Nona
puntata
LA
MISSIONE IN BRASILE
1. Verso una nuova esperienza
Brasile. La regione del Mato Grosso
Florenzia
aveva sempre desiderato che la sua congregazione avesse un respiro missionario.
Già nel 1905 al tempo della fondazione aveva pensato di qualificare in questo
senso il suo progetto e, nel 1937,
aveva scritto al vescovo di Acireale per conoscere le pratiche da compiere per
aprire una casa in Africa orientale, ma il proposito non ebbe seguito.
Alla
Madre venivano in mente questi ricordi, mentre padre Oderico, un cappuccino
missionario in Brasile, in una mattina primaverile della fine di maggio del
1953, le parlava della drammatica situazione dei poveri e dei bambini in quelle
terre, dove soprattutto l’ignoranza e, per quanto riguardava gli indios,
un’esistenza disumana e priva dei diritti civili, erano alla base della fame e
della miseria. Padre Oderico sperava che Florenzia accettasse di inviare in
Brasile alcune suore per aprire una missione.
– C’è
tanto lavoro da fare – spiega il missionario – e, per quanto qui la situazione
sia difficile per moltissimi, non c’è paragone con la povertà di quei luoghi.
Proprio stamattina ho letto un articolo sulla situazione economica e politica
del Brasile. Questi sono anni drammatici segnati dall’inflazione e,
soprattutto, da una corruzione dilagante che fanno di questo enorme paese al
tempo stesso una realtà ricchissima per le materie prime e poverissima dal
punto di vista sociale. Questo in generale, reverendissima Madre, ma nello stato
di Goiàs nel Mato Grosso, che è la realtà che conosco meglio, la situazione è
forse peggiore, anche se proprio in questa regione è stata progettata e sono
iniziati i lavori per realizzare una nuova capitale, Brasilia. Questo vorrà
dire investimenti e lavoro, ma c’è anche il rischio che si approfondiscano le
forti lacerazioni sociali e il caos.
– Dare
il via a un’esperienza missionaria – osserva Florenzia – mi piacerebbe molto, è
sempre stato il mio sogno. Soprattutto da quando abbiamo il riconoscimento pontificio.
Mi è sempre rimasta in mente una conversazione che ebbi a New York con madre
Francesca Cabrini, ora divenuta santa. A un certo punto mi disse: “Ho
desiderato con forza aprire la casa generalizia a Roma ed avere il
riconoscimento pontificio. Che senso ha fare i missionari nel mondo con un
istituto riconosciuto solo dalla diocesi?”. Questa sua considerazione non l’ho
mai dimenticata e mi ha sostenuto, quando, subito finita la guerra, volli
venire a Roma proprio per realizzare questo programma. Ma noi siamo ancora
poche e con risorse molto limitate.
– La
missione in Brasile potrebbe essere l’occasione per avere nuove vocazioni.
– Sarebbe
una grazia del Signore. Se lei ci aiuta, proveremo ad avviare anche questa
esperienza. Ne parlerò al prossimo Consiglio. Certo, non posso pensare di
accompagnare io le mie suore come ho fatto ancora fino a una decina di anni fa,
sono ormai troppo vecchia e acciaccata, ma sceglierò io una a una le suore da
mandare.
La cappella della Casa generalizia a Roma
E il
Consiglio approvò la proposta di Florenzia e, il 20 giugno 1953, si svolse
nella cappella della casa di Roma la cerimonia del saluto alle suore
missionarie: suor Matilde, che sarà la superiora, quindi suor Assuntina, suor
Arcangela e suor Isabella. Florenzia dà lettura di una lettera che consegna poi
a tutt’e quattro le suore. “Raccomandiamo
– dice fra l’altro la lettera – spirito di sacrificio e di abnegazione, amore
sororale, rispetto e obbedienza alla Madre superiora, tale da essere la sposa
fedele di Gesù e la degna figlia del Serafico Padre San Francesco. Il Signore
la benedica e l’accompagni”.
Il 30
giugno partirono da Roma e il viaggio in mare durò 15 giorni, salpando da
Genova e toccando Lisbona, Rio de Janeiro, fino a Santos, dove il viaggio via
mare si concluse per iniziare quello via terra verso Sâo Paulo, Uberaba e,
infine, Jatai.
Di
questo viaggio, come della missione in Brasile, suor Matilde terrà un diario in
cui andrà registrando fatti e sentimenti, a cominciare da quelli contrastanti
che accompagnano le suore alla partenza: animo generoso, entusiasmo, cristiana
rassegnazione, fede viva pensando di compiere i divini voleri, dolore per il
distacco da Florenzia, dalle consorelle e dal proprio paese. Viaggiavano in
terza classe, ma non era più la terza classe del viaggio di Florenzia per New
York di sessant’anni prima. La nave era nuova, bella, pulita, anzi addirittura
candida, e suor Matilde, suor Arcangela, suor Assuntina e suor Isabella avevano
le loro cabine.
Durante
la navigazione, le nostre suore conversano con gli altri viaggiatori, ma non
trascurano le preghiere e le celebrazioni. Diligentemente suor Matilde annota
nel suo diario che al pomeriggio c’è la recita del rosario, partecipata da
parecchi passeggeri, nella grande terrazza della nave, alternata a canti
popolari accompagnati dalla fisarmonica; poi la benedizione con altri canti
alla Vergine in lingua italiana e spagnola. Quanto alle messe, vi erano diverse
celebrazioni nei vari reparti e nelle sale di seconda classe alle quali le
nostre suore avevano libero accesso.
