Nel gennaio del 1974 mio padre si era incuriosito per un annuncio nell’ultima pagina nessuno pareva interessato a comprar casa nell’isola di Vulcano, alle Eolie.
Sino ad allora la mia famiglia villeggiava nel Cilento, dove arrivava dopo un viaggio tiratissimo con la mitica Fiat 2300 S coupé, alla cui guida i miei genitori si alternavano come piloti di una 24 ore di Le Mans, contendendo la corsia di sorpasso alle Jaguar dei milanesi, noi tre figli sistemati dietro con cuscini, acqua, arance e panini da consumarsi nelle brevi soste per fare il pieno.
Nel maggio del 1974, persistendo l’annuncio e la curiosità, mia madre riceve il delicato compito di recarsi in loco a buttare un occhio; al rientro le recensioni sono entusiastiche. Con il suo indimenticabile sorriso, ci descrive il profumo delle ginestre fiorite, dei pini e degli eucalipti di Vulcanello che nascondono le bianche case eoliane, ci racconta di quel mare blu cobalto e della terra nera vulcanica, della vividezza dei colori e del loro intenso contrasto. È così che sparisce l’annuncio e cominciano le nostre vacanze siciliane.
I primi anni sono quelli ruggenti. La casa è a Vulcanello, un antico vulcano ormai spento distante circa un chilometro da Vulcano porto, cui è collegato da un istmo che divide la spiaggia di levante da quella di ponente. Non ci sono acqua, luce e gas, le strade sono sterrate e vengono percorse a piedi, di notte con le pile.
La vacanza qui non è del tipo relax. Intanto devi arrivarci, devi affrontare l’interminabile Salerno-Reggio, con i suoi lavori in corso e le vane promesse di ultimazione. Di solito la promessa del ministro in carica prevede il completamento dell’opera entro l’anno successivo a quello in cui stai imprecando in coda all’uscita di Lagonegro, dove ti costringono a una deviazione nelle tortuose strade di montagna per l’ennesima interruzione. Arrivati a Villa c’è il traghetto dello Stretto, poi fino a Milazzo dove finalmente ci si imbarca per le Eolie.
Sbarcati sull’isola non c’è riposo; occorre pensare alla bombola per il gas, al cherosene per alimentare il generatore di elettricità, all’acqua per la cisterna, acqua che paghi a peso d’oro, ergo devi essere velocissimo a farti la doccia sotto il vigile occhio paterno, sfruttando il minuto a disposizione.
Vi è poi da disinfestare le camere da scarafaggi, ragni e formiche, combattere la guerra contro le zanzare, refrattarie a qualsiasi rimedio disponibile. Diverse zone esterne e interne della casa sono occupate da famigliole di gechi, ma quelli sono intoccabili in quanto simpatici e forse mangiatori di zanzare, così come i pipistrelli presenti in massa.
A seguire c’è il gonfiaggio dello Zodiac, occorre incastrare tra i tubolari il pagliolato in legno, operazione all’apparenza banale ma che può richiedere un’intera mattina sotto il solleone e che spazientirebbe un monaco tibetano, figuriamoci mio padre!
Cosa spinga i miei a una vacanza così dinamica, dopo un anno di ritmi forsennati tra casa (mamma) e ospedale (papà)? Sarà il fascino di questo arcipelago meraviglioso, così poco valorizzato dai suoi residenti e così poco rispettato dai suoi villeggianti? Saranno il mare, le spiagge appartate, i posti unici come Quattrocchi, Valle Muria, le grotte di Filicudi, il rotolarsi a mare dalla Cave di Pomice, un bagno a Calajunco, l’ascesa sullo Stromboli a vedere i fuochi d’artificio più belli del mondo, il navigare a zonzo tra Lipari e Salina sognando l’incontro con i delfini, saranno i tramonti di Capo Grillo?
Non so: ma se la vacanza vuol dire stacco, liberazione del cervello e del corpo dalla routine quotidiana, allora qui ti senti veramente calato in un mondo diverso, dai ritmi più lenti, dove dominano ancora gli elementi primordiali, l’acqua, l’aria, la terra, il fuoco.
Sono ormai più di quarant’anni che ci veniamo. Molte cose sono cambiate, i servizi sono arrivati anche qui, le strade sono asfaltate, ma il fascino del luogo resiste. E poi, uscire a riveder le stelle sotto i pini di Vulcanello, dopo l’infernale inverno torinese, è sempre un’emozione.
