Violenta eruzione dello Stromboli
11 settembre 1930
La più
violenta manifestazione eruttiva del secolo (ha visto contemporaneamente
il verificarsi di valanghe di materiale caldo, tsunami e cadute di bombe
vulcaniche).
Alle ore dieci dell'11 settembre 1930 una
formidabile esplosione riversò sull'isola dello Stromboli una grande quantità
di materiale, causando incendi, danni e numerose vittime.
Alle ore 9 e 25 circa la normale attività dello
Stromboli fu interrotta dalla formazione quasi contemporanea di tre pini, che
da S. Vincenzo furono visti alzarsi per circa 1500 metri al disopra
della Cresta, che nasconde la Fossa Craterica. Molto probabilmente, per effetto
di prospettiva, sembrò agli abitanti che i tre pini avessero avuto origine a
quote diverse, anche perché il vento li ripiegò verso la Sciara del Fuoco. I tre
pini ebbero la durata di dieci minuti circa. Questa prima fase iniziale non fu
accompagnata da alcuna detonazione e si ebbe soltanto il lancio di materiale
sottile, e difatti arrivò solo della cenere fino all'abitato.
Alle ore 9,52, fu udita una formidabile
detonazione, piuttosto prolungata, essendo state due le esplosioni avvenute
quasi contemporaneamente con un intervallo di tempo appena apprezzabile. Dapprima
fu lanciato il materiale della impalcatura craterica, ed in seguito, in
prevalenza, delle scorie pomicee. L'esplosione sconquassò tutti i crateri della
Fossa e slabrò una parte dell'orlo prospiciente verso la Sciara del Fuoco. I massi
lanciati dall'esplosione caddero sul versante ovest, e sud-ovest del vulcano, colpendo
il Semaforo di Labronzo e bombardando l'abitato di Ginostra, ove quasi tutti i
tetti delle case furono sfondati e molte piante bruciate. In contrada Terra del
Fuoco piombarono diversi massi di qualche tonnellata, sprofondati in gran parte
nel terreno sabbioso.
Un altro masso si abbatté a pochi metri dal
Semaforo di Labronzo, e provocò, per la scossa, il crollo della parete ovest e
di parte del tetto delle due stanzette; anche la pavimentazione fu sconvolta e
larghe lesioni si aprirono sui muri, così da rendere pericolante e del tutto
inabitabile quell'edificio.
La seconda esplosione quasi concomitante alla
prima, diede una fitta pioggia di cenere, lapilli e brandelli di pomice
rovente, che si riversò sui versanti Nord-Ovest e Nord-Est causando la morte di
sei persone e ferendone 20 nell'abitato di S. Vincenzo e S. Bartolo e due a
Ginostra.
I morti furono trovati con forti ustioni, alcuni
semicarbonizzati e fra questi una madre con la figlia abbracciati assieme con
accanto una capretta del tutto carbonizzata. Nelle campagne si svilupparono
incendi che distrussero tutta la vegetazione della parte più elevata del monte.
Parecchi abitanti, dopo l'esplosione, videro sei
grandi volute di fumo denso, di colore oscuro, cariche di scorie, lapilli e
cenere che si dirigevano, accavallandosi, verso l'abitato.
L'ultima voluta di cenere arrivò in prossimità
dell'abitato di Stromboli, lambì le prime case, bruciò i vigneti che si
trovavano in prossimità della via Reale, e ciò per effetto della cenere rovente
che li ricopriva.
Queste nubi ardenti si posarono soprattutto sulla
parte alta dell'isola e precisamente sopra e sotto il Liscione.
Il parossismo cessò alle ore 10 e 22. Lo
spostamento dell'aria, causato dalla esplosione, produsse una forte scossa
marina, che ebbe inizio alle ore 10,19 e cessò alle ore 10,22.
Il mare si ritirò per circa 100 metri, invadendo poi
la spiaggia, per circa 200
metri (località Sopra Lena).
Alcuni istanti dopo la formidabile esplosione, la
popolazione si accorse che due torrenti di materiale infuocato scivolavano per
i torrenti di S. Bartolo e di Piscità. Il primo si fermò a poche diecine di
metri dalla Chiesa di S. Bartolo, mentre il secondo arrivò fino al mare,
formando un piccolo promontorio, largo metri 20 e lungo metri 25, a partire dalla linea di
spiaggia. In un primo tempo gli abitanti credettero che si avanzasse una colata
di lava, ma ben presto si accorsero che trattavasi di una enorme quantità di
detriti roventi che il vento riversò a nord-est, verso il Liscione.
Il fronte della valanga di cenere, che si arrestò
alle porte della frazione di S. Bartolo, era largo circa metri 6, con una
potenza di metri 4.
Le viti e gli ulivi investiti dalla valanga fino a
quota 300 circa e la ginestra più in alto, fino alle Chiappe Liscie, furono bruciacchiati
e sdradicati, come se fossero stati divelti dalla furia di un torrente
impetuoso.
Nell'altro torrente di Piscità, che scende quasi
parallelo al primo verso il mare, si notavano gli stessi particolari; però la
quantità di materiale scivolato fu maggiore dell'attiguo torrente di S.
Bartolo, tanto che nell'ultimo tratto, vicino al mare, seppellì una casetta e
due ne abbattè.
Due dolorosi episodi danno un'idea della elevata
temperatura della valanga detritica di Piscità, che raggiunse il mare e ne riscaldò
l'acqua per un lungo tratto. Una donna che si trovava sopra Labronzo al momento
della esplosione, per cercare scampo, tentò di fuggire verso l'abitato, ma
arrivata al torrente Piscità e volendolo attraversare, fu investita dalla
valanga, e da essa trascinata per un buon tratto. Il cadavere, trovato dopo
quattro giorni, era semicarbonizzato specialmente
agli arti inferiori, dove l'epidermide dei piedi si era staccata assieme a
parecchie unghie. Ugualmente terribile è stata la fine di un marinaio, che per
sottrarsi alla pioggia del materiale infuocato, che cadeva sull'abitato, fuggì
verso il mare riparandosi in una anfrattuosità del terreno. Ma l'onda del
maremoto lo raggiunse producendogli tali scottature, per effetto dell'acqua
divenuta bollente al contatto con la valanga di Piscità, che ne provocarono la
morte dopo alcune ore. Dopo l'esplosione fu notato, dai marinai che si
trovavano al largo, il formarsi di alcuni rigagnoli di lava sulla Sciara del
Fuoco, che furono visti rosseggiare fino a tarda ora dalla notte. Due bracci
raggiunsero il mare.
Le cinque vittime furono: Maria Famularo, trentenne, e la figlia
Maria, che vennero trovate abbracciate. Giuseppe Tripi, Salvatore
Saltalamacchia e Concetta Mirabito.