dentro è lo squallore: un tavolo, quattro sedie e quattro letti, questo tutto il mobilio, inoltre mancava una pila per lavare. Lo scoramento più grande veniva dalla campagna circostante, dalle poche case sparse nei dintorni, da una polvere rossa che si infiltrava dappertutto fino nei polmoni. Un deserto, così parve subito la loro destinazione. E, di improvviso, furono sopraffatte dalla nostalgia per la patria lontana e dovettero fare forza sulle motivazioni più profonde per non cedere allo sconforto.
Si andò a salutare il vescovo e poi, per i primi giorni, fu deciso, fino a che si fossero ambientate, di rimanere ospiti delle agostiniane.
Le suore agostiniane sono affettuose e gentili – confidò suor Matilde alle compagne –, ma non ha senso che indugiamo. È bene che diamo inizio alla nostra missione in senso pieno. Oggi stesso prenderemo contatto con le autorità dell’ospedale per renderci conto del nostro lavoro e effettuare le consegne.
Così, già il 27, le nostre suore si trasferiscono nella loro casa e vanno a visitare l’ospedale. Nella casa si tratta di stabilire la routine degli impegni comuni.
Siccome non abbiamo una cappella – suggerisce la superiora –, le preghiere le recitiamo in salotto e tutte le mattine, subito dopo la meditazione, andiamo in parrocchia – anche se un po’ distante – per partecipare alla messa.
L’ospedale era una costruzione nuova e la cerimonia delle consegne fu, di fatto, una vera e propria inaugurazione con la benedizione di locali, la presentazione dei dottori, e la visita in infermeria dove ancora c’erano solo due ricoverati: una donna e un giovane, giunti proprio quella mattina.
Anche se in quel continente era inverno, continuavano a portare gli indumenti estivi perché, se pur l’aria al mattino era piuttosto fresca, spuntando il sole, sembrava estate. Inoltre, d’inverno per sei mesi praticamente non pioveva e la mancanza di acqua faceva aumentare quella polvere rossa che le costringeva a indossare tutti i giorni vestiti puliti e lavare la stessa biancheria in continuazione, perché la gran parte dei bagagli tardava. Quando arrivarono le casse con la biancheria e le masserizie, si pensò a sistemarle e si ottenne anche un armadio.
In ospedale le suore andavano tutti i giorni, si faceva l’inventario del materiale esistente e si curava che la pulizia venisse ben fatta. Si comperò una macchina da cucire e si iniziò a preparare lenzuola, cuscini, federe, indumenti per i dottori e la sala operatoria. Intanto, gli ammalati cominciarono ad arrivare, anche se alcuni giungevano appena in tempo per i sacramenti. Ciò che era più evidente - fra la gente che batteva alla porta dell’ospedale e quella che si incontrava per strada - era la miseria. Comunque, con gli ammalati le suore stabilirono un rapporto di fiducia e di stima tanto che, quando andavano via, persino i poveri, volevano sdebitarsi offrendo qualcosa per riconoscenza.
 Vi era sempre il problema della lingua e, nei primi tempi, fu un vero martirio farsi capire. Non era solo il portoghese e la parlata degli indios, vi era anche che in quella zona la pronunzia era più stretta e, quindi, la lingua più difficile a orecchie non abituate. Ma questo “martirio” aveva anche risvolti umoristici. La gente rideva a sentire le suore che si sforzavano di parlare portoghese e le suore ridevano per certe parole strane che pronunciavano i locali. La sera, nei momenti di ricreazione, facevano esercizio di lingua: dettato, copiato, lettura e fra loro scherzavano, perché si sentivano come scolare alla prima classe. Le domenica andava da loro una suora agostiniana ad aiutarle in questi esercizi.
Ma, per quanto le suore si prodigassero soprattutto per creare in ospedale un clima di collaborazione e di fiducia reciproca, i problemi non mancavano. C’era la barriera della lingua, ma l’incomprensione era ben maggiore. Approfittando dell’assenza del direttore che era in malattia, il personale assistente, le infermiere e gli aiutanti tendevano a crearsi spazi di autonomia, osteggiando le suore per sottrarsi al loro controllo, facevano cioè da padrone e le suore sopportavano tutto in silenzio. Anche quello dei pasti era divenuto un problema. Non riuscendo ad adattarsi ai cibi brasiliani, le suore avevano preso a cucinarsi per loro conto qualche piatto italiano. Ma proprio questo scatenò critiche e  sospetti. Si diceva che consumavano troppo olio, che si appropriavano dei viveri di prima scelta, ecc. Così furono costrette a cucinarsi i pasti nella loro casa.
Persino il fatto che sollecitassero un contributo veniva criticato e negato secondo la tesi che, essendo suore, avrebbero dovuto lavorare gratuitamente, visto che si trattava di un’opera di carità che aveva solo un finanziamento dello Stato, il cui importo era insufficiente e, quindi, erano necessari contributi dei privati.
Dovette intervenire il vicario e parroco di Jatai, per chiarire quali fossero le condizioni per il lavoro delle suore. Si superò così, dopo mesi, quella condizione di estrema povertà in cui erano state costrette a vivere fin dal loro arrivo. Ma il clima dei rapporti continuava a non essere dei migliori.