Sino ad allora la mia famiglia villeggiava nel Cilento, dove arrivava dopo un viaggio tiratissimo con la mitica Fiat 2300 S coupé, alla cui guida i miei genitori si alternavano come piloti di una 24 ore di Le Mans, contendendo la corsia di sorpasso alle Jaguar dei milanesi, noi tre figli sistemati dietro con cuscini, acqua, arance e panini da consumarsi nelle brevi soste per fare il pieno.
Nel maggio del 1974, persistendo l’annuncio e la curiosità, mia madre riceve il delicato compito di recarsi in loco a buttare un occhio; al rientro le recensioni sono entusiastiche. Con il suo indimenticabile sorriso, ci descrive il profumo delle ginestre fiorite, dei pini e degli eucalipti di Vulcanello che nascondono le bianche case eoliane, ci racconta di quel mare blu cobalto e della terra nera vulcanica, della vividezza dei colori e del loro intenso contrasto. È così che sparisce l’annuncio e cominciano le nostre vacanze siciliane.
I primi anni sono quelli ruggenti. La casa è a Vulcanello, un antico vulcano ormai spento distante circa un chilometro da Vulcano porto, cui è collegato da un istmo che divide la spiaggia di levante da quella di ponente. Non ci sono acqua, luce e gas, le strade sono sterrate e vengono percorse a piedi, di notte con le pile.
La vacanza qui non è del tipo relax. Intanto devi arrivarci, devi affrontare l’interminabile Salerno-Reggio, con i suoi lavori in corso e le vane promesse di ultimazione. Di solito la promessa del ministro in carica prevede il completamento dell’opera entro l’anno successivo a quello in cui stai imprecando in coda all’uscita di Lagonegro, dove ti costringono a una deviazione nelle tortuose strade di montagna per l’ennesima interruzione. Arrivati a Villa c’è il traghetto dello Stretto, poi fino a Milazzo dove finalmente ci si imbarca per le Eolie.
Sbarcati sull’isola non c’è riposo; occorre pensare alla bombola per il gas, al cherosene per alimentare il generatore di elettricità, all’acqua per la cisterna, acqua che paghi a peso d’oro, ergo devi essere velocissimo a farti la doccia sotto il vigile occhio paterno, sfruttando il minuto a disposizione.
Vi è poi da disinfestare le camere da scarafaggi, ragni e formiche, combattere la guerra contro le zanzare, refrattarie a qualsiasi rimedio disponibile. Diverse zone esterne e interne della casa sono occupate da famigliole di gechi, ma quelli sono intoccabili in quanto simpatici e forse mangiatori di zanzare, così come i pipistrelli presenti in massa.
A seguire c’è il gonfiaggio dello Zodiac, occorre incastrare tra i tubolari il pagliolato in legno, operazione all’apparenza banale ma che può richiedere un’intera mattina sotto il solleone e che spazientirebbe un monaco tibetano, figuriamoci mio padre!
Cosa spinga i miei a una vacanza così dinamica, dopo un anno di ritmi forsennati tra casa (mamma) e ospedale (papà)? Sarà il fascino di questo arcipelago meraviglioso, così poco valorizzato dai suoi residenti e così poco rispettato dai suoi villeggianti? Saranno il mare, le spiagge appartate, i posti unici come Quattrocchi, Valle Muria, le grotte di Filicudi, il rotolarsi a mare dalla Cave di Pomice, un bagno a Calajunco, l’ascesa sullo Stromboli a vedere i fuochi d’artificio più belli del mondo, il navigare a zonzo tra Lipari e Salina sognando l’incontro con i delfini, saranno i tramonti di Capo Grillo?
Non so: ma se la vacanza vuol dire stacco, liberazione del cervello e del corpo dalla routine quotidiana, allora qui ti senti veramente calato in un mondo diverso, dai ritmi più lenti, dove dominano ancora gli elementi primordiali, l’acqua, l’aria, la terra, il fuoco.
Sono ormai più di quarant’anni che ci veniamo. Molte cose sono cambiate, i servizi sono arrivati anche qui, le strade sono asfaltate, ma il fascino del luogo resiste. E poi, uscire a riveder le stelle sotto i pini di Vulcanello, dopo l’infernale inverno torinese, è sempre un’emozione.