Questo
permette loro di
fare amicizia con altre suore che viaggiavano in seconda e prima classe.
Purtroppo non mancò il cattivo tempo e il mare burrascoso che, qualche volta,
le costringeva a disertare i pasti e a rimanere in cabina distese sul letto
perché il mare era così forte che era anche difficile stare in piedi. Ma
c’erano anche le occasioni per grandi momenti di allegria e il tempo per
imparare un po’ di portoghese. E questo, mentre aiutavano il cappellano a
scegliere e copiare le canzoncine da cantare durante il rosario della sera, e a
preparare alcuni bambini per la prima comunione.
Rio de Janeiro
Finalmente,
il 15 luglio, si arrivò a Rio de Janeiro. Tutti sono sul ponte più alto per
scorgere le montagne che si disegnano all’orizzonte e assistere
all’avvicinamento verso questa terra nuova che, per molti, sarebbe dovuta
diventare la loro nuova terra. Ecco finalmente il Corcovado, la montagnola a
forma di pan di zucchero, con in cima la statua del Cristo.
Scese a
terra, le nostre suore trovano chi le accompagna proprio ai piedi della statua
da cui possono ammirare la città di Rio. Viene loro detto, e suor Matilde lo
appunta sul diario, che solo a Rio si potevano contemplare i monti, perché per
tutto il Brasile avrebbero trovato solo sterminate pianure e verdi boscaglie.
Partiti da Rio, il giorno dopo sono a Santos che di fatto è il porto di Sâo
Paulo, la meta del viaggio via mare.
Al
porto, ad attenderle per aiutarle nel disbrigo delle faccende burocratiche, vi
è padre Odorico.
– Benvenute
in Brasile, sorelle – esordisce il cappuccino –, prima di raggiungere Jatai che
sarà la sede della missione, ci fermeremo otto giorni a Sâo Paulo, ospiti delle
suore agostiniane per ambientarvi un po’ e cominciare a fare i conti con la
lingua portoghese che credo non conosciate.
– Ne abbiamo avuto qualche saggio
sulla nave – commenta suor Isabella – e abbiamo capito che è piuttosto
intricata e difficile.
– In queste giornate – continua
padre Oderico – visiteremo alcuni ospedali per vedere
come funzionano, visto che questa in futuro sarà la vostra occupazione e
incontreremo anche il vicario vescovile di Jatai dalla cui parrocchia
dipenderete.
Come le suore agostiniane, anche
il vicario fu molto affabile e disponibile con le nostre suore. Le agostiniane
le sommersero di attenzioni e di consigli aiutandosi nella conversazione con i
gesti, quando le parole non erano comprese e il vicario promise di prendersi
cura di loro mettendole in guardia che proprio a Jatai la situazione era un po’
delicata, perché nel comprensorio vi era una discreta presenza di protestanti e
la loro comunità aveva manifestato anch’essa interesse per l’ospedale.
– Ma sono sicuro –concluse
salutandole – che con un po’ di sana prudenza e di carità cristiana tutto andrà
per il meglio.
2. L’ospedale di Jatai
Da Sâo
Paulo a Jatai andarono in aereo. A incontrarle a Jatai c’erano suore e
frati agostiniani, la dottoressa
dell’ospedale col marito che erano bergamaschi. In macchina si andò subito a
vedere la casa dove avrebbero vissuto. Vista da fuori, era nuova, graziosa,
luminosa, vicino all’ospedale, ma dentro è lo squallore: un tavolo, quattro
sedie e quattro letti, questo tutto il mobilio, inoltre mancava una pila per
lavare. Lo scoramento più grande veniva dalla campagna circostante, dalle poche
case sparse nei dintorni, da una polvere rossa che si infiltrava dappertutto
fino nei polmoni. Un deserto, così parve subito la loro destinazione. E, di
improvviso, furono sopraffatte dalla nostalgia per la patria lontana e
dovettero fare forza sulle motivazioni più profonde per non cedere allo
sconforto.
Si andò
a salutare il vescovo e poi, per i primi giorni, fu deciso, fino a che si
fossero ambientate, di rimanere ospiti delle agostiniane.
– Le
suore agostiniane sono affettuose e gentili – confidò suor Matilde alle
compagne –, ma non ha senso che indugiamo. È bene che diamo inizio alla nostra
missione in senso pieno. Oggi stesso prenderemo contatto con le autorità
dell’ospedale per renderci conto del nostro lavoro e effettuare le consegne.
Così,
già il 27, le nostre suore si trasferiscono nella loro casa e vanno a visitare
l’ospedale. Nella casa si tratta di stabilire la routine degli impegni comuni.
– Siccome
non abbiamo una cappella – suggerisce la superiora –, le preghiere le recitiamo
in salotto e tutte le mattine, subito dopo la meditazione, andiamo in
parrocchia – anche se un po’ distante – per partecipare alla messa.
L’ospedale
era una costruzione nuova e la cerimonia delle consegne fu, di fatto, una vera
e propria inaugurazione con la benedizione di locali, la presentazione dei
dottori, e la visita in infermeria dove ancora c’erano solo due ricoverati: una
donna e un giovane, giunti proprio quella mattina.
