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martedì 12 maggio 2020

Le Eolie e le pagine da ricordare (a cura del dottor Giuseppe (Pino) La Greca)

Alexandre Dumas padre (1802-1870) fu un grande scrittore francese dell’inizio dell’800, maestro del romanzo storico e del teatro romantico.
 Dumas fu un autore eccezionalmente prolifico e durante tutta la sua carriera ottenne uno straordinario successo di pubblico. Le sue due opere letterarie più note sono “I tre moschettieri” e “ Il Conte di Montecristo”. Dumas padre è in assoluto lo scrittore le cui opere hanno ispirato il maggior numero di riduzioni cinematografiche e televisive (alcune centinaia).

Dumas amava molto viaggiare: fu infatti in Russia, in Austria, in Ungheria, in Germania e venne più volte in Italia, anche in virtù di una grande ammirazione per Giuseppe Garibaldi, a cui fornì delle armi durante la spedizione dei Mille. Il suo viaggio in Italia del 1835 – durante il quale fu a Genova, Livorno, Roma, Napoli e da qui in Sicilia (e nelle isole Eolie) – rientrava in un più ampio progetto che aveva come obiettivo la riscoperta delle radici della cultura mediterranea e che, dopo analoghe richieste al governo francese non andate a buon fine, fu finanziato da sottoscrittori privati fra i quali c’era anche Victor Hugo.
L’escursione alle Eolie, che occupa i capitoli III, IV e V del diario di viaggio, si svolge dal 6 al 9 settembre 1835. Fra i compagni di viaggio citati nel diario ci furono l’amico Jadin e il cane Milord, ma è storicamente dimostrato che il gruppo fu accompagnato anche da Ida Ferrier, l’amante di Dumas, che però stranamente non viene mai citata. Come in un giallo, anche Dumas stesso viaggiò sotto falso nome.
Il viaggio si compie a bordo di una speronara – un tipo di imbarcazione lignea leggera e veloce lunga circa 15 metri dotata di una carena affilata che terminava con uno sperone (o tagliamare). Era attrezzata con una vela latina e dotata di quattro rematori al comando del capitano Arena, il personaggio che ha ispirato il titolo originale dell’opera.

Il Viaggio (Dal libro "La storia della pomice di Lipari" del Dott. Giuseppe La Greca) 
La speronara lascia il porto di Palermo nella mattinata di lunedì 6 settembre, il martedì mattina sosta brevemente ad Alicudi e nel pomeriggio giunge a Lipari tramite il canale tra Lipari e Vulcano. Sbarcati con non poche difficoltà, i nostri viaggiatori vengono accolti nel convento dei Francescani poiché ai tempi a Lipari non c’erano alberghi. Qui conoscono il Governatore della città e visitano le cave di pomice.
Il mercoledì 8 settembre mattina partono per Vulcano dove saranno ospiti dei figli del generale Nunziante e ritornano a Lipari nel pomeriggio per poi fare rotta in serata verso Panarea, dove arrivano la mattina di giovedì, 9 settembre. Qui sostano a lungo presso lo scoglio di Lisca Bianca, poi fanno incetta di gamberi e aragoste a Panarea, cacciano conigli a Basiluzzo e verso sera arrivano a Stromboli per ammirare col favore del buio lo spettacolo pirotecnico del vulcano lungo la sciara di fuoco. La mattina del venerdì, 10 settembre, effettuano la scalata al cratere per riprendere infine la strada del ritorno.
Il diario di viaggio alle Eolie di Dumas ruota sui miti ambientati nell’arcipelago eoliano. I paesaggi delle isole Eolie hanno stimolato la fantasia del grande scrittore francese romantico che le considerava come una sorta di Paradiso perduto sullo stile di Gauguin. Il diario di Dumas è volutamente piuttosto leggero, attento più ai piaceri della tavola e ai racconti locali che alla sostanza del luogo visitato, oggi diremmo da turista invece che da vero e proprio viaggiatore, ma senz’altro un turista attento al patrimonio ambientale dei luoghi visitati e cosciente del suo valore.