3. Florenzia e la missione 
Florenzia seguiva la missione delle sue figliole, da Roma, con partecipazione e apprensione. Avrebbe voluto sicuramente essere ancora lei ad aprire con loro questa nuova pista, ma era rassegnata a seguirle solo col pensiero e la preghiera. Ogni sera verso le 21, guardando dalla terrazza un aereo alto nel cielo, soleva dire: “Questo mi porta la lettera delle suore del Brasile”. Capitava che il giorno dopo il postino recasse davvero questa lettera e lei, tutta felice, commentava: “Ve lo dicevo io!”.
Si preoccupava di ognuna. Dava consigli e rincuorava. Prima di ricevere la prima lettera da loro, ne aveva spedite tre. Alla lettera risponderà immediatamente e confesserà: “Quando riceviamo una vostra lettera, è una festa per noi, specie per la sottoscritta che ne vorrebbe una al giorno”.
È felice di sapere che si stanno abituando al clima e all’ambiente, ma si preoccupa per la loro salute e per il vitto che risparmiano per non pesare troppo sull’ospedale. Consiglia di procurarsi una cucinetta in casa per prepararsi un uovo o qualche altra pietanza di loro gusto. Consiglia di stare attente e tenersi tutte in salute, perché sarebbe un disastro se qualcuna si ammalasse. Considera l’assegno di 20 mila lire che finalmente hanno ricevuto per il lavoro in ospedale e, se da una parte, le sembra poco, dall’altra osserva che però ricevono anche il vitto. È contenta di sapere che tutt’e quattro lavorano all’ospedale, ma è preoccupata per suor Assuntina, a cui è legata da particolare affetto, perché a Roma si prendeva cura di lei e sa come è facilmente impressionabile di fronte alle malattie. Prega la superiora di toglierla dall’assistenza diretta degli ammalati, perché potrebbe cadere lei stessa malata. Meglio farle fare la guardarobiera o la sorvegliante in cucina. Apprende che vi è una terra destinata alle suore a Rio Verde, paese poco distante, e pensa subito che col tempo si potrà aprire una casa anche lì. Quando legge che suor Matilde le chiede di inviare altre suore istruite e al più presto perché il lavoro è tanto, ha una reazione immediata. “Lei sa lo scarso numero che siamo nella nostra comunità… Come si permette dire tali cose, mia cara. Lei è partita da qua, col pensiero di avere costì delle vocazioni e mandarle qua, invece chiede aiuti e suore istruite. Mi sembra che non si ragiona, cara Superiora, stia tranquilla, si sottometta con tutto il cuore ai voleri di Dio e il Signore la colmerà di grazie”.
L’irritazione, però, è frutto di un momento e Florenzia torna a preoccuparsi per le sue figliole.
“Cara Superiora, lei dev’essere di cuore grande, coraggiosa e avere molta fede in Dio. Mi è stato detto che costì vi sono le Suore Francescane missionarie e, quando sono arrivate, nessuna accoglienza hanno avuto e sono state all’aperto notte e giorno per molti giorni; vi sono anche le suore dove va a prendere lezione suor Benedetta e hanno pianto per sei mesi. Voi siete state ricevute con tanta carità, quindi, cara Superiora, la prego di fare il tutto per imparare la lingua ed anche imparare a scriverla così potete fare scuola e con la scuola tanto bene. Le suore, che dovrebbero venire costì, dovranno essere istruite e sapere parlare bene il portoghese, ma per questo passeranno diversi anni.
 Il fico maturo si prende dall’albero e si mette in bocca, ma per le altre cose si richiede tempo e poi la tristezza sarà cambiata in gioia”.
La suora nella sua lettera le ha parlato della miseria che c’è dovunque e della tristezza che le assale di fronte a questa visione e alla consapevolezza di poter fare troppo poco. Florenzia cerca di consolarla e teme che le consorelle possano cadere in depressione; per questo consiglia di non pensarci troppo: “Quelli sono nati nella miseria e non vi fanno caso, lei li raccomanda al Signore, se può beneficarli con qualche cosa lo faccia ed il Signore gliene darà merito”. Poi si rivolge direttamente a suor Matilde, che ha responsabilità della missione, e le consiglia che “quando si sente abbandonata e desidera sfogare in pianto, lo faccia pure, pianga e sfoghi il suo cuore innanzi al crocifisso che porta al fianco”. Quindi la conforta ancora e la prega di non impressionarsi perché povere si trovano in una terra sconosciuta, senza conoscere la lingua. Il buon risultato si vedrà piano piano e non in un sol colpo. “Si vedrà dopo che starete diciotto anni come sono stati gli altri e anche voi avrete scuole e noviziato e molte case aperte”.

