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lunedì 19 luglio 2021

QUELLA DI FLORENZIA, UNA STORIA DA RACCONTARE di Michele Giacomantonio (Puntata 10 di 10)

Decima puntata
LE FORZE MI VENGONO MENO…
Le ultime settimane di vita


 


Florenzia già anziana e l’entrata della Casa generalizia a Roma

Florenzia seguì i problemi della congregazione fino alle ultime ore di vita con una partecipazione che andava dai problemi più impegnativi della congregazione e delle case fino alle vicende delle singole suore. Poneva domande, dava consigli, si preoccupava della loro salute...
Anche nel chiedere aiuto alle consorelle era molto discreta. Uno dei malanni che la vecchiaia le aveva recato era il gonfiore alle gambe e il problema che aveva tutte le mattine, anche perché era divenuta molto robusta, era quello di allacciarsi le scarpe. Da sola non ci riusciva e quindi aspettava la prima suora che passasse per il corridoio e potesse aiutarla. Spesso questa era suor Colomba e la Madre un giorno le chiese:
– Che cosa pensi, quando fai questo servizio?
– A niente, Madre.
– E invece devi pensare che lo fai per amore del Signore.
Le difficoltà nei movimenti facevano sì che avesse sempre bisogno di qualcuno che l’aiutasse a coricarsi e ad alzarsi. Una notte cadde dal letto, ma per non disturbare le consorelle durante il sonno non volle chiedere aiuto. Rimase a terra fino al mattino, quando la trovarono tutta infreddolita perché era inverno.
Amava conversare e comunicare con le consorelle. Lo faceva di persona o per lettera.
Aveva una grande dote di discernimento nel giudicare le persone ed era sempre prodiga di consigli, ma badava bene a farlo amichevolmente senza  pregiudizio. Fin da giovane, era stata devota di suor Teresa di Gesù Bambino e voleva che soprattutto le novizie ne leggessero la vita e la <<Storia di un’anima>>. Suor Maria Maddalena era rimasta colpita dal brano in cui Teresa si era scelta una consorella che le correggesse i difetti.
– Quale suora mi potrebbe essere di aiuto?, si chiedeva, ed era titubante, perché pensava a una consorella molto sveglia e intraprendente, ma aveva dei dubbi.
– Che cosa la preoccupa suor Maria Maddalena? – le chiede un giorno Florenzia vedendola turbata.
La giovane le confidò il suo problema e le fece anche il nome della suora a cui aveva pensato.
– Se vuoi un mio consiglio, non credo che quella suora sia adatta per la tua anima. Ti faccio io una proposta e poi decidi tu.
Suor Maria Maddalena seguì il consiglio della Madre e si trovò bene, mentre la consorella a cui aveva pensato dopo pochi anni perdette la vocazione e abbandonò l’abito e l’istituto.
Alla capacità di discernimento univa un naturale senso pedagogico basato sulla fiducia nell’interlocutore. Un giorno, mentre è alla finestra della casa di Roma che guarda i bambini giocare nel cortile, si accorge che una giovane suora aveva perso la pazienza con un bambino che continuava a fare capricci. Florenzia subito non dice niente, ma nel pomeriggio fa chiamare la suora nella sua stanza. Questa si era accorta che la Madre aveva notato la sua reazione ed era impaurita. Chissà che cosa le avrebbe detto… Era così severa… Florenzia vede la suora tutta tremante e cerca di metterla a suo agio, la invita a sedersi.
– L’ho fatta chiamare, cara figliola, per sapere se si trova bene con noi. Incontra difficoltà nella vita religiosa? Sta bene in salute?
La giovane è sorpresa. Credeva di doversi scusare e, invece, la Madre l’invitava a una conversazione serena. Senza rimproverarle nulla, Florenzia le parla dell’amore di Cristo, dello spirito di sacrificio che le suore devono acquistare, della carità verso gli altri.
– Molte volte è difficile trattare con i bambini, specie se sono dei piccoli ribelli. Ma Gesù amava i bambini e li portava ad esempio agli adulti. Con loro bisogna avere più pazienza che con i grandi.
Un altro episodio la vede esercitare questa virtù pedagogica con una bambina. C’era in istituto una ragazzina di 13 anni, Teresa, che le suore avevano accolto per carità, visto che la famiglia non poteva mantenerla. Florenzia amava chiacchierare con lei e Teresa, rassicurata dalla confidenza che le dimostrava la Madre, un giorno le chiese perché non potesse indossare l’abito delle novizie e divenire suora.
– Sei ancora troppo giovane, Teresa. Devi avere pazienza, verrà anche il tuo momento, la rassicurò la Madre.
– Ma è già un anno che sono qui e conosco tutte le preghiere meglio di tante novizie. Perché non fa un’eccezione?
Florenzia vede che la ragazzina non vuole convincersi e sembra chiudere il discorso.

