LE FORZE MI VENGONO MENO…
Le ultime settimane di vita
Florenzia già anziana e l’entrata della Casa generalizia a Roma
Florenzia seguì i problemi della
congregazione fino alle ultime ore di vita con una partecipazione che andava dai
problemi più impegnativi della congregazione e delle case fino alle vicende
delle singole suore. Poneva domande, dava consigli, si preoccupava della loro
salute...
Anche nel chiedere aiuto alle
consorelle era molto discreta. Uno dei malanni che la vecchiaia le aveva recato
era il gonfiore alle gambe e il problema che aveva tutte le mattine, anche
perché era divenuta molto robusta, era quello di allacciarsi le scarpe. Da sola
non ci riusciva e quindi aspettava la prima suora che passasse per il corridoio
e potesse aiutarla. Spesso questa era suor Colomba e la Madre un giorno le
chiese:
– Che cosa pensi, quando fai
questo servizio?
– A niente, Madre.
– E invece devi pensare che lo
fai per amore del Signore.
Le difficoltà nei movimenti
facevano sì che avesse sempre bisogno di qualcuno che l’aiutasse a coricarsi e
ad alzarsi. Una notte cadde dal letto, ma per non disturbare le consorelle
durante il sonno non volle chiedere aiuto. Rimase a terra fino al mattino,
quando la trovarono tutta infreddolita perché era inverno.
Amava conversare e comunicare con
le consorelle. Lo faceva di persona o per lettera.
Aveva una grande dote di
discernimento nel giudicare le persone ed era sempre prodiga di consigli, ma
badava bene a farlo amichevolmente senza pregiudizio. Fin da giovane, era stata devota
di suor Teresa di Gesù Bambino e voleva che soprattutto le novizie ne
leggessero la vita e la <<Storia di un’anima>>. Suor Maria
Maddalena era rimasta colpita dal brano in cui Teresa si era scelta una
consorella che le correggesse i difetti.
– Quale suora mi potrebbe essere
di aiuto?, si chiedeva, ed era titubante, perché pensava a una consorella molto
sveglia e intraprendente, ma aveva dei dubbi.
– Che cosa la preoccupa suor
Maria Maddalena? – le chiede un giorno Florenzia vedendola turbata.
La giovane le confidò il suo
problema e le fece anche il nome della suora a cui aveva pensato.
– Se vuoi un mio consiglio, non
credo che quella suora sia adatta per la tua anima. Ti faccio io una proposta e
poi decidi tu.
Suor Maria Maddalena seguì il
consiglio della Madre e si trovò bene, mentre la consorella a cui aveva pensato
dopo pochi anni perdette la vocazione e abbandonò l’abito e l’istituto.
Alla capacità di discernimento
univa un naturale senso pedagogico basato sulla fiducia nell’interlocutore. Un
giorno, mentre è alla finestra della casa di Roma che guarda i bambini giocare
nel cortile, si accorge che una giovane suora aveva perso la pazienza con un
bambino che continuava a fare capricci. Florenzia subito non dice niente, ma nel
pomeriggio fa chiamare la suora nella sua stanza. Questa si era accorta che la
Madre aveva notato la sua reazione ed era impaurita. Chissà che cosa le avrebbe
detto… Era così severa… Florenzia vede la suora tutta tremante e cerca di
metterla a suo agio, la invita a sedersi.
– L’ho fatta chiamare, cara
figliola, per sapere se si trova bene con noi. Incontra difficoltà nella vita
religiosa? Sta bene in salute?
La giovane è sorpresa. Credeva di
doversi scusare e, invece, la Madre l’invitava a una conversazione serena.
Senza rimproverarle nulla, Florenzia le parla dell’amore di Cristo, dello
spirito di sacrificio che le suore devono acquistare, della carità verso gli
altri.
– Molte volte è difficile
trattare con i bambini, specie se sono dei piccoli ribelli. Ma Gesù amava i
bambini e li portava ad esempio agli adulti. Con loro bisogna avere più
pazienza che con i grandi.
Un altro episodio la vede
esercitare questa virtù pedagogica con una bambina. C’era in istituto una
ragazzina di 13 anni, Teresa, che le suore avevano accolto per carità, visto
che la famiglia non poteva mantenerla. Florenzia amava chiacchierare con lei e
Teresa, rassicurata dalla confidenza che le dimostrava la Madre, un giorno le
chiese perché non potesse indossare l’abito delle novizie e divenire suora.
