Alexandre Dumas padre (1802-1870) fu un
grande scrittore francese dell’inizio dell’800, maestro del
romanzo storico e del teatro romantico.
Dumas fu un autore eccezionalmente
prolifico e durante tutta la sua carriera ottenne uno straordinario
successo di pubblico. Le sue due opere letterarie più note sono “I
tre moschettieri” e “ Il Conte di Montecristo”. Dumas padre è
in assoluto lo scrittore le cui opere hanno ispirato il maggior
numero di riduzioni cinematografiche e televisive (alcune centinaia).
Dumas amava molto viaggiare: fu infatti
in Russia, in Austria, in Ungheria, in Germania e venne più volte in
Italia, anche in virtù di una grande ammirazione per Giuseppe
Garibaldi, a cui fornì delle armi durante la spedizione dei Mille.
Il suo viaggio in Italia del 1835 – durante il quale fu a Genova,
Livorno, Roma, Napoli e da qui in Sicilia (e nelle isole Eolie) –
rientrava in un più ampio progetto che aveva come obiettivo la
riscoperta delle radici della cultura mediterranea e che, dopo
analoghe richieste al governo francese non andate a buon fine, fu
finanziato da sottoscrittori privati fra i quali c’era anche Victor
Hugo.
L’escursione alle Eolie, che occupa i
capitoli III, IV e V del diario di viaggio, si svolge dal 6 al 9
settembre 1835. Fra i compagni di viaggio citati nel diario ci furono
l’amico Jadin e il cane Milord, ma è storicamente dimostrato che
il gruppo fu accompagnato anche da Ida Ferrier, l’amante di Dumas,
che però stranamente non viene mai citata. Come in un giallo, anche
Dumas stesso viaggiò sotto falso nome.
Il viaggio si compie a bordo di una
speronara – un tipo di imbarcazione lignea leggera e veloce lunga
circa 15 metri dotata di una carena affilata che terminava con uno
sperone (o tagliamare). Era attrezzata con una vela latina e dotata
di quattro rematori al comando del capitano Arena, il personaggio che
ha ispirato il titolo originale dell’opera.
Il Viaggio (Dal libro "La storia della pomice di Lipari" del Dott. Giuseppe La Greca)
La speronara lascia il porto di Palermo
nella mattinata di lunedì 6 settembre, il martedì mattina sosta
brevemente ad Alicudi e nel pomeriggio giunge a Lipari tramite il
canale tra Lipari e Vulcano. Sbarcati con non poche difficoltà, i
nostri viaggiatori vengono accolti nel convento dei Francescani
poiché ai tempi a Lipari non c’erano alberghi. Qui conoscono il
Governatore della città e visitano le cave di pomice.
Il mercoledì 8 settembre mattina
partono per Vulcano dove saranno ospiti dei figli del generale
Nunziante e ritornano a Lipari nel pomeriggio per poi fare rotta in
serata verso Panarea, dove arrivano la mattina di giovedì, 9
settembre. Qui sostano a lungo presso lo scoglio di Lisca Bianca, poi
fanno incetta di gamberi e aragoste a Panarea, cacciano conigli a
Basiluzzo e verso sera arrivano a Stromboli per ammirare col favore
del buio lo spettacolo pirotecnico del vulcano lungo la sciara di
fuoco. La mattina del venerdì, 10 settembre, effettuano la scalata
al cratere per riprendere infine la strada del ritorno.
Il diario di viaggio alle Eolie di
Dumas ruota sui miti ambientati nell’arcipelago eoliano. I paesaggi
delle isole Eolie hanno stimolato la fantasia del grande scrittore
francese romantico che le considerava come una sorta di Paradiso
perduto sullo stile di Gauguin. Il diario di Dumas è volutamente
piuttosto leggero, attento più ai piaceri della tavola e ai racconti
locali che alla sostanza del luogo visitato, oggi diremmo da turista
invece che da vero e proprio viaggiatore, ma senz’altro un turista
attento al patrimonio ambientale dei luoghi visitati e cosciente del
suo valore.
Dumas aveva una forte inclinazione per
il romanzo e la teatralità, e pertanto più che alla precisione
mirava a suscitare emozioni, a stimolare la fantasia del lettore. E
naturalmente, operando secondo le sue tendenze e in quella ottica,
non poteva costruire un’opera di consistente spessore scientifico.