Anche
se in quel continente era inverno, continuavano a portare gli indumenti estivi
perché, se pur l’aria al mattino era piuttosto fresca, spuntando il sole,
sembrava estate. Inoltre, d’inverno per sei mesi praticamente non pioveva e la
mancanza di acqua faceva aumentare quella polvere rossa che le costringeva a
indossare tutti i giorni vestiti puliti e lavare la stessa biancheria in continuazione, perché la gran parte dei
bagagli tardava. Quando arrivarono le casse con la biancheria e le masserizie,
si pensò a sistemarle e si ottenne anche un armadio.
In
ospedale le suore andavano tutti i giorni, si faceva l’inventario del materiale
esistente e si curava che la pulizia venisse ben fatta. Si comperò una macchina
da cucire e si iniziò a preparare lenzuola, cuscini, federe, indumenti per i
dottori e la sala operatoria. Intanto, gli ammalati cominciarono ad arrivare,
anche se alcuni giungevano appena in tempo per i sacramenti. Ciò che era più
evidente - fra
la gente che batteva alla porta dell’ospedale e quella che si incontrava per
strada - era la
miseria. Comunque, con gli ammalati le suore stabilirono un rapporto di fiducia
e di stima tanto che, quando andavano via, persino i poveri, volevano
sdebitarsi offrendo qualcosa per riconoscenza.
Vi era
sempre il problema della lingua e, nei primi tempi, fu un vero martirio farsi
capire. Non era solo il portoghese e la parlata degli indios, vi era anche che
in quella zona la pronunzia era più stretta e, quindi, la lingua più difficile
a orecchie non abituate. Ma questo “martirio” aveva anche risvolti umoristici.
La gente rideva a sentire le suore che si sforzavano di parlare portoghese e le
suore ridevano per certe parole strane che pronunciavano i locali. La sera, nei
momenti di ricreazione, facevano esercizio di lingua: dettato, copiato, lettura
e fra loro scherzavano, perché si sentivano come scolare alla prima classe. Le
domenica andava da loro una suora agostiniana ad aiutarle in questi esercizi.
Ma, per
quanto le suore si prodigassero soprattutto per creare in ospedale un clima di
collaborazione e di fiducia reciproca, i problemi non mancavano. C’era la
barriera della lingua, ma l’incomprensione era ben maggiore. Approfittando
dell’assenza del direttore che era in malattia, il personale assistente, le
infermiere e gli aiutanti tendevano a crearsi spazi di autonomia, osteggiando
le suore per sottrarsi al loro controllo, facevano cioè da padrone e le suore
sopportavano tutto in silenzio. Anche quello dei pasti era divenuto un
problema. Non riuscendo ad adattarsi ai cibi brasiliani, le suore avevano preso
a cucinarsi per loro conto qualche piatto italiano. Ma proprio questo scatenò
critiche e sospetti. Si diceva che
consumavano troppo olio, che si appropriavano dei viveri di prima scelta, ecc.
Così furono costrette a cucinarsi i pasti nella loro casa.
Persino
il fatto che sollecitassero un contributo veniva criticato e negato secondo la
tesi che, essendo suore, avrebbero dovuto lavorare gratuitamente, visto che si
trattava di un’opera di carità che aveva solo un finanziamento dello Stato, il
cui importo era insufficiente e, quindi, erano necessari contributi dei
privati.
Dovette
intervenire il vicario e parroco di Jatai, per chiarire quali fossero le
condizioni per il lavoro delle suore. Si superò così, dopo mesi, quella
condizione di estrema povertà in cui erano state costrette a vivere fin dal
loro arrivo. Ma il clima dei rapporti continuava a non essere dei migliori.
3. Florenzia e la missione
Florenzia
seguiva la missione delle sue figliole, da Roma, con partecipazione e
apprensione. Avrebbe voluto sicuramente essere ancora lei ad aprire con loro
questa nuova pista, ma era rassegnata a seguirle solo col pensiero e la
preghiera. Ogni sera verso le 21, guardando dalla terrazza un aereo alto nel
cielo, soleva dire: “Questo mi porta la lettera delle suore del Brasile”.
Capitava che il giorno dopo il postino recasse davvero questa lettera e lei,
tutta felice, commentava: “Ve lo dicevo io!”.
Si
preoccupava di ognuna. Dava consigli e rincuorava. Prima di ricevere la prima
lettera da loro, ne aveva spedite tre. Alla lettera risponderà immediatamente e
confesserà: “Quando riceviamo una vostra lettera, è una festa per noi, specie
per la sottoscritta che ne vorrebbe una al giorno”.
È
felice di sapere che si stanno abituando al clima e all’ambiente, ma si
preoccupa per la loro salute e per il vitto che risparmiano per non pesare
troppo sull’ospedale. Consiglia di procurarsi una cucinetta in casa per
prepararsi un uovo o qualche altra pietanza di loro gusto. Consiglia di stare
attente e tenersi tutte in salute, perché sarebbe un disastro se qualcuna si ammalasse.