– Sei ancora troppo giovane,
Teresa. Devi avere pazienza, verrà anche il tuo momento, la rassicurò la Madre.
– Ma è già un anno che sono qui e
conosco tutte le preghiere meglio di tante novizie. Perché non fa un’eccezione?
Florenzia vede che la ragazzina
non vuole convincersi e sembra chiudere il discorso.
La cameretta di Florenzia nella Casa di Roma ora trasformata in
Cappella.
– Teresa, in giardino c’è un
piccolo tronco di albero quasi secco; vedi di estirparlo e portalo qui.
Sembra un incarico di
responsabilità e Teresa, lieta, corre in giardino. Provò e riprovò a svellere
il tronco, ma per quanti sforzi facesse la pianta non si mosse di un
centimetro. Delusa, stanca e accaldata, tornò dalla Madre.
– Il tronco è più grande di me,
non riesco a smuoverlo.
– Vedi, Teresa, ci sono cose che
alla tua età, con le tue forze puoi fare e altre no. Quello che si verifica per
le piante, accade nella nostra vita. Quando si è giovani, bisogna pensare a
curare la vita e a raddrizzarla se ce n’è bisogno. Quindi in questo periodo
studia, lavora e strappa, se occorre, le erbe cattive, cioè le cattive
inclinazioni che scopri in te. Il Signore premierà la tua generosità e, se
vorrà, quando sarai più grandicella, potrai diventare suora.
Spesso andava a trovare la suora
che era in cucina.
– Figlia mia, fammi pulire la
verdura, diceva.
– Madre, mai io non voglio che
lei faccia queste cose –, rispondeva imbarazzata la suora cuciniera.
– Perché no? Non ho forse anch’io
il diritto di andare in paradiso con il mio lavoro? Vede, fra pentole e
pentolini sta spesso la nostra santità.
– Spesso qui, Madre, non si ha
nemmeno il tempo di dire un Gloria.
– Eppure è semplice. Quando
accende il fuoco, si ricordi dell’inferno e del purgatorio e così il suo
impegno sarà, tra meditazione e lavoro, tutto per Gesù. Che cosa vuole di più?
Si faccia santa e preghi per me.
Molto tempo Florenzia lo dedica
alle lettere rivolte alle suore lontane o alle circolari che scrive per Natale
o per Pasqua. Sono quasi sempre lettere serene e, se qualche volta deve
rimproverare, lo fa con franchezza come con la stessa franchezza è pronta a
chiedere scusa se si accorge di essere stata ingiusta o di avere ecceduto. Ma
nell’ultimo anno di vita doveva avere un cruccio molto forte che serbava dentro
di sé, anche se qualche volta prorompeva alla superficie.
La circolare del 31 marzo 1955 è
particolare e sembra rilevare questo stato d’animo: “Il mio cuore materno – vi si legge dopo l’indirizzo alle “figliuole
carissime” e l’annunzio dell’approssimarsi della Pasqua – sente il bisogno di manifestare i sensi di soprannaturale affetto che a
voi mi lega, affetto purtroppo mal corrisposto perché, se il cuore delle figlie
battesse all’unisono con quello della Madre, ben diversa sarebbe la vostra
condotta. Soffro tanto nel considerare che voi non vi amate, non vi compatite
scambievolmente, anzi spesso si deve constatare quello spirito di fazione, di
ribellione, di mormorazione, di riferire i difetti delle consorelle
trasportandoli di Comunità in Comunità, inasprendo gli animi e disseminando
malanimo e discordie. Che piaga terribile!!! Figliuole care, perché amareggiare
tanto il cuore di Gesù e quello della Madre vostra? Penso, però, che la
Quaresima sarà stata un periodo di ravvedimento e che la S. Pasqua del 1955 segnerà
per il nostro istituto l’inizio di un rifiorimento dello spirito di carità
vera e sentita, che stabilirà nelle anime vostre e nelle vostre comunità la
pace e la gioia santa che unisce i cuori a Gesù. Questo l’augurio sentito che
la Madre vi fa giungere in questa S. Pasqua, fiduciosa che ognuna di voi
coopererà a rimarginare questa piaga terribile che tende a distruggere lo
spirito religioso nei membri della nostra cara Congregazione”.