La cameretta di Florenzia nella Casa di Roma ora trasformata in Cappella.

– Teresa, in giardino c’è un piccolo tronco di albero quasi secco; vedi di estirparlo e portalo qui.
Sembra un incarico di responsabilità e Teresa, lieta, corre in giardino. Provò e riprovò a svellere il tronco, ma per quanti sforzi facesse la pianta non si mosse di un centimetro. Delusa, stanca e accaldata, tornò dalla Madre.
– Il tronco è più grande di me, non riesco a smuoverlo.
– Vedi, Teresa, ci sono cose che alla tua età, con le tue forze puoi fare e altre no. Quello che si verifica per le piante, accade nella nostra vita. Quando si è giovani, bisogna pensare a curare la vita e a raddrizzarla se ce n’è bisogno. Quindi in questo periodo studia, lavora e strappa, se occorre, le erbe cattive, cioè le cattive inclinazioni che scopri in te. Il Signore premierà la tua generosità e, se vorrà, quando sarai più grandicella, potrai diventare suora.
Spesso andava a trovare la suora che era in cucina.
– Figlia mia, fammi pulire la verdura, diceva.
– Madre, mai io non voglio che lei faccia queste cose –, rispondeva imbarazzata la suora cuciniera.
– Perché no? Non ho forse anch’io il diritto di andare in paradiso con il mio lavoro? Vede, fra pentole e pentolini sta spesso la nostra santità.
– Spesso qui, Madre, non si ha nemmeno il tempo di dire un Gloria.
– Eppure è semplice. Quando accende il fuoco, si ricordi dell’inferno e del purgatorio e così il suo impegno sarà, tra meditazione e lavoro, tutto per Gesù. Che cosa vuole di più? Si faccia santa e preghi per me.
Molto tempo Florenzia lo dedica alle lettere rivolte alle suore lontane o alle circolari che scrive per Natale o per Pasqua. Sono quasi sempre lettere serene e, se qualche volta deve rimproverare, lo fa con franchezza come con la stessa franchezza è pronta a chiedere scusa se si accorge di essere stata ingiusta o di avere ecceduto. Ma nell’ultimo anno di vita doveva avere un cruccio molto forte che serbava dentro di sé, anche se qualche volta prorompeva alla superficie.
La circolare del 31 marzo 1955 è particolare e sembra rilevare questo stato d’animo: “Il mio cuore materno – vi si legge dopo l’indirizzo alle “figliuole carissime” e l’annunzio dell’approssimarsi della Pasqua – sente il bisogno di manifestare i sensi di soprannaturale affetto che a voi mi lega, affetto purtroppo mal corrisposto perché, se il cuore delle figlie battesse all’unisono con quello della Madre, ben diversa sarebbe la vostra condotta. Soffro tanto nel considerare che voi non vi amate, non vi compatite scambievolmente, anzi spesso si deve constatare quello spirito di fazione, di ribellione, di mormorazione, di riferire i difetti delle consorelle trasportandoli di Comunità in Comunità, inasprendo gli animi e disseminando malanimo e discordie. Che piaga terribile!!! Figliuole care, perché amareggiare tanto il cuore di Gesù e quello della Madre vostra? Penso, però, che la Quaresima sarà stata un periodo di ravvedimento e che la S. Pasqua del 1955 segnerà per il nostro istituto l’inizio di un rifiorimento dello spirito di carità vera e sentita, che stabilirà nelle anime vostre e nelle vostre comunità la pace e la gioia santa che unisce i cuori a Gesù. Questo l’augurio sentito che la Madre vi fa giungere in questa S. Pasqua, fiduciosa che ognuna di voi coopererà a rimarginare questa piaga terribile che tende a distruggere lo spirito religioso nei membri della nostra cara Congregazione”.