Considera l’assegno di 20 mila lire che finalmente hanno ricevuto per il lavoro
in ospedale e, se da una parte, le sembra poco, dall’altra osserva che però
ricevono anche il vitto. È contenta di sapere che tutt’e quattro lavorano
all’ospedale, ma è preoccupata per suor Assuntina, a cui è legata da
particolare affetto, perché a Roma si prendeva cura di lei e sa come è
facilmente impressionabile di fronte alle malattie. Prega la superiora di
toglierla dall’assistenza diretta degli ammalati, perché potrebbe cadere lei
stessa malata. Meglio farle fare la guardarobiera o la sorvegliante in cucina.
Apprende che vi è una terra destinata alle suore a Rio Verde, paese poco
distante, e pensa subito che col tempo si potrà aprire una casa anche lì.
Quando legge che suor Matilde le chiede di inviare altre suore istruite e al
più presto perché il lavoro è tanto, ha una reazione immediata. “Lei sa lo
scarso numero che siamo nella nostra comunità… Come si permette dire tali cose,
mia cara. Lei è partita da qua, col pensiero di avere costì delle vocazioni e
mandarle qua, invece chiede aiuti e suore istruite. Mi sembra che non si ragiona,
cara Superiora, stia tranquilla, si sottometta con tutto il cuore ai voleri di
Dio e il Signore la colmerà di grazie”.
L’irritazione,
però, è frutto di un momento e Florenzia torna a preoccuparsi per le sue
figliole.
“Cara
Superiora, lei dev’essere di cuore grande, coraggiosa e avere molta fede in
Dio. Mi è stato detto che costì vi sono le Suore Francescane missionarie e,
quando sono arrivate, nessuna accoglienza hanno avuto e sono state all’aperto
notte e giorno per molti giorni; vi sono anche le suore dove va a prendere
lezione suor Benedetta e hanno pianto per sei mesi. Voi siete state ricevute
con tanta carità, quindi, cara Superiora, la prego di fare il tutto per
imparare la lingua ed anche imparare a scriverla così potete fare scuola e con
la scuola tanto bene. Le suore, che dovrebbero venire costì, dovranno essere
istruite e sapere parlare bene il portoghese, ma per questo passeranno diversi
anni.
Il fico
maturo si prende dall’albero e si mette in bocca, ma per le altre cose si
richiede tempo e poi la tristezza sarà cambiata in gioia”.
La
suora nella sua lettera le ha parlato della miseria che c’è dovunque e della
tristezza che le assale di fronte a questa visione e alla consapevolezza di
poter fare troppo poco. Florenzia cerca di consolarla e teme che le consorelle
possano cadere in depressione; per questo consiglia di non pensarci troppo:
“Quelli sono nati nella miseria e non vi fanno caso, lei li raccomanda al
Signore, se può beneficarli con qualche cosa lo faccia ed il Signore gliene
darà merito”. Poi si rivolge direttamente a suor Matilde, che ha responsabilità
della missione, e le consiglia che “quando si sente abbandonata e desidera
sfogare in pianto, lo faccia pure, pianga e sfoghi il suo cuore innanzi al
crocifisso che porta al fianco”. Quindi la conforta ancora e la prega di non
impressionarsi perché povere si trovano in una terra sconosciuta, senza
conoscere la lingua. Il buon risultato si vedrà piano piano e non in un sol
colpo. “Si vedrà dopo che starete diciotto anni come sono stati gli altri e
anche voi avrete scuole e noviziato e molte case aperte”.
4. L’ospedale al centro di tensioni
Le
tensioni in ospedale non distraggono le suore
ad apportare miglioramenti alla loro casa. Così
fu realizzata la cappella che divenne un punto di riferimento per tutti gli
abitanti della zona. Presto essa non fu più sufficiente e si dovette cercare
una stanza più grande e procurarsi altri banchi. La domenica era sempre gremita
di gente.
Via via
che l’ospedale si riempiva di malati, aumentavano i problemi per il loro
sostentamento e quello del personale, perché i contributi che arrivavano erano
insufficienti e la superiora, quale direttrice dell’ospedale, non sapeva come
fare quadrare i conti. Spesso, inoltre, venivano messe di fronte a decisioni
già prese senza consultarle come fu per il corso delle vincenziane
sull’organizzazione e per la formazione delle infermiere. Si dovettero
comperare in tutta fretta letti, materassi, lenzuola, coperte, biancheria e
allestire un locale per le due suore e un altro per le alunne. Per fortuna con
le vincenziane si creò un buon rapporto e si viveva concordi e in armonia. Il
corso fu proficuo anche per le nostre suore. Suor Assuntina non solo riuscì a
vincere le sue resistenze a occuparsi dei malati, ma frequentò il corso, lo
superò e imparò così bene da poter dirigere lei, in seguito, le allieve.
Nell’occasione vennero anche infermiere diplomate da Rio, provette e competenti,
che contribuirono a valorizzare l’ospedale in cui aumentò il numero degli
interventi chirurgici.
Quando
le vincenziane andarono via, lasciarono una relazione di encomio alle Suore
Francescane per l’accoglienza data loro e per l’impegno nell’ospedale, fecero
un elenco delle cose necessarie che ancora mancavano e chiesero che venissero
donate alle suore, per la cappella, le statue di san Francesco e
dell’Immacolata.
Ma più
passava il tempo e più la situazione economica dell’ospedale peggiorava perché
aumentavano i malati e anche i dottori e il personale, mentre le risorse
rimanevano sempre le stesse. Le suore, che avevano la responsabilità della
direzione e della gestione, non sapevano come fare, ma nessuno se ne curava.