4. L’ospedale al centro di tensioni
Le tensioni in ospedale non distraggono le suore  ad  apportare miglioramenti alla loro casa. Così fu realizzata la cappella che divenne un punto di riferimento per tutti gli abitanti della zona. Presto essa non fu più sufficiente e si dovette cercare una stanza più grande e procurarsi altri banchi. La domenica era sempre gremita di gente.
Via via che l’ospedale si riempiva di malati, aumentavano i problemi per il loro sostentamento e quello del personale, perché i contributi che arrivavano erano insufficienti e la superiora, quale direttrice dell’ospedale, non sapeva come fare quadrare i conti. Spesso, inoltre, venivano messe di fronte a decisioni già prese senza consultarle come fu per il corso delle vincenziane sull’organizzazione e per la formazione delle infermiere. Si dovettero comperare in tutta fretta letti, materassi, lenzuola, coperte, biancheria e allestire un locale per le due suore e un altro per le alunne. Per fortuna con le vincenziane si creò un buon rapporto e si viveva concordi e in armonia. Il corso fu proficuo anche per le nostre suore. Suor Assuntina non solo riuscì a vincere le sue resistenze a occuparsi dei malati, ma frequentò il corso, lo superò e imparò così bene da poter dirigere lei, in seguito, le allieve. Nell’occasione vennero anche infermiere diplomate da Rio, provette e competenti, che contribuirono a valorizzare l’ospedale in cui aumentò il numero degli interventi chirurgici.
Quando le vincenziane andarono via, lasciarono una relazione di encomio alle Suore Francescane per l’accoglienza data loro e per l’impegno nell’ospedale, fecero un elenco delle cose necessarie che ancora mancavano e chiesero che venissero donate alle suore, per la cappella, le statue di san Francesco e dell’Immacolata.
Ma più passava il tempo e più la situazione economica dell’ospedale peggiorava perché aumentavano i malati e anche i dottori e il personale, mentre le risorse rimanevano sempre le stesse. Le suore, che avevano la responsabilità della direzione e della gestione, non sapevano come fare, ma nessuno se ne curava. Chiesero che venisse assunto un buon economo, ma la richiesta sembrò cadere nel vuoto. Così si viveva a credito ed erano già quattro mesi che non si pagavano la farmacia, l’energia elettrica e tutto il resto che era necessario. Finalmente arrivò il tanto atteso economo, ma l’unico risultato che si ottenne fu quello di mettere tutti d’accordo – dottori, personale e suore – contro il suo modo di gestire che faceva mancare perfino il necessario.
Comunque, le preoccupazioni delle suore sembrarono diminuire perché ora c’era chi si doveva occupare di fare quadrare i conti. Non si alleviò, però, la loro povertà che veniva mitigata dalle cortesie delle suore agostiniane.
Come se i problemi esistenti all’ospedale non bastassero, ne emerse uno nuovo che mise in discussione la pace religiosa. Andarono via due infermiere e vennero sostituite da altre quattro di confessione protestante. E siccome non si sopportavano con le infermiere cattoliche, litigavano in continuazione. Il direttore era rientrato, ma non faceva niente per superare questi problemi anche perché aveva esigenze elettorali e non voleva inimicarsi nessuno. E così la litigiosità divenne endemica e investì ciascun membro del personale.
Per di più il vicario, che aveva accolto le suore e le aveva sempre protette, lasciò Jatai. Anche se il nuovo sacerdote che lo sostituì era virtuoso e buono, non aveva, però, l’esperienza e l’autorità del suo predecessore e le suore si sentirono più sole e sempre più abbandonate. Non sapevano più a chi rivolgersi per chiedere protezione dai soprusi che in ospedale non mancavano anche da parte di qualche dottore.
Dopo qualche mese, le infermiere protestanti andarono via perché stufe degli scontri continui. Con le suore non avevano mai avuto problemi, ma queste tirarono ugualmente un sospiro di sollievo, perché erano preoccupate per la tensione in ospedale e temevano sempre che potessero fare del proselitismo fra i malati. Infatti, partite le infermiere, in ospedale si visse un periodo di pace e di serenità, ma era un equilibrio instabile, perché i problemi di fondo relativi ai finanziamenti non erano stati risolti.
Proprio per questo suor Matilde cercò di vedere se riusciva, impegnandosi direttamente, a smuovere la situazione. Quando nel luglio del 1955 dovette andare a Rio de Janeiro per il Congresso eucaristico, ne approfittò per interessarsi dell’ospedale. Andò al Ministero della Salute e si incontrò con alcuni deputati del Goiàs per chiedere maggiori finanziamenti pubblici. Tentò anche una questua presso le famiglie italiane ricche di Rio, ma ne ricavò solo umiliazioni.
Così, quando fu il momento di tornare, era visibilmente delusa e sconfortata.
Che cosa ha suor Matilde? Che cosa la angustia?, le chiese la superiora delle suore italiane presso cui era alloggiata.
Torno a Jatai e trovo in ospedale i problemi di sempre. Mi ero illusa di riuscire a scuotere la sensibilità delle autorità e delle famiglie ricche di Rio, ma è stato un buco nell’acqua. È difficile dirigere un ospedale senza risorse; tutti i malumori e anche i sospetti si scaricano su chi ha l’incarico della gestione, cioè su noi suore.
So che cosa intende dire, suor Matilde – la confortò la superiora –, perché anche noi gestiamo un ospedale per fortuna senza i problemi che avete voi. Che vuole che le dica. L’unico consiglio che mi sento di darle e che, se non vede possibilità di miglioramento, è meglio che abbandoniate Jatai al più presto e vi trasferiate in un’altra città del Brasile. C’è una grande richiesta di suore che sappiano gestire un ospedale.
Abbandonare Jatai e trasferirsi altrove? Suor Matilde non poteva dire che non ci avesse mai pensato. Ma era un pensiero fugace nei momenti di maggiore disperazione. Il pensiero di un istante che non era mai stato preso in seria considerazione. Avrebbe voluto dire dichiarare fallimento e poi che cosa avrebbe detto Florenzia e il vescovo di Jatai?...
Ma più trascorreva il tempo più la situazione si deteriorava. Soprattutto i rapporti delle suore con l’economo che, essendo zio del direttore e amico del deputato locale, non perdeva occasione per denigrarle sostenendo che non lavoravano ed era costretto lui a occuparsi di tutto. I dottori avrebbero potuto smentirlo, ma scelsero la linea del comportamento ipocrita e tutto questo contribuì ad avvelenare ulteriormente il clima.