E, infine, la conclusione: “Figliuole care, l’avvenire della nostra cara Congregazione è nelle vostre mani, scuotetevi e in questa Pasqua fate propositi santi”.
Critiche di questo tipo non erano usuali in Florenzia. Probabilmente negli ultimi mesi vi era una vena di pessimismo che l’amareggiava e che, di tanto in tanto, emergeva. Di più, proprio in questi ultimi mesi, scomparivano alcune compagne – suor Veronica e suor Nazarena – che erano state con lei fin dai primi momenti della creazione dell’istituto.
Il 18 febbraio 1956 Florenzia, che sente approssimarsi la propria fine, scrive a suor Pia, che era ancora in Sicilia, chiedendole, se possibile, di sospendere le visite in programma e tornare a Roma. È una lettera espresso che consegna alla segretaria generale per spedirla. Ma questa, oltre a spedire la lettera, decide di telefonare alla casa di Acireale dove era suor Pia per manifestarle le sue preoccupazioni. Niente di grave in apparenza, solo la pressione un po’ alta, ma il fatto che Florenzia avesse chiesto il rientro della vicaria l’aveva messa in allarme. La telefonata confermò a suor Pia alcuni presentimenti che lei stessa aveva avuto e così – “spinta da un incubo che la tormentava” – decise di partire senza frapporre indugi.
Il 19 suor Pia è già a Roma. Vi era arrivata la sera precedente a tarda ora, avendo viaggiato tutto il giorno, e non aveva voluto disturbare Florenzia. Ma la mattina del 20, alle nove, è già nella sua camera. La Madre sta benino e non sembra che sia prossima alla morte. È felice di vedere suor Pia e subito vuole essere messa al corrente di come vanno le cose in Sicilia e, in particolare, a Palermo e a Petralìa Sottana, dove vi erano stati problemi nella realizzazione delle nuove sedi. Parlano per tre ore fino a mezzogiorno e Florenzia vuole conoscere tutto, fin nei minimi particolari, delle case, ma anche delle suore, dei bambini assistiti, delle aspiranti alla vita religiosa, delle postulanti, delle novizie, delle opere di carità. Aveva nella sua testa, con grande lucidità, il quadro delle attività siciliane e con interesse voleva essere aggiornata.
Nel pomeriggio fa chiamare il padre francescano che le ha promesso la donazione di una villetta a Roma centro da parte di una benefattrice. È un problema che le sta molto a cuore. Ha sempre sperato – visto che Monte Mario risulta un po’ fuori mano – di potere avere una casa anche piccola a Roma dove potessero abitare le suore che dovevano frequentare le scuole. Meglio se fosse dalle parti di San Pietro, “per essere più vicine al Papa”. Il padre arriva subito e l’incontro si tiene nella cameretta di Florenzia, che lo accoglie seduta nella sua solita poltrona di legno, alla presenza di suor Pia e della segretaria generale. Ma padre Bernardo non ha novità e pare a Florenzia troppo evasivo. Essa, però, è pressata dal tempo che le sfugge e si rivolge al francescano con toni accorati: “Padre, Lei mi può aiutare, mi deve aiutare. Non ho più testa né gambe, non posso più muovermi, non posso più reggere l’istituto… Ci deve aiutare, segua la pratica della donazione della casa in città. Poi c’è da fare la chiesa, il progetto è pronto, desidero essere sepolta nella nuova chiesa vicina a Gesù, vicino alla Madonna, in mezzo alle mie figlie”.