Chiesero che venisse assunto un buon economo, ma la richiesta sembrò cadere nel
vuoto. Così si viveva a credito ed erano già quattro mesi che non si pagavano
la farmacia, l’energia elettrica e tutto il resto che era necessario.
Finalmente arrivò il tanto atteso economo, ma l’unico risultato che si ottenne
fu quello di mettere tutti d’accordo – dottori, personale e suore – contro il
suo modo di gestire che faceva mancare perfino il necessario.
Comunque,
le preoccupazioni delle suore sembrarono diminuire perché ora c’era chi si
doveva occupare di fare quadrare i conti. Non si alleviò, però, la loro povertà
che veniva mitigata dalle cortesie delle suore agostiniane.
Come se
i problemi esistenti all’ospedale non bastassero, ne emerse uno nuovo che mise
in discussione la pace religiosa. Andarono via due infermiere e vennero
sostituite da altre quattro di confessione protestante. E siccome non si
sopportavano con le infermiere cattoliche, litigavano in continuazione. Il
direttore era rientrato, ma non faceva niente per superare questi problemi anche
perché aveva esigenze elettorali e non voleva inimicarsi nessuno. E così la
litigiosità divenne endemica e investì ciascun membro del personale.
Per di
più il vicario, che aveva accolto le suore e le aveva sempre protette, lasciò
Jatai. Anche se il nuovo sacerdote che lo sostituì era virtuoso e buono, non
aveva, però, l’esperienza e l’autorità del suo predecessore e le suore si
sentirono più sole e sempre più abbandonate. Non sapevano più a chi rivolgersi
per chiedere protezione dai soprusi che in ospedale non mancavano anche da
parte di qualche dottore.
Dopo
qualche mese, le infermiere protestanti andarono via perché stufe degli scontri
continui. Con le suore non avevano mai avuto problemi, ma queste tirarono
ugualmente un sospiro di sollievo, perché erano preoccupate per la tensione in
ospedale e temevano sempre che potessero fare del proselitismo fra i malati.
Infatti, partite le infermiere, in ospedale si visse un periodo di pace e di
serenità, ma era un equilibrio instabile, perché i problemi di fondo relativi
ai finanziamenti non erano stati risolti.
Proprio
per questo suor Matilde cercò di vedere se riusciva, impegnandosi direttamente,
a smuovere la situazione. Quando nel luglio del 1955 dovette andare a Rio de
Janeiro per il Congresso eucaristico, ne approfittò per interessarsi
dell’ospedale. Andò al Ministero della Salute e si incontrò con alcuni deputati
del Goiàs per chiedere maggiori finanziamenti pubblici. Tentò anche una questua
presso le famiglie italiane ricche di Rio, ma ne ricavò solo umiliazioni.
Così,
quando fu il momento di tornare, era visibilmente delusa e sconfortata.
– Che
cosa ha suor Matilde? Che cosa la angustia?, le chiese la superiora delle suore
italiane presso cui era alloggiata.
– Torno
a Jatai e trovo in ospedale i problemi di sempre. Mi ero illusa di riuscire a
scuotere la sensibilità delle autorità e delle famiglie ricche di Rio, ma è
stato un buco nell’acqua. È difficile dirigere un ospedale senza risorse; tutti
i malumori e anche i sospetti si scaricano su chi ha l’incarico della gestione,
cioè su noi suore.
– So
che cosa intende dire, suor Matilde – la confortò la superiora –, perché anche
noi gestiamo un ospedale per fortuna senza i problemi che avete voi. Che vuole
che le dica. L’unico consiglio che mi sento di darle e che, se non vede
possibilità di miglioramento, è meglio che abbandoniate Jatai al più presto e
vi trasferiate in un’altra città del Brasile. C’è una grande richiesta di suore
che sappiano gestire un ospedale.
Abbandonare
Jatai e trasferirsi altrove? Suor Matilde non poteva dire che non ci avesse mai
pensato. Ma era un pensiero fugace nei momenti di maggiore disperazione. Il
pensiero di un istante che non era mai stato preso in seria considerazione.
Avrebbe voluto dire dichiarare fallimento e poi che cosa avrebbe detto
Florenzia e il vescovo di Jatai?...
Ma più
trascorreva il tempo più la situazione si deteriorava. Soprattutto i rapporti
delle suore con l’economo che, essendo zio del direttore e amico del deputato
locale, non perdeva occasione per denigrarle sostenendo che non lavoravano ed
era costretto lui a occuparsi di tutto. I dottori avrebbero potuto smentirlo,
ma scelsero la linea del comportamento ipocrita e tutto questo contribuì ad
avvelenare ulteriormente il clima.
Ma se
suor Matilde non sapeva come fare, c’era invece chi il problema se lo stava
prendendo a cuore. Padre Oderico, infatti, che aveva avuto modo di parlare a
Rio con suor Matilde della loro condizione, ai primi di settembre cominciò a
interessarsi per trovare una migliore destinazione per queste suore, giacché si
sentiva responsabile essendo stato lui a volerle in Brasile. E l’impegno del
frate cappuccino diede i suoi risultati. Suor Matilde ricevette una sua lettera
che la invitava a Cravinhos, nello stato di Sâo Paulo, dove il vicario cercava
delle suore per dirigere l’ospedale del posto.