E, infine, la conclusione: “Figliuole care, l’avvenire della nostra cara
Congregazione è nelle vostre mani, scuotetevi e in questa Pasqua fate propositi
santi”.
Critiche di questo tipo non erano
usuali in Florenzia. Probabilmente negli ultimi mesi vi era una vena di
pessimismo che l’amareggiava e che, di tanto in tanto, emergeva. Di più,
proprio in questi ultimi mesi, scomparivano alcune compagne – suor Veronica e
suor Nazarena – che erano state con lei fin dai primi momenti della creazione
dell’istituto.
Il 18 febbraio 1956 Florenzia,
che sente approssimarsi la propria fine, scrive a suor Pia, che era ancora in
Sicilia, chiedendole, se possibile, di sospendere le visite in programma e
tornare a Roma. È una lettera espresso che consegna alla segretaria generale
per spedirla. Ma questa, oltre a spedire la lettera, decide di telefonare alla
casa di Acireale dove era suor Pia per manifestarle le sue preoccupazioni.
Niente di grave in apparenza, solo la pressione un po’ alta, ma il fatto che
Florenzia avesse chiesto il rientro della vicaria l’aveva messa in allarme. La
telefonata confermò a suor Pia alcuni presentimenti che lei stessa aveva avuto
e così – “spinta da un incubo che la tormentava” – decise di partire senza
frapporre indugi.
Il 19
suor Pia è già a Roma. Vi era arrivata la sera precedente a tarda ora, avendo
viaggiato tutto il giorno, e non aveva voluto disturbare Florenzia. Ma la
mattina del 20, alle nove, è già nella sua camera. La Madre sta benino e non
sembra che sia prossima alla morte. È felice di vedere suor Pia e subito vuole
essere messa al corrente di come vanno le cose in Sicilia e, in particolare, a
Palermo e a Petralìa Sottana, dove vi erano stati problemi nella realizzazione
delle nuove sedi. Parlano per tre ore fino a mezzogiorno e Florenzia vuole
conoscere tutto, fin nei minimi particolari, delle case, ma anche delle suore,
dei bambini assistiti, delle aspiranti alla vita religiosa, delle postulanti,
delle novizie, delle opere di carità. Aveva nella sua testa, con grande
lucidità, il quadro delle attività siciliane e con interesse voleva essere
aggiornata.
Nel
pomeriggio fa chiamare il padre francescano che le ha promesso la donazione di
una villetta a Roma centro da parte di una benefattrice. È un problema che le sta
molto a cuore. Ha sempre sperato – visto che Monte Mario risulta un po’ fuori
mano – di potere avere una casa anche piccola a Roma dove potessero abitare le
suore che dovevano frequentare le scuole. Meglio se fosse dalle parti di San
Pietro, “per essere più vicine al Papa”. Il padre arriva subito e l’incontro si
tiene nella cameretta di Florenzia, che lo accoglie seduta nella sua solita
poltrona di legno, alla presenza di suor Pia e della segretaria generale. Ma
padre Bernardo non ha novità e pare a Florenzia troppo evasivo. Essa, però, è
pressata dal tempo che le sfugge e si rivolge al francescano con toni accorati:
“Padre, Lei mi può aiutare, mi deve aiutare. Non ho più testa né gambe, non
posso più muovermi, non posso più reggere l’istituto… Ci deve aiutare, segua la
pratica della donazione della casa in città. Poi c’è da fare la chiesa, il
progetto è pronto, desidero essere sepolta nella nuova chiesa vicina a Gesù,
vicino alla Madonna, in mezzo alle mie figlie”.
2. Un transito sereno
Quella
del martedì, 21 febbraio 1956, fu la giornata fatidica. Pioveva e vi era umido
e freddo. La mattina Florenzia non se la sentì di alzarsi per sedersi sulla sua
poltrona come faceva sempre, ma rimase a letto. Questo fu il segnale che
soffriva molto e le forze la sorreggevano sempre meno, anche se lei alle
domande di come si sentisse rispondeva sempre “bene”. Chiese di parlare con don
Traiano, il cappellano dell’istituto, ma questi era fuori sede e così suor Pia
pensò di far venire il parroco di Nostra Signora di Guadalupe, che era la loro
parrocchia e distava dalla casa un paio di centinaia di metri. Don Paolo arrivò
subito e le suore gli suggerirono di dire che non erano state loro a chiamarlo,
ma che era venuto di sua iniziativa per una visita di cortesia. Florenzia, che
aveva compreso la preoccupazione delle consorelle, fu contenta di vederlo.