Ma se suor Matilde non sapeva come fare, c’era invece chi il problema se lo stava prendendo a cuore. Padre Oderico, infatti, che aveva avuto modo di parlare a Rio con suor Matilde della loro condizione, ai primi di settembre cominciò a interessarsi per trovare una migliore destinazione per queste suore, giacché si sentiva responsabile essendo stato lui a volerle in Brasile. E l’impegno del frate cappuccino diede i suoi risultati. Suor Matilde ricevette una sua lettera che la invitava a Cravinhos, nello stato di Sâo Paulo, dove il vicario cercava delle suore per dirigere l’ospedale del posto.
Si trattava di una prospettiva. Certo non andava ignorata, ma la situazione doveva essere valutata bene. Questo fu il giudizio unanime della piccola comunità, quando a sera suor Matilde mise le sue compagne al corrente della proposta. In realtà, le nostre suore non avrebbero voluto lasciare Jatai e speravano sempre in un miglioramento della situazione. Ma era un miglioramento di cui non si scorgeva la minima possibilità. Anzi, oltre al resto, prendeva piede un’attività tutta clientelare del direttore, sostenuto dallo zio economo, che faceva trattamenti di favore, esonerando dal pagamento, per amicizia o per convenienze private, assistiti benestanti e, comunque, in grado di pagarsi le prestazioni mediche. Contro questa pratica la superiora scrisse una lettera alla presidenza dell’ospedale, preoccupata che lungo questa china si sarebbe arrivati al fallimento e, quindi, alla chiusura. Ma non ricevette alcuna risposta anche perché, alla presidenza, erano stati prevenuti dall’economo che con i membri di questa aveva rapporti diretti. Quanto ai rapporti interni, lo stesso economo, che con ogni probabilità voleva liberarsi delle suore, cominciò a sostenere la tesi, spesso in forme provocatorie, che vi erano differenze notevoli di prestazione e capacità fra cattolici e protestanti e che solo questi ultimi sapevano educare la gioventù. E non si trattava solo di discussioni teoriche. Queste vennero presto accompagnate anche da tentativi di licenziamento nei confronti di infermiere cattoliche che le suore, a fatica, riuscirono a evitare. Malgrado tutto, si cercava di curare al meglio i ricoverati e questi, osservando i soprusi che le suore pativano, restavano ammirati della loro sopportazione.
Così le suore decidono che, senza dare pubblicità alla richiesta, avrebbero cercato di verificare la prospettiva di Cravinhos.
  