Veritiere sono le descrizioni che il Dumas da di Vulcano e Stromboli,
e del tutto ineccepibile è quanto scrive su Lisca Bianca e
Basiluzzo. Nessun rilievo inoltre gli si può muovere per quel che
dice dei frati e della malvasia delle Lipari, della pescosità del
mare eoliano, di Campo Bianco e del governatore di Lipari, delle
sacche di povertà presente a Lipari, della misera condizione
economica degli abitanti di Alicudi e di varie altre cose. Ma non
mancano le inesattezze in quelle stesse pagine. Per Alicudi, infatti,
sbaglia sul numero degli abitanti, perché nel 1835 erano almeno
quattrocento. E sbaglia nel qualificare pescatori gli Alicudari,
perché in realtà erano dedite più all’agricoltura che alla
pesca. Non è attendibile, inoltre, il dato relativo alle abitazioni.
È da non credere, infine, che gli abitanti di Alicudi fossero tristi
e sfortunati come Dumas, pensava, perché, al contrario, tutto lascia
supporre che vivessero in piena tranquillità e felici anche solo di
esistere. Purtroppo, anche per quanto riguarda Lipari e i suoi
abitanti il Dumas non sempre è attendibile. Dumas sbaglia nel
sostenere che l’unico commercio di esportazione dell’isola era
quello della pietra pomice. Le esportazioni delle Lipari riguardava
Capperi, uva passa e vini. Ancora non dà una notizia esatta quando
afferma che la popolazione è stata, tutta, tratta in schiavitù da
Barbarossa.
Tuttavia è inconfutabile che col suo
scritto Dumas rinverdì la notorietà delle Isole Eolie e nel
contempo spronò verso le stesse non pochi viaggiatori e studiosi. Di
qui, nonostante quanto gli va addebitato, il suo diritto
all’inclusione nell’elenco dei benemeriti delle Isole Eolie.
E’ difficile vedere qualcosa di più
triste, di più tetro, di più desolato di questa sfortunata isola
che forma la punta occidentale dell’Arcipelago Eoliano. E un angolo
della terra dimenticato fin dal momento della creazione e rimasto
immutato dai tempi del Caos. Nessun sentiero conduce alla cima o
corre lungo le sue rive: alcune sinuosità scavate dalle acque
piovane sono gli unici passaggi offerti ai piedi martoriati dalle
pietre appuntite e dalle asperità della lava. Non un albero su tutta
l’isola né un poco di vegetazione che riposi gli occhi; solo nel
fondo di qualche fenditura della roccia, negli interstizi delle
scorie laviche, si intravede qualche raro stelo di quelle sterpaglie
di erica, per le quali Strabone chiamò qualche volta l’isola
Ericusa. È il solitario e periglioso cammino di Dante, dove tra le
rocce ed i dirupi il piede non può avanzare senza il soccorso della
mano.
Ciò nonostante, su questo angolo di
terra rossastra, vivono in misere capanne centocinquanta o duecento
pescatori che hanno cercato di sfruttare i rari fazzoletti di terra
sfuggiti alla distruzione generale. Uno di questi poveretti rientrava
con la sua barca: gli comprammo per tre carlini (più o meno ventotto
soldi) tutto il pesce che aveva pescato.
Risalimmo sul nostro bastimento, il
cuore stretto da tanta miseria. A dire il vero, quando si vive in un
certo mondo e in una certa maniera, ci sono delle esistenze che
diventano incomprensibili. Chi costringe questa gente su un vulcano
spento? Ci sono forse cresciuti come le sterpaglie da cui prende il
nome? Quale ragione impedisce loro di abbandonare questo atroce sito?
Non c’è un angolo al mondo dove non starebbero meglio di lì.
Questo scoglio bruciato dal fuoco, questa lava indurita dall’aria,
queste scorie solcate dall’acqua delle tempeste, possono essere una
patria? Che ci si nasca, è concepibile, si nasce dove si può; ma
che, avendo la facoltà di muoversi, il libero arbitrio che consente
di cercare il meglio, una barca per portarsi ovunque, si resti là, è
impossibile da capire: ed è quello che questa stessa gente
sfortunata, ne sono sicuro, non saprebbe spiegare.