2. Un transito sereno

  Quella del martedì, 21 febbraio 1956, fu la giornata fatidica. Pioveva e vi era umido e freddo. La mattina Florenzia non se la sentì di alzarsi per sedersi sulla sua poltrona come faceva sempre, ma rimase a letto. Questo fu il segnale che soffriva molto e le forze la sorreggevano sempre meno, anche se lei alle domande di come si sentisse rispondeva sempre “bene”. Chiese di parlare con don Traiano, il cappellano dell’istituto, ma questi era fuori sede e così suor Pia pensò di far venire il parroco di Nostra Signora di Guadalupe, che era la loro parrocchia e distava dalla casa un paio di centinaia di metri. Don Paolo arrivò subito e le suore gli suggerirono di dire che non erano state loro a chiamarlo, ma che era venuto di sua iniziativa per una visita di cortesia. Florenzia, che aveva compreso la preoccupazione delle consorelle, fu contenta di vederlo.
“Padre parroco, come faceva a sapere che stavo male?”, chiese con una punta di ironia.
“Madre – rispose sorridendo don Paolo –, il parroco sa tutto”. E, dopo questi convenevoli, la suora chiese di confessarsi. Dopo il parroco volle somministrarle il viatico, anche se Florenzia appariva serena nel volto, parlava e non manifestava nessun segno di crisi grave. Ed ora, aggiunse don Paolo, facciamo la comunione. “Non posso – rispose questa imbarazzata – ho fatto da poco colazione”. “Non importa – ribatté don Paolo –, la dispenso io”. E recitò le preghiere di preparazione e di ringraziamento alla comunione a voce alta e chiara.
Intorno al letto le suore, che nel frattempo, dopo la confessione erano sopraggiunte, prendendo posto nella stanzetta o sostando nel corridoio dinanzi alla porta, impietrite dal dolore, seguivano ogni suo movimento e ogni sua parola. Florenzia recitò alcune preghiere insieme al parroco, da sola ridisse la preghiera a Gesù crocifisso “Anima Christi”. Poi ripeté più volte: “Nel bel cuore di Gesù che mi ha redento, in pace io riposo e mi addormento”. Quindi, col suo solito sorriso, si fece aiutare a mettersi seduta nel letto e si mise a conversare col parroco chiedendogli perché da un po’ di tempo non invitava le sue suore ad andare in parrocchia e, in particolare, perché non le aveva invitate alla solenne festa dell’incoronazione della Madonna. Però, sia perché parlava piano, sia perché incespicava un po’ nelle parole, non si capiva tanto bene quello che diceva.
Si erano fatte già le 12,30 e, mentre conversavano, il parroco chiese se voleva amministrato quello che oggi si chiama sacramento dell’unzione degli infermi e che allora era conosciuta come estrema unzione. Florenzia acconsentì sorridendo, seguì attentamente tutta la cerimonia, vi partecipò con devozione, rispondendo “Amen” con voce chiara. Le suore, con il cuore straziato, seguivano i minimi movimenti della Madre, che in viso era serenissima.
In questo intervallo, arrivò anche il medico curante che le auscultò il cuore, disse che era un po’ debole, ma che non c’era una vera gravità, e andò via. Il parroco, a questo punto, volle darle anche la benedizione papale e, nell’atto che Florenzia ebbe Gesù crocifisso fra le mani, lo strinse forte e, a voce alta e chiara, disse: “Gesù, Gesù mio” e baciò il crocifisso con trasporto. Lo consegnò poi nelle mani del parroco, che lo posò sul tavolo, e ancora a voce alta disse: “Gesù, Gesù mio, Gesù bello”.
Quindi, rivolgendosi alle suore, disse: “Perdono tutte le suore, anche le più discole e benedico di cuore le vicine e le lontane”. Stette un po’ di tempo in silenzio, ringraziò don Paolo e questi, vedendo che stava benino, andò via. Erano le 13,30 e si era trattenuto per circa tre ore.
Accettò di mangiare qualcosa e volle alzarsi e sedersi sulla sua poltrona. Scesero a trovarla, per informarsi sulla sua salute, suor Biagina, che era stata a letto con acuti dolori intercostali, e suor Adele che, malgrado avesse la febbre, aveva voluto fare una visitina alla Madre. A questa, che le chiedeva come stesse, Florenzia rispose sorridendo: “Io sto bene, è lei che è tanto malata. Cerchi di salvaguardarsi”.
Le suore passarono il pomeriggio tutte intorno a Florenzia e – vedendola serena e attenta, come al solito, alla conversazione – si interrogavano perché mai il parroco avesse voluto amministrarle l’estrema unzione. A suor Ludovina, che durante l’assenza di suor Pia dormiva in camera con lei e, quindi, durante la notte si alzava diverse volte per assisterla, disse: “Lei vada a letto a riposare ora, io riposerò stanotte”. A suor Amalia, che di solito si occupava del bucato, disse: “Consegni presto la biancheria ad uso mio che mi servirà”. Riflettendo su queste frasi, suor Pia si chiese se fosse un indizio che Florenzia presagiva la propria morte. Ma non disse nulla a questo proposito. Alle 18,30 fece cena, mangiò come al solito e bevve acqua calda con succo di mandarino, perché sentiva freddo. Alle ore 19 volle che le suore andassero a cenare e rimasero a farle compagnia solo suor Ludovina e suor Amalia.
In questo intervallo, venne a trovarla don Traiano che era rientrato in istituto. Lei gli disse, contenta, che vi era stato don Paolo, di aver fatto la comunione e di aver ricevuto anche l’estrema unzione.
Se lei ha pazienza, Padre, vorrei esporle un ragionamento che sono venuta facendo in questi ultimi mesi e che è come un riassunto della mia vita spirituale. Il mio cammino spirituale. Il Padre le disse che era felice di ascoltarla e Florenzia riprese il discorso.