5. Si apre una nuova prospettiva
A gennaio del 1956, suor Matilde e suor Assuntina raggiungevano a Cravinhos padre Oderico per incontrare il parroco e il prefetto della cittadina. Si parlò della direzione dell’ospedale e il prefetto offrì un vasto terreno per realizzare la casa del noviziato. Il parroco avrebbe voluto che accettassero subito e, per convincerle, le portò a visitare l’ospedale. Era una struttura, poterono constatare con soddisfazione, meglio attrezzata e organizzata di quella di Jatai. Suor Matilde propendeva per il sì, ma dovevano prima consultarsi con Florenzia.
D’accordo – dice il parroco –, ma a condizioni che la vostra accettazione sia certa e che vi troverete a Cravinhos prima di Pasqua.
Noi – aggiunse il prefetto – siamo disposti a fare qualunque spesa. Anche a realizzare, annesso all’ospedale, l’appartamento delle suore, garantendo una buona retribuzione mensile.
Sembra che sia questa la volontà di Dio – commentò suor Matilde –, accettiamo, ma vi chiediamo di attendere il tempo di ottenere il beneplacito da Roma, che sicuramente sarà positivo.
Erano tutti soddisfatti e contenti.
La missione era praticamente conclusa ma, prima che tornassero a Jatai, padre Oderico voleva che conoscessero padre Donizzetti, un sacerdote che veniva considerato un santo e viveva in un paese vicino. Così lo vanno a trovare. Il padre le accoglie con grande affabilità e conversa a lungo con loro esortandole anche lui a trasferirsi a Cravinhos, ma anche a disporre il proprio animo alle sofferenze, perché la vita che avevano accettato era dovunque difficile.
Prima di salutarle, vuole che passino da casa sua per offrire loro un caffè. In realtà, vuole che tocchino con mano la sua azione pastorale. Infatti, dinanzi alla sua casa vi è un via vai di persone, per lo più povere e derelitte, che vanno a trovarlo prospettandogli i propri problemi, le malattie e per mostragli le piaghe. Con tutti parla del Vangelo e, al tempo stesso, compie delle guarigioni che sembravano impossibili e incredibili e, quindi, miracolose.
Il giorno dopo, prima di prendere l’aereo, le nostre suore vanno a trovare il vescovo, della cui diocesi Jatai fa parte, per parlargli della proposta che hanno ricevuto. Il vescovo è contrario a questo trasferimento, perché teme che il lavoro fatto vada in fumo e i protestanti prendano il sopravvento.
È vero, Eccellenza – risponde suor Matilde –, ma Jatai sembra un vicolo cieco, mentre rinunciare a Cravinhos vorrebbe dire gettare via una grande prospettiva per il nostro istituto. Certo, se fossimo più numerose in Italia, potremmo chiedere di mandare qui altre suore per continuare a gestire Jatai senza sacrificare Cravinhos. Ma è una richiesta che non mi sento nemmeno di fare alla mia superiora generale.
Infatti, Matilde ha ancora ben presente la reazione di Florenzia, anche se in seguito la stessa Florenzia aveva ripreso l’argomento per scusarsi: “Cara superiora, io le chiedo scusa di averla mortificata ma, se mi crede, certe volte mi sento la testa così confusa per tanti discorsi che sento che non sono buona a formulare un pensiero. Lei, tanto buona, mi saprà compatire… Mia cara, lei ha più che ragione a volere estendere l’opera trovando delle buone occasioni, ma dove si prendono le vocazioni? Noi tutti i giorni preghiamo la Vergine santissima che ci mandi delle buone vocazioni e speriamo che appagherà le nostre brame, ma si richiede del tempo. Fidiamo in Dio”.
Oggi non è possibile, ma speriamo nel futuro, questa sarebbe stata la risposta da Roma con la sollecitazione a guardarsi intorno anche lì per trovare delle vocazioni, e di interessare, a questo fine, i parroci dei paesi vicini.
L’incontro col vescovo rimane così senza una conclusione lasciando ognuno sulle proprie posizioni.
Intanto, a riprova che Jatai era un capitolo da chiudere al più presto per le suore, giunge il 2 marzo 1956 con una solenne cerimonia in ospedale per consacrarlo al Cuore di Gesù. Suor Matilde sperava che la consacrazione potesse concorrere a migliorare la situazione interna, ma non fu così. Anzi, proprio in quei giorni, si arrivò a uno scontro aperto col rappresentante della presidenza dell’ospedale, oltre che col direttore e l’economo. Il conflitto partì dal licenziamento di un’infermiera. La motivazione? Costava troppo e non rendeva altrettanto.
Era chiaramente un pretesto e suor Matilde pensò che fosse giunto il momento di mettere sul tappeto tutte le loro rimostranze. Ma se credeva di trovare nel responsabile parole di comprensione e rassicurazioni, si sbagliava. Questi reagì con estrema durezza e, dimostrando di avere una consonanza di vedute col direttore e l’economo, accusò la superiora di avere troppe pretese e che la crisi era dovuta al fatto che proprio lei aveva speso troppo, nei pochi mesi in cui aveva avuto la responsabilità della gestione e così via.
Questo scontro lasciò una situazione di estremo imbarazzo ormai insostenibile, anche perché, al di là dell’atteggiamento verso le suore, la stessa struttura era ormai allo sbando. Ognuno decideva per proprio conto e le decisioni di un giorno venivano annullate in quello successivo. Vi erano dottori che procuravano aborti e le infermiere, rifiutando di coadiuvarli, si appellavano alle suore. Ma queste, se intervenivano, erano umiliate dalla direzione. Questi episodi non potevano che confermare la volontà di lasciare Jatai, malgrado le resistenze del vescovo, che però non faceva nulla perché la situazione cambiasse. Per organizzare la partenza ormai si aspettava solo la decisione di Florenzia.
In questa situazione di avvilimento giunse, alla vigilia di Pasqua, la notizia che Florenzia era morta. Fu un colpo duro perché inaspettato. Le suore si chiusero in lutto per piangere la Madre scomparsa, ma siccome si era in periodo pasquale, si dovette aspettare il 10 aprile per celebrare le esequie nella cappella. Intanto, insieme alla notizia della morte, era giunto il consenso ad abbandonare Jatai per trasferirsi a Cravinhos. 