Lipari, con la sua roccaforte costruita
sulla roccia e le sue case distribuite secondo le sinuosità del
terreno, presenta un aspetto molto pittoresco. Avemmo, del resto,
tutto il tempo di ammirarla nell’attesa di risolvere le
innumerevoli difficoltà che ci vennero fatte per poter sbarcare. Le
autorità locali, alle quali avemmo l’imprudenza di ammettere che
non venivamo per il commercio della pietra pomice, unico commercio
dell’isola, e che non capivano che si potesse capitare a Lipari per
qualche altro motivo, non volevano lasciarci entrare a nessun costo.
Alla fine, quando attraverso un’inferriata passammo i nostri
passaporti che, per paura del colera, ci furono presi dalle mani con
delle pinze gigantesche, e che si furono ben assicurati che venivamo
da Palermo e non da Alessandria o da Tunisi, ci aprirono il cancello
e consentirono a lasciarci passare.
Appena sbarcati ci mettemmo alla
ricerca di un albergo: sfortunatamente era una cosa del tutto
sconosciuta al capoluogo. Cercammo da un capo all’altro della
cittadina: non la più piccola insegna né alcun segno di locanda.
Eravamo là, Milord seduto e noi, Jadin
ed io, ci guardavamo estremamente imbarazzati, quando vedemmo un
grande gruppo di persone davanti ad una porta; ci avvicinammo, ci
facemmo spazio tra la folla e vedemmo un bambino di sei o otto anni,
morto, su una specie di giaciglio. Nonostante ciò la sua famiglia
non sembrava particolarmente affranta; la nonna si occupava delle
faccende domestiche e un altro bambino, di cinque o sei anni, giocava
per terra rotolandosi con due o tre maialini da latte. Solo la madre
era seduta al fondo del letto e, invece di piangere, parlava al
cadaverino con una volubilità tale da non farmi capire neanche una
parola. Chiesi ad un vicino il motivo di quello strano discorso e lui
mi rispose che la madre stava incaricando il bambino di alcune
commissioni da riportare al padre ed al nonno, morti rispettivamente
uno e tre anni prima. Le commissioni erano piuttosto singolari; il
bambino doveva, per esempio, informare il genitore che la madre stava
per risposarsi e che la scrofa aveva partorito otto cinghialini
“belli come angeli”.
In quel momento due francescani
entrarono per portar via il cadaverino; lo deposero su una barella.
La madre e la nonna lo abbracciarono un’ultima volta e distolsero
il fratellino dalle sue occupazioni per fargli fare altrettanto, cosa
che fece piagnucolando, non perché il fratello maggiore fosse morto,
ma perché lo si disturbava nel bel mezzo del suo daffare; gettarono
poi sul morto un lenzuolo tutto stracciato e lo portarono via. Il
cadavere non aveva ancora varcato la soglia di casa che madre e nonna
si misero a rifare il letto, cancellando anche l’ultima traccia di
ciò che era successo. Quanto a noi, volendo seguire fino in fondo la
cerimonia funebre, seguimmo il cadavere. Lo stavano portando alla
chiesa dei francescani, attigua al convento, senza che nessun parente
lo seguisse. Dissero per lui una breve messa, poi sollevarono una
grande pietra e lo gettarono nella fossa comune, dove ogni mese
veniva buttato uno strato di calce sul nuovo strato di cadaveri.
Il nostro arrivo aveva fatto scalpore:
a parte i marinai francesi e inglesi che vengono a caricare pietra
pomice, è molto raro che qualche straniero sbarchi a Lipari. Eravamo
l’oggetto di una curiosità generale; uomini, donne e bambini si
affacciavano alle porte per guardarci passare e non rientravano che
quando eravamo ben lontani. Attraversammo così tutta la città.
In fondo alla strada principale e ai
piedi della montagna del Campo Bianco, c’è una piccola collina che
risalimmo per gioire del panorama che offriva la città tutta intera.
Eravamo là da appena un istante quando fummo avvicinati da un uomo,
sui trentacinque-quarant’anni, che da qualche minuto ci seguiva con
l’evidente intenzione di rivolgerci la parola. Era il governatore
della città e dell’arcipelago. Questo titolo pomposo all’inizio
mi spaventò; viaggiavo sotto falso nome, ed ero entrato
clandestinamente nel Regno di Napoli. Ma fui prontamente rassicurato
dalle espressioni gentili del nostro interlocutore; ci stava
domandando notizie sul resto del mondo, col quale era raramente in
comunicazione, e ci invitava a pranzo per il giorno seguente: lo
informammo su tutto quello che di più nuovo conoscevamo sulla
Sicilia, su Napoli e sulla Francia e accettammo il suo invito.