Interno della chiesa di Pirrera, oggi

“Vede, Padre, la cosa più importante nella mia vita è stata la preghiera, e cioè il dialogo con Gesù e con la Madonna. Ma forse, ancor prima della preghiera, è stato il silenzio. Le suore pensano che io sia un po’ fissata con il silenzio. E può essere vero. Con l’età anche alcuni valori finiscono con l’apparire manie. Ma per me il silenzio vuol dire l’incontro della mia anima con Dio. Il silenzio è una tale forza trasformatrice che ci fa scoprire la nostra povertà umana, la nostra incapacità, i nostri limiti. Il silenzio non è il nulla, ma è ascolto per cogliere la presenza di un altro che è oltre la percezione dei nostri sensi. Il silenzio è la premessa della preghiera, perché vuol dire fare spazio all’ascolto di Dio. Questo l’ho sempre saputo, fin da bambina, quando passavo lunghe ore in silenzio dinanzi al quadro della Madonna degli Angeli nella vecchia chiesetta di Pirrera a Lipari. E un giorno, il giorno della mia prima comunione, ho sentito finalmente la voce di Gesù.
Ho detto molte volte che “Gesù parla alle anime silenziose. Quando si accorge che nel nostro cuore si nutrono pensieri che non sono per lui, ci lascia sole e non si può conoscere la via che porta al cielo”. Sì, il silenzio è già preghiera. E la preghiera è stata per me l’alimento giornaliero, il sostegno a cui appoggiarmi nelle difficoltà. La preghiera fatta di ascolto e di dialogo. Dialogo con Gesù. Dialogo con la Madonna. Dialogo e meditazione. Anche il rosario è stato per me dialogo e meditazione. Un modo di comunicare con Dio lungo i misteri della fede.
Silenzio e preghiera sono fra loro connessi e uno introduce all’altro, così come la perfetta letizia e l’abbandono a Dio, che sono le altre tappe di questo cammino sulla strada dello Spirito.
La perfetta letizia è stato il passaggio, credo, più complesso. Mi riusciva difficile pensare come si potesse rimanere nella gioia interiore di fronte a eventi terribili, a disgrazie familiari, alla sofferenza che vedevi intorno a te. Il racconto di Francesco che torna da Perugia in una durissima notte d’inverno e, giunto al convento, non lo lasciano entrare, la prima volta che lo sentii mi parve una storiella, allo stesso tempo, irritante e divertente. Com’è possibile essere lieto, quando subisci un’ingiustizia? Com’è possibile non reagire?
È possibile – mi disse un giorno un frate francescano –, se al centro non ci sei tu, se non sei tu al centro dei tuoi pensieri, delle tue emozioni, del tuo mondo. Fino a quando non ti poni in un angolo e non occupi quel centro con Dio, non puoi. Per questo, la perfetta letizia pretende l’abbandono fiducioso a Dio.
Ho ancora nelle orecchie le parole di quel frate. Si chiamava padre Daniele e lo conobbi viaggiando sulla nave verso gli Stati Uniti e poi lo ritrovai a New York nella chiesa di Sant’Antonio. Quel viaggio verso l’America fu un momento importante della mia maturazione spirituale e, soprattutto, la notte terribile di tempesta quando pareva che dovessimo affondare e sentivo intorno a me grida e pianti. La mattina, la tempesta si era quietata e raccoglievamo morti e feriti. Allora mi sono detta che, se ero ancora viva, è perché l’aveva voluto Dio e, quindi, la mia vita non mi apparteneva più. Apparteneva a lui e dovevo vivere ogni momento nella gioia di servirlo. Da quel momento, per quanto forti fossero le preoccupazioni, mi dicevo che, se una cosa era bene che si verificasse, allora Dio avrebbe provveduto. Se c’era qualcosa che io avrei potuto fare, dovevo impegnarmi sino in fondo. Ma se le cose esorbitavano dalle mie possibilità dovevo affidarmi a lui.