Dumas aveva una forte inclinazione per il romanzo e la teatralità, e pertanto più che alla precisione mirava a suscitare emozioni, a stimolare la fantasia del lettore. E naturalmente, operando secondo le sue tendenze e in quella ottica, non poteva costruire un’opera di consistente spessore scientifico. Veritiere sono le descrizioni che il Dumas da di Vulcano e Stromboli, e del tutto ineccepibile è quanto scrive su Lisca Bianca e Basiluzzo. Nessun rilievo inoltre gli si può muovere per quel che dice dei frati e della malvasia delle Lipari, della pescosità del mare eoliano, di Campo Bianco e del governatore di Lipari, delle sacche di povertà presente a Lipari, della misera condizione economica degli abitanti di Alicudi e di varie altre cose. Ma non mancano le inesattezze in quelle stesse pagine. Per Alicudi, infatti, sbaglia sul numero degli abitanti, perché nel 1835 erano almeno quattrocento. E sbaglia nel qualificare pescatori gli Alicudari, perché in realtà erano dedite più all’agricoltura che alla pesca. Non è attendibile, inoltre, il dato relativo alle abitazioni. È da non credere, infine, che gli abitanti di Alicudi fossero tristi e sfortunati come Dumas, pensava, perché, al contrario, tutto lascia supporre che vivessero in piena tranquillità e felici anche solo di esistere. Purtroppo, anche per quanto riguarda Lipari e i suoi abitanti il Dumas non sempre è attendibile. Dumas sbaglia nel sostenere che l’unico commercio di esportazione dell’isola era quello della pietra pomice. Le esportazioni delle Lipari riguardava Capperi, uva passa e vini. Ancora non dà una notizia esatta quando afferma che la popolazione è stata, tutta, tratta in schiavitù da Barbarossa.
Tuttavia è inconfutabile che col suo scritto Dumas rinverdì la notorietà delle Isole Eolie e nel contempo spronò verso le stesse non pochi viaggiatori e studiosi. Di qui, nonostante quanto gli va addebitato, il suo diritto all’inclusione nell’elenco dei benemeriti delle Isole Eolie.
E’ difficile vedere qualcosa di più triste, di più tetro, di più desolato di questa sfortunata isola che forma la punta occidentale dell’Arcipelago Eoliano. E un angolo della terra dimenticato fin dal momento della creazione e rimasto immutato dai tempi del Caos. Nessun sentiero conduce alla cima o corre lungo le sue rive: alcune sinuosità scavate dalle acque piovane sono gli unici passaggi offerti ai piedi martoriati dalle pietre appuntite e dalle asperità della lava. Non un albero su tutta l’isola né un poco di vegetazione che riposi gli occhi; solo nel fondo di qualche fenditura della roccia, negli interstizi delle scorie laviche, si intravede qualche raro stelo di quelle sterpaglie di erica, per le quali Strabone chiamò qualche volta l’isola Ericusa. È il solitario e periglioso cammino di Dante, dove tra le rocce ed i dirupi il piede non può avanzare senza il soccorso della mano.
Ciò nonostante, su questo angolo di terra rossastra, vivono in misere capanne centocinquanta o duecento pescatori che hanno cercato di sfruttare i rari fazzoletti di terra sfuggiti alla distruzione generale. Uno di questi poveretti rientrava con la sua barca: gli comprammo per tre carlini (più o meno ventotto soldi) tutto il pesce che aveva pescato.
Risalimmo sul nostro bastimento, il cuore stretto da tanta miseria. A dire il vero, quando si vive in un certo mondo e in una certa maniera, ci sono delle esistenze che diventano incomprensibili. Chi costringe questa gente su un vulcano spento? Ci sono forse cresciuti come le sterpaglie da cui prende il nome? Quale ragione impedisce loro di abbandonare questo atroce sito? Non c’è un angolo al mondo dove non starebbero meglio di lì. Questo scoglio bruciato dal fuoco, questa lava indurita dall’aria, queste scorie solcate dall’acqua delle tempeste, possono essere una patria? Che ci si nasca, è concepibile, si nasce dove si può; ma che, avendo la facoltà di muoversi, il libero arbitrio che consente di cercare il meglio, una barca per portarsi ovunque, si resti là, è impossibile da capire: ed è quello che questa stessa gente sfortunata, ne sono sicuro, non saprebbe spiegare.