“Padre
parroco, come faceva a sapere che stavo male?”, chiese con una punta di ironia.
“Madre
– rispose sorridendo don Paolo –, il parroco sa tutto”. E, dopo questi
convenevoli, la suora chiese di confessarsi. Dopo il parroco volle
somministrarle il viatico, anche se Florenzia appariva serena nel volto,
parlava e non manifestava nessun segno di crisi grave. Ed ora, aggiunse don
Paolo, facciamo la comunione. “Non posso – rispose questa imbarazzata – ho
fatto da poco colazione”. “Non importa – ribatté don Paolo –, la dispenso io”.
E recitò le preghiere di preparazione e di ringraziamento alla comunione a voce
alta e chiara.
Intorno
al letto le suore, che nel frattempo, dopo la confessione erano sopraggiunte,
prendendo posto nella stanzetta o sostando nel corridoio dinanzi alla porta,
impietrite dal dolore, seguivano ogni suo movimento e ogni sua parola.
Florenzia recitò alcune preghiere insieme al parroco, da sola ridisse la
preghiera a Gesù crocifisso “Anima Christi”. Poi ripeté più volte: “Nel bel
cuore di Gesù che mi ha redento, in pace io riposo e mi addormento”. Quindi,
col suo solito sorriso, si fece aiutare a mettersi seduta nel letto e si mise a
conversare col parroco chiedendogli perché da un po’ di tempo non invitava le
sue suore ad andare in parrocchia e, in particolare, perché non le aveva
invitate alla solenne festa dell’incoronazione della Madonna. Però, sia perché
parlava piano, sia perché incespicava un po’ nelle parole, non si capiva tanto
bene quello che diceva.
Si
erano fatte già le 12,30 e, mentre conversavano, il parroco chiese se voleva
amministrato quello che oggi si chiama sacramento dell’unzione degli
infermi e che allora era conosciuta come estrema
unzione. Florenzia acconsentì sorridendo, seguì attentamente tutta la
cerimonia, vi partecipò con devozione, rispondendo “Amen” con voce chiara. Le
suore, con il cuore straziato, seguivano i minimi movimenti della Madre, che in
viso era serenissima.
In
questo intervallo, arrivò anche il medico curante che le auscultò il cuore,
disse che era un po’ debole, ma che non c’era una vera gravità, e andò via. Il
parroco, a questo punto, volle darle anche la benedizione papale e, nell’atto
che Florenzia ebbe Gesù crocifisso fra le mani, lo strinse forte e, a voce alta
e chiara, disse: “Gesù, Gesù mio” e baciò il crocifisso con trasporto. Lo
consegnò poi nelle mani del parroco, che lo posò sul tavolo, e ancora a voce
alta disse: “Gesù, Gesù mio, Gesù bello”.
Quindi,
rivolgendosi alle suore, disse: “Perdono tutte le suore, anche le più discole e
benedico di cuore le vicine e le lontane”. Stette un po’ di tempo in silenzio,
ringraziò don Paolo e questi, vedendo che stava benino, andò via. Erano le
13,30 e si era trattenuto per circa tre ore.
Accettò
di mangiare qualcosa e volle alzarsi e sedersi sulla sua poltrona. Scesero a
trovarla, per informarsi sulla sua salute, suor Biagina, che era stata a letto
con acuti dolori intercostali, e suor Adele che, malgrado avesse la febbre,
aveva voluto fare una visitina alla Madre. A questa, che le chiedeva come
stesse, Florenzia rispose sorridendo: “Io sto bene, è lei che è tanto malata.
Cerchi di salvaguardarsi”.