Affidarsi a Dio non è lo stesso che fidarsi di Dio, è un passo in più. Vuol dire abbandonarsi a lui e avere la certezza che tutto quello che ti succede ha una finalità e questa finalità non può non essere buona perché viene da Dio. Le contrarietà sono le forti carezze di Dio. Le difficoltà, le prove arrivano perché Dio vuole saggiare la nostra fiducia in lui, ma lui stesso le avrebbe risolte. Alle mie suore, di fronte alle traversie, alle contrarietà e alle preoccupazioni, ho sempre detto: “Uniformiamoci alla volontà di Dio, il quale tutto sa risolvere per il nostro bene”.
Dio, Padre, non è mai stato per me un essere impersonale. È sempre stato una persona viva e vera. È stato Gesù e Gesù è stato l’unico e grande amore della mia vita. Gesù che mi parla attraverso la Scrittura, Gesù che mi parla nell’Eucaristia. Anche nella ricerca di Gesù Francesco mi è stato maestro. Il Gesù della povertà del Presepio, il Gesù dell’umiltà della Croce, il Gesù dell’annientamento dell’Eucaristia. Sono tre momenti che rendono Gesù vero, presente. Eppure fra questi tre momenti quello verso cui ho sempre provato un particolare trasporto è l’Eucaristia. Nell’Eucaristia Gesù si è annientato per rimanere con gli uomini per sempre. E così non siamo stati più soli. Alle mie suore, che si lamentavano qualche volta della solitudine in cui vivevano a Rosarno, a Castagnolino, in Brasile ho sempre ricordato: “Gesù dimora con voi e, quindi, avete tutto. Amatelo Gesù. Ditegli spesso: Gesù ti amo, resta con noi”. Per questo volevo che il primo pensiero nell’apertura di una casa fosse quello della cappella in cui celebrare la messa, possibilmente tutti i giorni.
L’Eucaristia è stata per me il centro della giornata e alle mie figliole dicevo di dividere la loro giornata in due periodi di raccoglimento: la prima metà in costante ringraziamento per l’eucaristia ricevuta la mattina, e la seconda mezza giornata vissuta nell’attesa della comunione dell’indomani.
L’amore per Gesù è stato il culmine del mio percorso. L’amore per gli uomini e, in particolare, per i più bisognosi non è che l’estensione di questo amore. Sì, l’amore è stato il movente di ogni aspirazione nella mia vita, di ogni opera intrapresa, l’amore che innalza all’Onnipotente un cantico di gioia, di gratitudine, di riconoscenza nel trambusto di una vita sacrificata, francescanamente vissuta. Nel povero mendicante, nell’ammalato che soffre, nella ragazza madre abbandonata, nel bambino senza affetti vedevo Gesù. Ho scritto alle mie figliole in Brasile, che tanti problemi hanno avuto nell’ospedale di Jatai: “Oh, come sarebbe bello, se in uno dei tanti ammalati trovaste Gesù in persona. Ma se non lo trovate visibile, lo troverete sempre invisibile. Quando avvicinate un ammalato, andate col pensiero che vedete Gesù”. E a tutte ho sempre ricordato che, quando un povero bussa alla porta, bisogna accoglierlo e aiutarlo, perché in lui c’è l’immagine di Gesù Cristo. Ecco, questo è il testamento che lascio alle mie figliole, un percorso per diventare sante non compiendo azioni straordinarie, ma affrontando i problemi di tutti i giorni lungo quella “piccola via” che ci ha indicato suor Teresa di Gesù Bambino”.