Lipari, con la sua roccaforte costruita sulla roccia e le sue case distribuite secondo le sinuosità del terreno, presenta un aspetto molto pittoresco. Avemmo, del resto, tutto il tempo di ammirarla nell’attesa di risolvere le innumerevoli difficoltà che ci vennero fatte per poter sbarcare. Le autorità locali, alle quali avemmo l’imprudenza di ammettere che non venivamo per il commercio della pietra pomice, unico commercio dell’isola, e che non capivano che si potesse capitare a Lipari per qualche altro motivo, non volevano lasciarci entrare a nessun costo. Alla fine, quando attraverso un’inferriata passammo i nostri passaporti che, per paura del colera, ci furono presi dalle mani con delle pinze gigantesche, e che si furono ben assicurati che venivamo da Palermo e non da Alessandria o da Tunisi, ci aprirono il cancello e consentirono a lasciarci passare.
Appena sbarcati ci mettemmo alla ricerca di un albergo: sfortunatamente era una cosa del tutto sconosciuta al capoluogo. Cercammo da un capo all’altro della cittadina: non la più piccola insegna né alcun segno di locanda.
Eravamo là, Milord seduto e noi, Jadin ed io, ci guardavamo estremamente imbarazzati, quando vedemmo un grande gruppo di persone davanti ad una porta; ci avvicinammo, ci facemmo spazio tra la folla e vedemmo un bambino di sei o otto anni, morto, su una specie di giaciglio. Nonostante ciò la sua famiglia non sembrava particolarmente affranta; la nonna si occupava delle faccende domestiche e un altro bambino, di cinque o sei anni, giocava per terra rotolandosi con due o tre maialini da latte. Solo la madre era seduta al fondo del letto e, invece di piangere, parlava al cadaverino con una volubilità tale da non farmi capire neanche una parola. Chiesi ad un vicino il motivo di quello strano discorso e lui mi rispose che la madre stava incaricando il bambino di alcune commissioni da riportare al padre ed al nonno, morti rispettivamente uno e tre anni prima. Le commissioni erano piuttosto singolari; il bambino doveva, per esempio, informare il genitore che la madre stava per risposarsi e che la scrofa aveva partorito otto cinghialini “belli come angeli”.
In quel momento due francescani entrarono per portar via il cadaverino; lo deposero su una barella. La madre e la nonna lo abbracciarono un’ultima volta e distolsero il fratellino dalle sue occupazioni per fargli fare altrettanto, cosa che fece piagnucolando, non perché il fratello maggiore fosse morto, ma perché lo si disturbava nel bel mezzo del suo daffare; gettarono poi sul morto un lenzuolo tutto stracciato e lo portarono via. Il cadavere non aveva ancora varcato la soglia di casa che madre e nonna si misero a rifare il letto, cancellando anche l’ultima traccia di ciò che era successo. Quanto a noi, volendo seguire fino in fondo la cerimonia funebre, seguimmo il cadavere. Lo stavano portando alla chiesa dei francescani, attigua al convento, senza che nessun parente lo seguisse. Dissero per lui una breve messa, poi sollevarono una grande pietra e lo gettarono nella fossa comune, dove ogni mese veniva buttato uno strato di calce sul nuovo strato di cadaveri.
Il nostro arrivo aveva fatto scalpore: a parte i marinai francesi e inglesi che vengono a caricare pietra pomice, è molto raro che qualche straniero sbarchi a Lipari. Eravamo l’oggetto di una curiosità generale; uomini, donne e bambini si affacciavano alle porte per guardarci passare e non rientravano che quando eravamo ben lontani. Attraversammo così tutta la città.
In fondo alla strada principale e ai piedi della montagna del Campo Bianco, c’è una piccola collina che risalimmo per gioire del panorama che offriva la città tutta intera. Eravamo là da appena un istante quando fummo avvicinati da un uomo, sui trentacinque-quarant’anni, che da qualche minuto ci seguiva con l’evidente intenzione di rivolgerci la parola. Era il governatore della città e dell’arcipelago. Questo titolo pomposo all’inizio mi spaventò; viaggiavo sotto falso nome, ed ero entrato clandestinamente nel Regno di Napoli. Ma fui prontamente rassicurato dalle espressioni gentili del nostro interlocutore; ci stava domandando notizie sul resto del mondo, col quale era raramente in comunicazione, e ci invitava a pranzo per il giorno seguente: lo informammo su tutto quello che di più nuovo conoscevamo sulla Sicilia, su Napoli e sulla Francia e accettammo il suo invito.