Noi, per contro, gli chiedemmo novità
di Lipari. Ciò che di più nuovo conosceva erano l’organo eolico
di cui parla Aristotele e le stufe di cui parla Diodoro Siculo;
quanto ai viaggiatori che avevano visitato l’isola prima di noi,
gli ultimi erano stati Spallanzani e Dolomieu. Il brav’uomo, al
contrario del re Eolo di cui era il successore, si annoiava a morte;
passava la vita sulla terrazza della sua casa con un cannocchiale in
mano; ci aveva visti arrivare e non aveva perso neanche un
particolare del nostro sbarco; in seguito si era prontamente messo
alla nostra ricerca. Per un attimo ci aveva perduti e fu quando
entrammo nella casa del bambino morto e in seguito durante la pausa
al convento dei francescani; ma ormai ci aveva ritrovati e dichiarò
di non volerci più lasciare. La buona sorte era stata generosa con
noi e con lui in egual misura; ci mettemmo a sua completa
disposizione, cena al convento a parte, fino alle cinque del giorno
successivo, a condizione che risalisse con noi, seduta stante, il
Campo Bianco, che quindi ci lasciasse un’ora dai nostri francescani
e che infine ci accompagnasse, l’indomani, durante la nostra
escursione a Vulcano. Questi tre punti, che formavano la base del
nostro patto, furono accettati all’istante. La montagna stava
proprio alle nostre spalle, non dovevamo che girarci e metterci in
marcia; era completamente disseminata di rocce biancastre, dalle
quali aveva preso il nome. Non essendo prevenuto e pensando che
quelle fossero vere rocce, volli appoggiarmi ad una di esse per
aiutarmi nella salita; ma la mia sorpresa fu enorme quando, cedendo
alla piccola scossa che gli diedi, il masso, dopo aver vacillato per
un attimo, cominciò a rotolare a valle direttamente su Jadin che era
rimasto indietro. Non c’era modo di sfuggire; Jadin in un attimo si
vide schiacciato e istintivamente si riparò con le mani: passai un
istante di angoscia indicibile ma improvvisamente, e con mio grande
stupore, vidi questa roccia enorme arrestarsi davanti al ridicolo
ostacolo che Jadin meccanicamente le aveva posto davanti. Jadin
allora prese il masso in mano e lo sollevò all’altezza degli
occhi, lo esaminò con attenzione e lo ributtò giù scagliandolo
senza alcuno sforzo.
Si trattava di un blocco di pietra
pomice che non pesava più di venti libbre; le rocce circostanti
erano tutte del medesimo materiale e la montagna stessa sulla quale
stavamo camminando, con la sua apparente solidità, non aveva
consistenza reale: staccandola dalla sua base, ci assicurò il
governatore, noi tre avremmo potuto trasportarla da una parte
all’altra dell’isola. Questa spiegazione fece calare la mia
ammirazione per i titani, e non penso di poterli riabilitare prima di
essermi accertato di persona che Ossa e Pelion non siano montagne di
pietra pomice.
Arrivati sulla cima del Campo Bianco
potemmo dominare l’intero arcipelago; ma tanto il panorama che ci
circondava era magnifico quanto quello che avevamo ai nostri piedi
era triste e desolato: Lipari non è che un ammasso di pietre e
scorie; le case stesse, in lontananza, sembravano un cumulo di pietre
allineate male. A fatica sulla superficie dell’isola potevamo
distinguere due o tre macchie di verde che sembravano, per servirmi
di un’espressione di Sannazar, frammenti di cielo caduti sulla
terra. Compresi allora la tristezza e la noia del nostro sfortunato
governatore che, nato a Napoli, e cioè nella più bella città del
mondo, era costretto, per millecinquecento franchi all’anno, ad
accettare quell’abominevole soggiorno. Ci eravamo attardati su
quella vista meravigliosa e sul lugubre spettacolo sotto di noi:
suonarono le sei e mezza: ci restava solo mezz’ora per non fare
attendere i nostri ospiti; scendemmo quasi di corsa e, dopo aver
promesso al governatore che saremmo andati a prendere il caffè da
lui, ci incamminammo verso il convento. Arrivammo mentre la campana
suonava. Fortunatamente, per paura di combinare qualche pasticcio con
i Liparesi avevamo precauzionalmente legato Milord: entrando nel
refettorio trovammo quindici o venti gatti. Lascio giudicare al
lettore a quale sterminio felino avremmo assistito se Milord fosse
stato libero.