Le
suore passarono il pomeriggio tutte intorno a Florenzia e – vedendola serena e
attenta, come al solito, alla conversazione – si interrogavano perché mai il
parroco avesse voluto amministrarle l’estrema unzione. A suor Ludovina, che durante
l’assenza di suor Pia dormiva in camera con lei e, quindi, durante la notte si
alzava diverse volte per assisterla, disse: “Lei vada a letto a riposare ora,
io riposerò stanotte”. A suor Amalia, che di solito si occupava del bucato,
disse: “Consegni presto la biancheria ad uso mio che mi servirà”. Riflettendo
su queste frasi, suor Pia si chiese se fosse un indizio che Florenzia presagiva
la propria morte. Ma non disse nulla a questo proposito. Alle 18,30 fece cena,
mangiò come al solito e bevve acqua calda con succo di mandarino, perché
sentiva freddo. Alle ore 19 volle che le suore andassero a cenare e rimasero a
farle compagnia solo suor Ludovina e suor Amalia.
In
questo intervallo, venne a trovarla don Traiano che era rientrato in istituto.
Lei gli disse, contenta, che vi era stato don Paolo, di aver fatto la comunione
e di aver ricevuto anche l’estrema unzione.
– Se
lei ha pazienza, Padre, vorrei esporle un ragionamento che sono venuta facendo
in questi ultimi mesi e che è come un riassunto della mia vita spirituale. Il
mio cammino spirituale. Il Padre le disse che era felice di ascoltarla e
Florenzia riprese il discorso.
Interno della chiesa di Pirrera, oggi
“Vede,
Padre, la cosa più importante nella mia vita è stata la preghiera, e cioè il dialogo
con Gesù e con la Madonna. Ma forse, ancor prima della preghiera, è stato il
silenzio. Le suore pensano che io sia un po’ fissata con il silenzio. E può
essere vero. Con l’età anche alcuni valori finiscono con l’apparire manie. Ma
per me il silenzio vuol dire l’incontro della mia anima con Dio. Il silenzio è
una tale forza trasformatrice che ci fa scoprire la nostra povertà umana, la
nostra incapacità, i nostri limiti. Il silenzio non è il nulla, ma è ascolto
per cogliere la presenza di un altro che è oltre la percezione dei nostri
sensi. Il silenzio è la premessa della preghiera, perché vuol dire fare spazio
all’ascolto di Dio. Questo l’ho sempre saputo, fin da bambina, quando passavo
lunghe ore in silenzio dinanzi al quadro della Madonna degli Angeli nella
vecchia chiesetta di Pirrera a Lipari. E un giorno, il giorno della mia prima
comunione, ho sentito finalmente la voce di Gesù.
Ho
detto molte volte che “Gesù parla alle anime silenziose. Quando si accorge che
nel nostro cuore si nutrono pensieri che non sono per lui, ci lascia sole e non
si può conoscere la via che porta al cielo”. Sì, il silenzio è già preghiera. E
la preghiera è stata per me l’alimento giornaliero, il sostegno a cui
appoggiarmi nelle difficoltà. La preghiera fatta di ascolto e di dialogo.
Dialogo con Gesù. Dialogo con la Madonna. Dialogo e meditazione. Anche il
rosario è stato per me dialogo e meditazione. Un modo di comunicare con Dio
lungo i misteri della fede.
Silenzio
e preghiera sono fra loro connessi e uno introduce all’altro, così come la
perfetta letizia e l’abbandono a Dio, che sono le altre tappe di questo cammino
sulla strada dello Spirito.
La
perfetta letizia è stato il passaggio, credo, più complesso. Mi riusciva
difficile pensare come si potesse rimanere nella gioia interiore di fronte a
eventi terribili, a disgrazie familiari, alla sofferenza che vedevi intorno a
te. Il racconto di Francesco che torna da Perugia in una durissima notte
d’inverno e, giunto al convento, non lo lasciano entrare, la prima volta che lo sentii mi parve una
storiella, allo stesso tempo, irritante e divertente. Com’è possibile essere
lieto, quando subisci un’ingiustizia? Com’è possibile non reagire?
È
possibile – mi disse un giorno un frate francescano –, se al centro non ci sei
tu, se non sei tu al centro dei tuoi pensieri, delle tue emozioni, del tuo
mondo. Fino a quando non ti poni in un angolo e non occupi quel centro con Dio,
non puoi. Per questo, la perfetta letizia pretende l’abbandono fiducioso a Dio.