Noi, per contro, gli chiedemmo novità di Lipari. Ciò che di più nuovo conosceva erano l’organo eolico di cui parla Aristotele e le stufe di cui parla Diodoro Siculo; quanto ai viaggiatori che avevano visitato l’isola prima di noi, gli ultimi erano stati Spallanzani e Dolomieu. Il brav’uomo, al contrario del re Eolo di cui era il successore, si annoiava a morte; passava la vita sulla terrazza della sua casa con un cannocchiale in mano; ci aveva visti arrivare e non aveva perso neanche un particolare del nostro sbarco; in seguito si era prontamente messo alla nostra ricerca. Per un attimo ci aveva perduti e fu quando entrammo nella casa del bambino morto e in seguito durante la pausa al convento dei francescani; ma ormai ci aveva ritrovati e dichiarò di non volerci più lasciare. La buona sorte era stata generosa con noi e con lui in egual misura; ci mettemmo a sua completa disposizione, cena al convento a parte, fino alle cinque del giorno successivo, a condizione che risalisse con noi, seduta stante, il Campo Bianco, che quindi ci lasciasse un’ora dai nostri francescani e che infine ci accompagnasse, l’indomani, durante la nostra escursione a Vulcano. Questi tre punti, che formavano la base del nostro patto, furono accettati all’istante. La montagna stava proprio alle nostre spalle, non dovevamo che girarci e metterci in marcia; era completamente disseminata di rocce biancastre, dalle quali aveva preso il nome. Non essendo prevenuto e pensando che quelle fossero vere rocce, volli appoggiarmi ad una di esse per aiutarmi nella salita; ma la mia sorpresa fu enorme quando, cedendo alla piccola scossa che gli diedi, il masso, dopo aver vacillato per un attimo, cominciò a rotolare a valle direttamente su Jadin che era rimasto indietro. Non c’era modo di sfuggire; Jadin in un attimo si vide schiacciato e istintivamente si riparò con le mani: passai un istante di angoscia indicibile ma improvvisamente, e con mio grande stupore, vidi questa roccia enorme arrestarsi davanti al ridicolo ostacolo che Jadin meccanicamente le aveva posto davanti. Jadin allora prese il masso in mano e lo sollevò all’altezza degli occhi, lo esaminò con attenzione e lo ributtò giù scagliandolo senza alcuno sforzo.
Si trattava di un blocco di pietra pomice che non pesava più di venti libbre; le rocce circostanti erano tutte del medesimo materiale e la montagna stessa sulla quale stavamo camminando, con la sua apparente solidità, non aveva consistenza reale: staccandola dalla sua base, ci assicurò il governatore, noi tre avremmo potuto trasportarla da una parte all’altra dell’isola. Questa spiegazione fece calare la mia ammirazione per i titani, e non penso di poterli riabilitare prima di essermi accertato di persona che Ossa e Pelion non siano montagne di pietra pomice.
Arrivati sulla cima del Campo Bianco potemmo dominare l’intero arcipelago; ma tanto il panorama che ci circondava era magnifico quanto quello che avevamo ai nostri piedi era triste e desolato: Lipari non è che un ammasso di pietre e scorie; le case stesse, in lontananza, sembravano un cumulo di pietre allineate male. A fatica sulla superficie dell’isola potevamo distinguere due o tre macchie di verde che sembravano, per servirmi di un’espressione di Sannazar, frammenti di cielo caduti sulla terra. Compresi allora la tristezza e la noia del nostro sfortunato governatore che, nato a Napoli, e cioè nella più bella città del mondo, era costretto, per millecinquecento franchi all’anno, ad accettare quell’abominevole soggiorno. Ci eravamo attardati su quella vista meravigliosa e sul lugubre spettacolo sotto di noi: suonarono le sei e mezza: ci restava solo mezz’ora per non fare attendere i nostri ospiti; scendemmo quasi di corsa e, dopo aver promesso al governatore che saremmo andati a prendere il caffè da lui, ci incamminammo verso il convento. Arrivammo mentre la campana suonava. Fortunatamente, per paura di combinare qualche pasticcio con i Liparesi avevamo precauzionalmente legato Milord: entrando nel refettorio trovammo quindici o venti gatti. Lascio giudicare al lettore a quale sterminio felino avremmo assistito se Milord fosse stato libero.