L’intera comunità consisteva di una
dozzina di monaci; erano seduti ad una tavola con un lato centrale e
due piegati come le ali di un castello: il padre superiore era seduto
nel centro della tavola che dava sulla porta; i nostri due coperti
erano sistemati proprio di fronte a lui.
Nonostante fosse martedì, la comunità
mangiava di magro con pesce e verdure; ci vennero serviti a parte un
pezzo di manzo bollito e delle tortorelle arrosto che avevo già
visto parecchie volte nell’isola.
Alla fine della cena, e appena i monaci
si alzarono per andarsi a ritirare dopo aver detto le loro preghiere,
il superiore fece loro cenno di risedere e venne portata una
bottiglia di malvasia di Lipari; fu il vino più eccezionale che
abbia mai assaggiato nella mia vita; veniva vendemmiato e prodotto
nel convento stesso.
Terminata la cena prendemmo congedo dal
superiore, domandandogli sino a quale ora saremmo potuti rientrare:
egli rispose che d’abitudine il convento veniva chiuso alle nove ma
che per noi sarebbe rimasto aperto tutta la notte.
Ci recammo dal governatore che abitava
in una casa pomposamente chiamata castello e che in effetti,
paragonata a tutte le altre case, indubbiamente meritava quel titolo.
Ci attendeva con impazienza e ci presentò a sua moglie; tutta la sua
posterità consisteva di un bambino di cinque o sei anni.
Appena ci fummo accomodati su una
deliziosa terrazza - addobbata di fiori e che dominava il mare - ci
furono offerti caffè e sigari: il caffè era preparato alla maniera
orientale e cioè brillato senza essere tostato e bollito invece di
essere filtrato: le tazze stesse erano piccole e simili a quelle
turche, come anche l’abitudine di vuotarle cinque o sei volte, cosa
che non presenta inconveniente alcuno data la leggerezza della
bevanda. Quel modo di preparare il caffè mi piaceva molto e feci
onore a quello del nostro ospite. Così non fu per i sigari che
dall’aspetto e dal colore io supposi fossero locali; Jadin, meno
difficile di me, ne fumò per entrambi.
Quel mare vasto e tranquillo,
disseminato di isole e isolotti, era veramente stupendo racchiuso
com’era in quell’orizzonte vaporoso formato dalle coste siciliane
e dalle montagne della Calabria. Grazie al lento calare del sole
oltre il Campo Bianco, la terra, per un gioco di luci ricco di calore
e di armonia, cambiò cinque o sei volte di colore e finì per
svanire tra i vapori; quindi la brezza deliziosa del grecale, che
arriva ogni sera con l’oscurità, venne ad accarezzarci il viso ed
io cominciai a pensare che il nostro governatore non fosse poi così
sfortunato. Provai allora a consolarlo elencandogli una dopo l’altra
tutte le delizie della sua residenza ma mi rispose sospirando che ne
godeva ormai da quindici anni: da quindici anni la medesima sera,
alla medesima ora, godeva dello stesso spettacolo e dello stesso
vento che veniva a rinfrescargli il viso, cosa che alla lunga
rischiava di essere monotona, per quanto amanti della natura si possa
essere. Non potei fare a meno di ammettere che c’era qualche cosa
di fondato in quel ragionamento.
Restammo sulla terrazza fino alle
dieci. Rientrando in casa trovammo la sala da biliardo illuminata e
non mancammo di fare la nostra partita. Dopo la partita, la padrona
di casa ci invitò a passare nella sala da pranzo dove ci attendeva
uno spuntino a base di torte e frutta. Tutto era presentato con una
grazia così squisita che decidemmo di apprezzare ogni cosa sino in
fondo.
Ed era quasi mezzanotte quando il
governatore, pensando che avessimo bisogno di riposo, ci lasciò
andare: erano dieci anni che non si coricava ad un’ora simile e ci
assicurò che non aveva mai passato una serata così piacevole.
Lasciai a Jadin l’onore di fare i
ringraziamenti: era stato così eccitato per aver potuto parlare
francese che aveva fatto faville.