Ho
ancora nelle orecchie le parole di quel frate. Si chiamava padre Daniele e lo
conobbi viaggiando sulla nave verso gli Stati Uniti e poi lo ritrovai a New
York nella chiesa di Sant’Antonio. Quel viaggio verso l’America fu un momento
importante della mia maturazione spirituale e, soprattutto, la notte terribile
di tempesta quando pareva che dovessimo affondare e sentivo intorno a me grida
e pianti. La mattina, la tempesta si era quietata e raccoglievamo morti e
feriti. Allora mi sono detta che, se ero ancora viva, è perché l’aveva voluto Dio
e, quindi, la mia vita non mi apparteneva più. Apparteneva a lui e dovevo
vivere ogni momento nella gioia di servirlo. Da quel momento, per quanto forti
fossero le preoccupazioni, mi dicevo che, se una cosa era bene che si
verificasse, allora Dio avrebbe provveduto. Se c’era qualcosa che io avrei
potuto fare, dovevo impegnarmi sino in fondo. Ma se le cose esorbitavano dalle
mie possibilità dovevo affidarmi a lui.
Affidarsi
a Dio non è lo stesso che fidarsi di Dio, è un passo in più. Vuol dire
abbandonarsi a lui e avere la certezza che tutto quello che ti succede ha una
finalità e questa finalità non può non essere buona perché viene da Dio. Le
contrarietà sono le forti carezze di Dio. Le difficoltà, le prove arrivano
perché Dio vuole saggiare la nostra fiducia in lui, ma lui stesso le avrebbe
risolte. Alle mie suore, di fronte alle traversie, alle contrarietà e alle
preoccupazioni, ho sempre detto: “Uniformiamoci alla volontà di Dio, il quale
tutto sa risolvere per il nostro bene”.
Dio,
Padre, non è mai stato per me un essere impersonale. È sempre stato una persona
viva e vera. È stato Gesù e Gesù è stato l’unico e grande amore della
mia vita. Gesù che mi parla attraverso la Scrittura, Gesù che mi parla
nell’Eucaristia. Anche nella ricerca di Gesù Francesco mi è stato maestro. Il
Gesù della povertà del Presepio, il Gesù dell’umiltà della Croce, il Gesù
dell’annientamento dell’Eucaristia. Sono tre momenti che rendono Gesù vero,
presente. Eppure fra questi tre momenti quello verso cui ho sempre provato un
particolare trasporto è l’Eucaristia. Nell’Eucaristia Gesù si è annientato per
rimanere con gli uomini per sempre. E così non siamo stati più soli. Alle mie suore, che si lamentavano qualche volta della
solitudine in cui vivevano a Rosarno, a Castagnolino, in Brasile ho sempre
ricordato: “Gesù dimora con voi e, quindi, avete tutto. Amatelo Gesù. Ditegli
spesso: Gesù ti amo, resta con noi”. Per questo volevo che il primo pensiero
nell’apertura di una casa fosse quello della cappella in cui celebrare la
messa, possibilmente tutti i giorni.
L’Eucaristia è stata per me il centro
della giornata e alle mie figliole dicevo di dividere la loro giornata in due
periodi di raccoglimento: la prima metà in costante ringraziamento per
l’eucaristia ricevuta la mattina, e la seconda mezza giornata vissuta
nell’attesa della comunione dell’indomani.
L’amore
per Gesù è stato il culmine del mio percorso. L’amore per gli uomini e, in
particolare, per i più bisognosi non è che l’estensione di questo amore. Sì,
l’amore è stato il movente di ogni aspirazione nella mia vita, di ogni opera
intrapresa, l’amore che innalza all’Onnipotente un cantico di gioia, di
gratitudine, di riconoscenza nel trambusto di una vita sacrificata,
francescanamente vissuta. Nel povero mendicante, nell’ammalato che soffre,
nella ragazza madre abbandonata, nel bambino senza affetti vedevo Gesù. Ho
scritto alle mie figliole in Brasile, che tanti problemi hanno avuto
nell’ospedale di Jatai: “Oh, come sarebbe bello, se in uno dei tanti ammalati
trovaste Gesù in persona. Ma se non lo trovate visibile, lo troverete sempre
invisibile. Quando avvicinate un ammalato, andate col pensiero che vedete
Gesù”. E a tutte ho sempre ricordato che, quando un povero bussa alla porta,
bisogna accoglierlo e aiutarlo, perché in lui c’è l’immagine di Gesù Cristo.