L’intera comunità consisteva di una dozzina di monaci; erano seduti ad una tavola con un lato centrale e due piegati come le ali di un castello: il padre superiore era seduto nel centro della tavola che dava sulla porta; i nostri due coperti erano sistemati proprio di fronte a lui.
Nonostante fosse martedì, la comunità mangiava di magro con pesce e verdure; ci vennero serviti a parte un pezzo di manzo bollito e delle tortorelle arrosto che avevo già visto parecchie volte nell’isola.
Alla fine della cena, e appena i monaci si alzarono per andarsi a ritirare dopo aver detto le loro preghiere, il superiore fece loro cenno di risedere e venne portata una bottiglia di malvasia di Lipari; fu il vino più eccezionale che abbia mai assaggiato nella mia vita; veniva vendemmiato e prodotto nel convento stesso.
Terminata la cena prendemmo congedo dal superiore, domandandogli sino a quale ora saremmo potuti rientrare: egli rispose che d’abitudine il convento veniva chiuso alle nove ma che per noi sarebbe rimasto aperto tutta la notte.
Ci recammo dal governatore che abitava in una casa pomposamente chiamata castello e che in effetti, paragonata a tutte le altre case, indubbiamente meritava quel titolo. Ci attendeva con impazienza e ci presentò a sua moglie; tutta la sua posterità consisteva di un bambino di cinque o sei anni.
Appena ci fummo accomodati su una deliziosa terrazza - addobbata di fiori e che dominava il mare - ci furono offerti caffè e sigari: il caffè era preparato alla maniera orientale e cioè brillato senza essere tostato e bollito invece di essere filtrato: le tazze stesse erano piccole e simili a quelle turche, come anche l’abitudine di vuotarle cinque o sei volte, cosa che non presenta inconveniente alcuno data la leggerezza della bevanda. Quel modo di preparare il caffè mi piaceva molto e feci onore a quello del nostro ospite. Così non fu per i sigari che dall’aspetto e dal colore io supposi fossero locali; Jadin, meno difficile di me, ne fumò per entrambi.
Quel mare vasto e tranquillo, disseminato di isole e isolotti, era veramente stupendo racchiuso com’era in quell’orizzonte vaporoso formato dalle coste siciliane e dalle montagne della Calabria. Grazie al lento calare del sole oltre il Campo Bianco, la terra, per un gioco di luci ricco di calore e di armonia, cambiò cinque o sei volte di colore e finì per svanire tra i vapori; quindi la brezza deliziosa del grecale, che arriva ogni sera con l’oscurità, venne ad accarezzarci il viso ed io cominciai a pensare che il nostro governatore non fosse poi così sfortunato. Provai allora a consolarlo elencandogli una dopo l’altra tutte le delizie della sua residenza ma mi rispose sospirando che ne godeva ormai da quindici anni: da quindici anni la medesima sera, alla medesima ora, godeva dello stesso spettacolo e dello stesso vento che veniva a rinfrescargli il viso, cosa che alla lunga rischiava di essere monotona, per quanto amanti della natura si possa essere. Non potei fare a meno di ammettere che c’era qualche cosa di fondato in quel ragionamento.
Restammo sulla terrazza fino alle dieci. Rientrando in casa trovammo la sala da biliardo illuminata e non mancammo di fare la nostra partita. Dopo la partita, la padrona di casa ci invitò a passare nella sala da pranzo dove ci attendeva uno spuntino a base di torte e frutta. Tutto era presentato con una grazia così squisita che decidemmo di apprezzare ogni cosa sino in fondo.
Ed era quasi mezzanotte quando il governatore, pensando che avessimo bisogno di riposo, ci lasciò andare: erano dieci anni che non si coricava ad un’ora simile e ci assicurò che non aveva mai passato una serata così piacevole.

Lasciai a Jadin l’onore di fare i ringraziamenti: era stato così eccitato per aver potuto parlare francese che aveva fatto faville.

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