“IL GIUDICE E IL BOSS”
Un film dove si racconta del giudice
Cesare Terranova e del maresciallo di polizia Lenin Mancuso, che indagando
sulla mafia dei corleonesi, scoprirono il Peccato originale della Repubblica
italiana, e per questo dovevano morire. Una lotta epica contro il male,
impersonato dal boss Luciano Liggio, e dagli uomini corrotti delle Istituzioni.
Se, il processo di Bari, istruito dal giudice Terranova dopo
dieci anni di duro lavoro, si fosse concluso con la condanna del clan dei
corleonesi, quante morti innocenti, quante stragi si sarebbero potuti evitare?
Ma le cose sono andate diversamente e il giudice Terranova e il maresciallo
Mancuso furono lasciati soli, umiliati e offesi, a combattere contro i mulini a
vento…
NOTE DI REGIA:
Cesare Terranova non è stato un giudice qualsiasi. Ma un modello a cui si sono
ispirati Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il
primo che ha avuto il coraggio di indagare sulla sanguinaria cosca dei
Corleonesi.
Il primo ad aver capito che la mafia era
un’organizzazione unitaria che agiva di concerto con elementi della politica,
della massoneria e della finanza.
Anche Lenin Mancuso, non è stato un poliziotto qualsiasi, ma uno dei migliori
poliziotti di Palermo. È stato l’esempio a cui si sono ispirati Ninni Cassarà,
Beppe Montana, Lillo Zucchetto, Natale Mondo e Roberto Antiochia, che ne hanno
seguito le orme, e per questo verranno uccisi anche loro dalla mafia.
Il 30 luglio al Festival di Lipari la pellicola con protagonista l'attore
Gaetano Bruno che parla dell'uccisione del magistrato Terranova
PALERMO I boss e i pentiti, come i malacarne di Corleone
e Gomorra, non gli sono mai piaciuti. E Pasquale Scimeca, il regista che ha
raccontato pure Placido Rizzotto, Pio La Torre e papa Francesco, torna al
cinema offrendo ai giovani la vita di un altro uomo retto e giusto, quella di
Cesare Terranova, il magistrato ucciso dalla mafia nel 1979 con il suo braccio
destro, il maresciallo Lenin Mancuso.
A questo magistrato che comprese per primo il peso del clan guidato da Luciano
Liggio si ispirarono Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo
Borsellino. Una scelta di campo per Scimeca quella di esaltare loro, evitando
di trasformare i Riina e i Provenzano in protagonisti di una epopea dove tutto
si confonde: «Al di là di ogni buona intenzione, risulta devastante e deviante
la lettura che spesso gli spettatori fanno dei criminali rappresentanti sullo
schermo».
Un rischio che non si corre con «Il
giudice e il boss», film prodotto da Arbash in
collaborazione con Rai Cinema.
Perché il giudice è Gaetano Bruno nei panni di Terranova. Affiancato da Peppino
Mazzotta, interprete del maresciallo Mancuso. Sono loro i modelli positivi
della storia, in contrapposizione all’allora capo dei Corleonesi, all’anagrafe
«Leggio» (Claudio Castrogiovanni).
La storia è quella di una guerra che forse il processo del 1969, tenuto a Bari
per «legittima suspicione», avrebbe potuto fermare. E invece i boss assolti per
insufficienza di prove tornarono spavaldi in Sicilia. Come Liggio. Infine,
arrestato e processato a Reggio Calabria, ma pronto a sbeffeggiare in aula il
giudice Terranova quando ormai i suoi killer lo avevano ucciso, insieme con
Mancuso.
Drammatico epilogo di un anno
funesto, il 1979, cominciato con il
delitto del giornalista Mario Francese, proseguito con l’eliminazione del
segretario provinciale della Dc Michele Reina e con l’agguato a Boris Giuliano,
il capo della squadra mobile. Era stato Terranova a lavorare da giudice nella
Palermo degli anni 70, impegnato nelle indagini su speculazione edilizia,
traffico internazionale di stupefacenti e finanza. Per Scimeca la scelta dei
temi e dei personaggi è finalizzata ad un esercizio di memoria: «Non si possono
ricordare le vittime della mafia solo nelle commemorazioni ufficiali. Bisogna
creare un movimento culturale che le faccia conoscere alle nuove generazioni,
come modelli di vita da seguire».
Ed eccoci alla presa di distanza dall’esaltazione di violenze contro ogni rischio di emulazione: «Troppi film e
serie tv hanno come protagonisti i boss, figure che contribuiscono a creare tra
i giovani falsi miti in cui immedesimarsi. Al contrario, la maggior parte delle
vittime viene ricordata solo con riti ufficiali, fra parenti e qualche
rappresentante delle istituzioni».
Per restituire lo stesso rispetto a tutte le vittime della mafia Scimeca dice
che «tutte meritano di essere raccontate perché, come diceva Borsellino, “non
basta l’azione repressiva della magistratura e delle forze dell’ordine, ma è
necessaria una presa di coscienza civile e una forte azione culturale”».