Ecco, questo è il testamento che lascio alle mie figliole, un percorso per
diventare sante non compiendo azioni straordinarie, ma affrontando i problemi
di tutti i giorni lungo quella “piccola via” che ci ha indicato suor Teresa di
Gesù Bambino”.
La casa della famiglia Profilio a Pirrera trasformata in casa di
preghiera con la sua piccola cappella
Parlò a lungo Florenzia ed era
veramente come se volesse consegnare a don
Traiano il proprio testamento spirituale. In alcuni momenti la voce sembrava
spegnersi in gola ma, subito, riprendeva come se quel racconto fosse il canto
della sua vita.
Dopo
cena, il cappellano si incontrò con le suore e le tranquillizzò perché
Florenzia era lucida e serena. Il tempo della ricreazione le suore lo passarono
rimanendo attorno alla Madre e, all’orario delle preghiere serali, le chiesero
la benedizione e andarono in cappella. A recitare le preghiere con Florenzia
rimasero suor Pia e suor Ludovina e la Madre partecipò alle preghiere col
solito fervore facendo sentire la propria voce.
Poi
volle alzarsi e, mentre suor Pia le rifaceva il letto, suor Ludovina l’aiutava
a sorreggersi. A un tratto esclamò: “Le forze mi vengono meno”. Subito suor Pia
accorse e a stento le due suore la sorressero per fare quei pochi passi dalla
poltrona al letto. Nell’attimo di mettersi a letto, Florenzia si sconvolse in
viso e, mentre le suore cercavano di farle prendere la posizione più giusta che
la aiutasse a respirare, chiuse per sempre gli occhi. Erano le 21 precise del
22 febbraio 1956,,
l’orario in cui, in quel periodo dell’anno, la comunità andava a riposare.
Subito accorsero le suore che si inginocchiarono intorno al letto e pregavano e
piangevano. Accorse anche don Traiano per l’ultima benedizione e anche lui si
raccolse in preghiera.
3. L’omaggio a Florenzia
Ricomposta
la salma, le suore, don Traiano e le orfanelle
più grandi, che chiesero di poter restare, passarono la notte in veglia di
preghiera alternando, fra le lacrime, le orazioni con la lettura della passione
e morte del Signore.
La cerimonia dell’olio per la luce dinnanzi
alla tomba di Madre Florenzia nella Cappella della Casa generalizia.
Il
corpo rimase esposto nella sua stessa camera per due giorni, fino alle 18 del
giovedì, quando Florenzia fu deposta nella cassa dalle sue stesse figlie e
portata in cappella dove la bara rimase aperta tra una profusione di fiori e
ceri accesi. Le suore vegliarono per tre notti e quasi tre giorni. La Madre per
tutti i tre giorni conservò l’aspetto di una persona viva, soavemente
addormentata, senza la freddezza e il pallore della morte.
Moltissime
furono le autorità religiose, i sacerdoti, che vennero a sostare in preghiera.
Così anche le suore della zona e poi un via vai di vicini, di parenti delle
ragazze assistite, di famiglie amiche e di persone sconosciute. Le suore
posarono sul corpo della Madre medagliette dell’Immacolata e piccoli crocifissi
per poterli poi conservare come ricordo della defunta. La bara rimase aperta
fino alle 10,30 del venerdì 24 febbraio. Quando si chiuse la bara, gli uomini
addetti alla saldatura, avevano tentato di stendere le braccia lungo il corpo,
ma fu inutile perché per ben due volte le mani da sole si ricongiungevano nella
posizione primitiva, cioè a stringere il crocifisso, la corona del rosario e la
santa Regola che erano sul petto.
Il corpo di Madre Florenzia Profilio ora riposa
nella chiesa della Casa generalizia dell’Istituto a Roma in via delle
Benedettine. Dal luglio del 1980 è iniziato il cammino verso il riconoscimento
della sua santità ed il 14 aprile 2018 il Santo Padre ha firmato il decreto col
riconoscimento delle virtù eroiche della Serva di Dio e l’attribuzione quindi
del titolo di Venerabile..
(10.Fine)