La casa di Cravinhos quando arrivarono le suore.
Era l’ultimo atto di governo della sua congregazione che Florenzia aveva compiuto, prima di chiudere gli occhi per sempre. Negli stessi giorni arrivava una lettera del parroco di Cravinhos che informava che il contratto che le suore avevano inviato due mesi prima era stato ponderato dal vescovo locale, dalle autorità dell’ospedale e da lui stesso, ottenendo da tutti il pieno consenso. Mancava solo il consenso del vescovo della diocesi di Jatai. Per convincerlo fu necessario che ci si appellasse a Roma, ma alla fine anche questo scoglio fu superato.
Il 19 maggio giunge una lettera di padre Oderico che dava alle suore appuntamento per il 24 maggio all’aeroporto di Uberaba. Solo cinque giorni per preparare la partenza, con tanta pena nel cuore perché, malgrado le sofferenze e le umiliazioni, in quei luoghi avevano investito anche tanta passione e tanta speranza. All’ospedale salutarono i dottori che non volevano credere alla loro dipartita, le infermiere e il personale inserviente. Andarono anche a trovare il direttore a casa, ma non fu possibile incontrarlo, mentre la moglie ebbe la cortesia di comunicare loro che non si sarebbero curati molto della loro perdita. Comunque, si lasciarono a lei i documenti e gli inventari.
Il commiato più sincero e commovente fu con le Suore e i Frati Agostiniani che li accompagnarono anche all’aeroporto. Qui, a salutarle, c’era anche il personale dell’ospedale e un dottore con le infermiere.
  