Si
trattava di una prospettiva. Certo non andava ignorata, ma la situazione doveva
essere valutata bene. Questo fu il giudizio unanime della piccola comunità,
quando a sera suor Matilde mise le sue compagne al corrente della proposta. In
realtà, le nostre suore non avrebbero voluto lasciare Jatai e speravano sempre
in un miglioramento della situazione. Ma era un miglioramento di cui non si
scorgeva la minima possibilità. Anzi, oltre al resto, prendeva piede
un’attività tutta clientelare del direttore, sostenuto dallo zio economo, che
faceva trattamenti di favore, esonerando dal pagamento, per amicizia o per
convenienze private, assistiti benestanti e, comunque, in grado di pagarsi le
prestazioni mediche. Contro questa pratica la superiora scrisse una lettera
alla presidenza dell’ospedale, preoccupata che lungo questa china si sarebbe
arrivati al fallimento e, quindi, alla chiusura. Ma non ricevette alcuna
risposta anche perché, alla presidenza, erano stati prevenuti dall’economo che
con i membri di questa aveva rapporti diretti. Quanto ai rapporti interni, lo
stesso economo, che con ogni probabilità voleva liberarsi delle suore, cominciò
a sostenere la tesi, spesso in forme provocatorie, che vi erano differenze
notevoli di prestazione e capacità fra cattolici e protestanti e che solo
questi ultimi sapevano educare la gioventù. E non si trattava solo di
discussioni teoriche. Queste vennero presto accompagnate anche da tentativi di
licenziamento nei confronti di infermiere cattoliche che le suore, a fatica,
riuscirono a evitare. Malgrado tutto, si cercava di curare al meglio i
ricoverati e questi, osservando i soprusi che le suore pativano, restavano
ammirati della loro sopportazione.
Così le
suore decidono che, senza dare pubblicità alla richiesta, avrebbero cercato di
verificare la prospettiva di Cravinhos.
5. Si apre una nuova prospettiva
A
gennaio del 1956, suor Matilde e suor Assuntina raggiungevano a Cravinhos padre
Oderico per incontrare il parroco e il prefetto della cittadina. Si parlò della
direzione dell’ospedale e il prefetto offrì un vasto terreno per realizzare la
casa del noviziato. Il parroco avrebbe voluto che accettassero subito e, per
convincerle, le portò a visitare l’ospedale. Era una struttura, poterono
constatare con soddisfazione, meglio attrezzata e organizzata di quella di
Jatai. Suor Matilde propendeva per il sì, ma dovevano prima consultarsi con
Florenzia.
– D’accordo
– dice il parroco –, ma a condizioni che la vostra accettazione sia certa e che
vi troverete a Cravinhos prima di Pasqua.
– Noi –
aggiunse il prefetto – siamo disposti a fare qualunque spesa. Anche a
realizzare, annesso all’ospedale, l’appartamento delle suore, garantendo una buona
retribuzione mensile.
– Sembra
che sia questa la volontà di Dio – commentò suor Matilde –, accettiamo, ma vi
chiediamo di attendere il tempo di ottenere il beneplacito da Roma, che
sicuramente sarà positivo.
Erano
tutti soddisfatti e contenti.
La missione
era praticamente conclusa ma, prima che tornassero a Jatai, padre Oderico
voleva che conoscessero padre Donizzetti, un sacerdote che veniva considerato
un santo e viveva in un paese vicino. Così lo vanno a trovare. Il padre le
accoglie con grande affabilità e conversa a lungo con loro esortandole anche
lui a trasferirsi a Cravinhos, ma anche a disporre il proprio animo alle
sofferenze, perché la vita che avevano accettato era dovunque difficile.
Prima
di salutarle, vuole che passino da casa sua per offrire loro un caffè. In
realtà, vuole che tocchino con mano la sua azione pastorale. Infatti, dinanzi
alla sua casa vi è un via vai di persone, per lo più povere e derelitte, che
vanno a trovarlo prospettandogli i propri problemi, le malattie e per mostragli
le piaghe. Con tutti parla del Vangelo e, al tempo stesso, compie delle
guarigioni che sembravano impossibili e incredibili e, quindi, miracolose.
Il
giorno dopo, prima di prendere l’aereo, le nostre suore vanno a trovare il vescovo,
della cui diocesi Jatai fa parte, per parlargli della proposta che hanno
ricevuto. Il vescovo è contrario a questo trasferimento, perché teme che il
lavoro fatto vada in fumo e i protestanti prendano il sopravvento.
– È
vero, Eccellenza – risponde suor Matilde –, ma Jatai sembra un vicolo cieco,
mentre rinunciare a Cravinhos vorrebbe dire gettare via una grande prospettiva
per il nostro istituto. Certo, se fossimo più numerose in Italia, potremmo
chiedere di mandare qui altre suore per continuare a gestire Jatai senza
sacrificare Cravinhos. Ma è una richiesta che non mi sento nemmeno di fare alla
mia superiora generale.