La casa della famiglia Profilio a Pirrera trasformata in casa di preghiera con la sua piccola cappella

Parlò a lungo Florenzia ed era veramente come se volesse consegnare a  don Traiano il proprio testamento spirituale. In alcuni momenti la voce sembrava spegnersi in gola ma, subito, riprendeva come se quel racconto fosse il canto della sua vita.
Dopo cena, il cappellano si incontrò con le suore e le tranquillizzò perché Florenzia era lucida e serena. Il tempo della ricreazione le suore lo passarono rimanendo attorno alla Madre e, all’orario delle preghiere serali, le chiesero la benedizione e andarono in cappella. A recitare le preghiere con Florenzia rimasero suor Pia e suor Ludovina e la Madre partecipò alle preghiere col solito fervore facendo sentire la propria voce.
Poi volle alzarsi e, mentre suor Pia le rifaceva il letto, suor Ludovina l’aiutava a sorreggersi. A un tratto esclamò: “Le forze mi vengono meno”. Subito suor Pia accorse e a stento le due suore la sorressero per fare quei pochi passi dalla poltrona al letto. Nell’attimo di mettersi a letto, Florenzia si sconvolse in viso e, mentre le suore cercavano di farle prendere la posizione più giusta che la aiutasse a respirare, chiuse per sempre gli occhi. Erano le 21 precise del 22 febbraio 1956,, l’orario in cui, in quel periodo dell’anno, la comunità andava a riposare. Subito accorsero le suore che si inginocchiarono intorno al letto e pregavano e piangevano. Accorse anche don Traiano per l’ultima benedizione e anche lui si raccolse in preghiera.

3. L’omaggio a Florenzia

Ricomposta la salma, le suore, don Traiano e le orfanelle più grandi, che chiesero di poter restare, passarono la notte in veglia di preghiera alternando, fra le lacrime, le orazioni con la lettura della passione e morte del Signore. 

La cerimonia dell’olio per la luce dinnanzi alla tomba di Madre Florenzia nella Cappella della Casa generalizia.

Il corpo rimase esposto nella sua stessa camera per due giorni, fino alle 18 del giovedì, quando Florenzia fu deposta nella cassa dalle sue stesse figlie e portata in cappella dove la bara rimase aperta tra una profusione di fiori e ceri accesi. Le suore vegliarono per tre notti e quasi tre giorni. La Madre per tutti i tre giorni conservò l’aspetto di una persona viva, soavemente addormentata, senza la freddezza e il pallore della morte.
Moltissime furono le autorità religiose, i sacerdoti, che vennero a sostare in preghiera. Così anche le suore della zona e poi un via vai di vicini, di parenti delle ragazze assistite, di famiglie amiche e di persone sconosciute. Le suore posarono sul corpo della Madre medagliette dell’Immacolata e piccoli crocifissi per poterli poi conservare come ricordo della defunta. La bara rimase aperta fino alle 10,30 del venerdì 24 febbraio. Quando si chiuse la bara, gli uomini addetti alla saldatura, avevano tentato di stendere le braccia lungo il corpo, ma fu inutile perché per ben due volte le mani da sole si ricongiungevano nella posizione primitiva, cioè a stringere il crocifisso, la corona del rosario e la santa Regola che erano sul petto.
Il  corpo di Madre Florenzia Profilio ora riposa nella chiesa della Casa generalizia dell’Istituto a Roma in via delle Benedettine. Dal luglio del 1980 è iniziato il cammino verso il riconoscimento della sua santità ed il 14 aprile 2018 il Santo Padre ha firmato il decreto col riconoscimento delle virtù eroiche della Serva di Dio e l’attribuzione quindi del titolo di Venerabile..
                                                                                           (10.Fine)

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