6. Il tentativo di vocazioni brasiliane
Uno dei punti che Florenzia continuava a sollecitare era che si cercassero delle vocazioni in Brasile e, a dire il vero, durante la permanenza a Jatai le suore avevano vissuto anche un’esperienza in questa direzione che, purtroppo, non era andata a buon fine.
L’esperienza era iniziata l’8 dicembre 1954. Alla casa si presentò una donna che insisteva perché la figlia quattordicenne venisse ammessa al corso di infermiera. Ma la ragazza non aveva l’età e non si poteva fare niente. La povera donna, che aveva gravi problemi a mantenere le figlie, sconfortata insisteva e, alla fine, chiese che almeno potesse rimanere nella casa per divenire suora. Impietosita, la superiora acconsentì ad accoglierla per alcuni giorni per conoscerla meglio. E disse alla donna di andare a prendere gli indumenti della ragazza e di riaccompagnarla il giorno dopo. Il giorno seguente, la donna tornò contenta e allegra, ma aveva con sé non una ma due figlie. Vi era, infatti, anche la più piccola di solo 12 anni che, con grazia, chiese di poter rimanere con la sorella. Così si accettarono come esterne e subito si scoprirono volenterose e buone, docili e ubbidienti, di modo che, dopo la festa di Natale, si acconsentì a farle restare come interne. Erano le due prime vocazioni della missione.
Il 6 settembre arrivò alla casa una giovane di Rio Verde, indirizzata dal parroco del luogo, che voleva avviarsi alla vita religiosa. A suor Matilde, dopo un colloquio, non parve che la ragazza avesse predisposizione per la vita religiosa, ma siccome era povera e abbandonata dal padre che si era fatta una nuova famiglia, la si accettò. Così la missione ora aveva due postulanti e una piccola aspirante.
La più piccola era molto discola, ma anche le altre davano preoccupazioni. Soprattutto la più grande, quella venuta da Rio Verde, che aveva ormai 22 anni e sarebbe potuta divenire novizia. Invece, il suo comportamento andava peggiorando con il passare dei giorni. Non ubbidiva, era invidiosa e diverse volte la superiora fu sul punto di rimandarla a casa, ma ogni volta questa chiedeva perdono e prometteva di cambiare.
Prima di Pasqua, tornando suor Assuntina da un corso di formazione presso l’ospedale di Goiània, portò con sé una ragazza di 15 anni che diceva di volersi fare suora. Anch’essa era povera con una famiglia disgregata e, quindi, la si prese per spirito di carità. Subito si scoprì, però, che le postulanti più grandi non la vedevano di buon occhio ed erano maturati malumori e invidie. Suor Matilde cercava di rimediare a questi screzi, suggerendo alle più grandi comprensione e compatimento e, all’ultima arrivata, l’esigenza di adattarsi alle regole stabilite.
Gli sforzi della superiora andarono alla fine in porto, ma non nella direzione da lei sperata. Le tre ragazze si misero d’accordo fra loro per farle un odioso dispetto proprio nei giorni del lutto per Florenzia. Scoperte, reagirono con ipocrisia e arroganza, tanto che suor Matilde si convinse che non c’era più nulla da fare e che, senza indugiare oltre, bisogna rimandarle a casa tutte, anche la più piccola che si era lasciata trascinare dalle altre. Questa, che di nome faceva Lenzia e ora aveva 13 anni, si era molto affezionata alle suore. Quando la madre andò a riprendersela, fu difficile distaccarla dalla superiora e, piangendo, implorava di perdonarla e di non mandarla via. Tre giorni dopo, era di nuovo alla casa dicendo che non voleva vivere con la madre che faceva una vita dissoluta. Prometteva fedeltà e sosteneva che divenire suora è la sua vocazione.
Le suore si commossero e le consentirono di fermarsi in attesa di decisioni. Ma nei giorni successivi vennero a reclamarla: prima un cugino con prepotenza, e poi la stessa madre. Lenzia al cugino rispose con durezza e lo mandò via. Ma alla fine acconsentì a seguire la madre promettendo alle suore che sarebbe tornata. Questo non avvenne. Si concludeva così, con un apparente fallimento, non solo la prima esperienza di postulantato in Brasile, ma la stessa missione.
  