Infatti,
Matilde ha ancora ben presente la reazione di Florenzia, anche se in seguito la
stessa Florenzia aveva ripreso l’argomento per scusarsi: “Cara superiora, io le
chiedo scusa di averla mortificata ma, se mi crede, certe volte mi sento la
testa così confusa per tanti discorsi che sento che non sono buona a formulare
un pensiero. Lei, tanto buona, mi saprà compatire… Mia cara, lei ha più che
ragione a volere estendere l’opera trovando delle buone occasioni, ma dove si
prendono le vocazioni? Noi tutti i giorni preghiamo la Vergine santissima che
ci mandi delle buone vocazioni e speriamo che appagherà le nostre brame, ma si
richiede del tempo. Fidiamo in Dio”.
Oggi
non è possibile, ma speriamo nel futuro, questa sarebbe stata la risposta da
Roma con la sollecitazione a guardarsi intorno anche lì per trovare delle
vocazioni, e di interessare, a questo fine, i parroci dei paesi vicini.
L’incontro
col vescovo rimane così senza una conclusione lasciando ognuno sulle proprie
posizioni.
Intanto,
a riprova che Jatai era un capitolo da chiudere al più presto per le suore,
giunge il 2 marzo 1956 con una solenne cerimonia in ospedale per consacrarlo al
Cuore di Gesù. Suor Matilde sperava che la consacrazione potesse concorrere a
migliorare la situazione interna, ma non fu così. Anzi, proprio in quei giorni,
si arrivò a uno scontro aperto col rappresentante della presidenza
dell’ospedale, oltre che col direttore e l’economo. Il conflitto partì dal
licenziamento di un’infermiera. La motivazione? Costava troppo e non rendeva
altrettanto.
Era
chiaramente un pretesto e suor Matilde pensò che fosse giunto il momento di
mettere sul tappeto tutte le loro rimostranze. Ma se credeva di trovare nel
responsabile parole di comprensione e rassicurazioni, si sbagliava. Questi
reagì con estrema durezza e, dimostrando di avere una consonanza di vedute col
direttore e l’economo, accusò la superiora di avere troppe pretese e che la
crisi era dovuta al fatto che proprio lei aveva speso troppo, nei pochi mesi in
cui aveva avuto la responsabilità della gestione e così via.
Questo
scontro lasciò una situazione di estremo imbarazzo ormai insostenibile, anche
perché, al di là dell’atteggiamento verso le suore, la stessa struttura era
ormai allo sbando. Ognuno decideva per proprio conto e le decisioni di un
giorno venivano annullate in quello successivo. Vi erano dottori che
procuravano aborti e le infermiere, rifiutando di coadiuvarli, si appellavano
alle suore. Ma queste, se intervenivano, erano umiliate dalla direzione. Questi
episodi non potevano che confermare la volontà di lasciare Jatai, malgrado le
resistenze del vescovo, che però non faceva nulla perché la situazione cambiasse.
Per organizzare la partenza ormai si aspettava solo la decisione di Florenzia.
In
questa situazione di avvilimento giunse, alla vigilia di Pasqua, la notizia che
Florenzia era morta. Fu un colpo duro perché inaspettato. Le suore si chiusero
in lutto per piangere la Madre scomparsa, ma siccome si era in periodo
pasquale, si dovette aspettare il 10 aprile per celebrare le esequie nella
cappella. Intanto, insieme alla notizia della morte, era giunto il consenso ad
abbandonare Jatai per trasferirsi a Cravinhos.
La casa di Cravinhos quando arrivarono le
suore.
Era
l’ultimo atto di governo della sua congregazione che Florenzia aveva compiuto,
prima di chiudere gli occhi per sempre. Negli stessi giorni arrivava una
lettera del parroco di Cravinhos che informava che il contratto che le suore
avevano inviato due mesi prima era stato ponderato dal vescovo locale, dalle
autorità dell’ospedale e da lui stesso, ottenendo da tutti il pieno consenso.
Mancava solo il consenso del vescovo della diocesi di Jatai. Per convincerlo fu
necessario che ci si appellasse a Roma, ma alla fine anche questo scoglio fu
superato.
Il 19
maggio giunge una lettera di padre Oderico che dava alle suore appuntamento per
il 24 maggio all’aeroporto di Uberaba. Solo cinque giorni per preparare la
partenza, con tanta pena nel cuore perché, malgrado le sofferenze e le
umiliazioni, in quei luoghi avevano investito anche tanta passione e tanta
speranza. All’ospedale salutarono i dottori che non volevano credere alla loro
dipartita, le infermiere e il personale inserviente. Andarono anche a trovare
il direttore a casa, ma non fu possibile incontrarlo, mentre la moglie ebbe la
cortesia di comunicare loro che non si sarebbero curati molto della loro
perdita. Comunque, si lasciarono a lei i documenti e gli inventari.
Il
commiato più sincero e commovente fu con le Suore e i Frati Agostiniani che li
accompagnarono anche all’aeroporto. Qui, a salutarle, c’era anche il personale
dell’ospedale e un dottore con le infermiere.
6. Il tentativo di vocazioni brasiliane
Uno dei
punti che Florenzia continuava a sollecitare era che si cercassero delle
vocazioni in Brasile e, a dire il vero, durante la permanenza a Jatai le suore
avevano vissuto anche un’esperienza in questa direzione che, purtroppo, non era
andata a buon fine.