7. Un nuovo inizio a Cravinhos
A Cravinhos, il 28 maggio sera, furono accolte da una popolazione festante che in processione si recò alla chiesa madre e, sul piazzale della chiesa, ci furono i discorsi di benvenuto del parroco e del prefetto e di presentazione delle suore alla popolazione. Quindi la cerimonia in chiesa con il canto del Te Deum.
Fin dal giorno dopo, le suore iniziarono il loro lavoro e il loro apostolato fra gli ammalati dell’ospedale chiamato “Santa casa”, dove riscossero la piena fiducia del presidente e dei dottori. Collaborarono anche in parrocchia con l’insegnamento catechistico ai piccoli e agli adulti, preparando uomini e donne a ricevere per la prima volta il sacramento della penitenza e dell’eucaristia e spronando a regolarizzare matrimoni.
Finalmente, giunsero le vocazioni di due ragazze brasiliane che chiesero di fare parte della comunità come postulanti. Era una grande fortuna tanto a lungo desiderata. Le due ragazze vennero accettate a poca distanza l’una dall’altra e furono di valido aiuto perché, oltre alla vocazione religiosa, avevano anche quella di infermiera.
Cravinhos rappresenterà un nuovo inizio che aprirà la strada ad altre esperienze sia in Brasile, sia in Amazzonia, sia in Perú, e ancora oggi è uno dei punti di forza dell’esperienza missionaria dell’Istituto.
 (continua) 


Il chiostro del Duomo adottato dal Rotary. L'articolo del nostro direttore sulla Gazzetta del sud del 17 luglio 2021

Buon Compleanno a Domenico Russo, Daniele Profilio, Susanna La Greca, Simone Cincotta , Antonio Mandile, Roberta Natoli, Marinella Lazzaro, Vanessa D'Auria, Giancarlo Scoglio, Daniela Mantineo, Emanuel Raffaele

Qui Munnizzopoli. Differenziata ad Acquacalda: Che disastro!. Ci scrive la signora Capitti

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Riceviamo e pubblichiamo:
Buongiorno, 
sono Graziella Capitti mi scusi se la disturbo. 
Vorrei, se possibile, segnalare il mancato ritiro della spazzatura ad Acquacalda. 
La plastica mi è stata ritirata dopo una settimana, l'umido sia giovedì che oggi mi è stato lasciato, passi per il vetro ma l'umido come si fa a tenerlo dentro altri due giorni? 
Tutta la mia solidarietà per i lavoratori, mio marito è un ex Pumex e Lei sa la storia. 
Metto sacchetti o borse biodegradabili in tutti i mastelli, sia per agevolare gli operai sia perché non mi sembra giusto il travaso dei rifiuti nei sacchi. 
In pratica dove passano e dove no, l'assessore è già al corrente, la mia vicina lo ha fatto presente...ha inviato un numero per i disservizi...peccato non rispondano! 
Può mettere tranquillamente nome e cognome ci metto tranquillamente la faccia...chi non è all'altezza del compito si dimetta o rinunci all'appalto...ci saranno ditte più volenterose e amministratori con più amore verso il proprio territorio. 
Dimenticavo il disservizio non è legato solo a questa settimana, altre volte mi è stata lasciata plastica ed indifferenziato. 
La ringrazio buona giornata.
Graziella Capitti

I ringraziamenti della famiglia Saltalamacchia

 

Musumeci a Lipari: il video dall'arrivo al comune alla protesta pro ospedale delle signore Carbone e Maggiore

La parte terminale del video, relativo alla protesta delle signore Carbone e Maggiore e alla risposta di Musumeci, è del collega Peppe Paino