L’esperienza
era iniziata l’8 dicembre 1954. Alla casa si presentò una donna che insisteva
perché la figlia quattordicenne venisse ammessa al corso di infermiera. Ma la
ragazza non aveva l’età e non si poteva fare niente. La povera donna, che aveva
gravi problemi a mantenere le figlie, sconfortata insisteva e, alla fine,
chiese che almeno potesse rimanere nella casa per divenire suora. Impietosita,
la superiora acconsentì ad accoglierla per alcuni giorni per conoscerla meglio.
E disse alla donna di andare a prendere gli indumenti della ragazza e di
riaccompagnarla il giorno dopo. Il giorno seguente, la donna tornò contenta e
allegra, ma aveva con sé non una ma due figlie. Vi era, infatti, anche la più
piccola di solo 12 anni che, con grazia, chiese di poter rimanere con la
sorella. Così si accettarono come esterne e subito si scoprirono volenterose e
buone, docili e ubbidienti, di modo che, dopo la festa di Natale, si acconsentì
a farle restare come interne. Erano le due prime vocazioni della missione.
Il 6
settembre arrivò alla casa una giovane di Rio Verde, indirizzata dal parroco
del luogo, che voleva avviarsi alla vita religiosa. A suor Matilde, dopo un
colloquio, non parve che la ragazza avesse predisposizione per la vita religiosa,
ma siccome era povera e abbandonata dal padre che si era fatta una nuova
famiglia, la si accettò. Così la missione ora aveva due postulanti e una
piccola aspirante.
La più
piccola era molto discola, ma anche le altre davano preoccupazioni. Soprattutto
la più grande, quella venuta da Rio Verde, che aveva ormai 22 anni e sarebbe
potuta divenire novizia. Invece, il suo comportamento andava peggiorando con il
passare dei giorni. Non ubbidiva, era invidiosa e diverse volte la superiora fu
sul punto di rimandarla a casa, ma ogni volta questa chiedeva perdono e
prometteva di cambiare.
Prima
di Pasqua, tornando suor Assuntina da un corso di formazione presso l’ospedale
di Goiània, portò con sé una ragazza di 15 anni che diceva di volersi fare
suora. Anch’essa era povera con una famiglia disgregata e, quindi, la si prese
per spirito di carità. Subito si scoprì, però, che le postulanti più grandi non
la vedevano di buon occhio ed erano maturati malumori e invidie. Suor Matilde
cercava di rimediare a questi screzi, suggerendo alle più grandi comprensione e
compatimento e, all’ultima arrivata, l’esigenza di adattarsi alle regole
stabilite.
Gli
sforzi della superiora andarono alla fine in porto, ma non nella direzione da
lei sperata. Le tre ragazze si misero d’accordo fra loro per farle un odioso
dispetto proprio nei giorni del lutto per Florenzia. Scoperte, reagirono con
ipocrisia e arroganza, tanto che suor Matilde si convinse che non c’era più
nulla da fare e che, senza indugiare oltre, bisogna rimandarle a casa tutte,
anche la più piccola che si era lasciata trascinare dalle altre. Questa, che di
nome faceva Lenzia e ora aveva 13 anni, si era molto affezionata alle suore.
Quando la madre andò a riprendersela, fu difficile distaccarla dalla superiora
e, piangendo, implorava di perdonarla e di non mandarla via. Tre giorni dopo,
era di nuovo alla casa dicendo che non voleva vivere con la madre che faceva
una vita dissoluta. Prometteva fedeltà e sosteneva che divenire suora è la sua
vocazione.
Le
suore si commossero e le consentirono di fermarsi in attesa di decisioni. Ma
nei giorni successivi vennero a reclamarla: prima un cugino con prepotenza, e poi la stessa madre.
Lenzia al cugino rispose con durezza e lo mandò via. Ma alla fine acconsentì a
seguire la madre promettendo alle suore che sarebbe tornata. Questo non avvenne. Si concludeva così, con un apparente
fallimento, non solo la prima esperienza di postulantato in Brasile, ma la
stessa missione.
7. Un nuovo inizio a Cravinhos
A
Cravinhos, il 28 maggio sera, furono accolte da una popolazione festante che in
processione si recò alla chiesa madre e, sul piazzale della chiesa, ci furono i
discorsi di benvenuto del parroco e del prefetto e di presentazione delle suore
alla popolazione. Quindi la cerimonia in chiesa con il canto del Te Deum.
Fin dal
giorno dopo, le suore iniziarono il loro lavoro e il loro apostolato fra gli
ammalati dell’ospedale chiamato “Santa casa”, dove riscossero la piena fiducia
del presidente e dei dottori. Collaborarono anche in parrocchia con
l’insegnamento catechistico ai piccoli e agli adulti, preparando uomini e donne
a ricevere per la prima volta il sacramento della penitenza e dell’eucaristia e
spronando a regolarizzare matrimoni.
Finalmente,
giunsero le vocazioni di due ragazze brasiliane che chiesero di fare parte
della comunità come postulanti. Era una grande fortuna tanto a lungo
desiderata. Le due ragazze vennero accettate a poca distanza l’una dall’altra e
furono di valido aiuto perché, oltre alla vocazione religiosa, avevano anche
quella di infermiera.
Cravinhos
rappresenterà un nuovo inizio che aprirà la strada ad altre esperienze sia in
Brasile, sia in Amazzonia, sia in Perú, e ancora oggi è uno dei punti di forza
dell’esperienza missionaria dell’Istituto.
(continua)