18 maggio 1276
sulfhur, alumen, lapides
Generalmente siamo portati a pensare che l’industrializzazione, il capitalismo e i monopoli siano fenomeni relativamente recenti, che risalgono al massimo all’inizio del 1700. Ci sono invece, soprattutto nel campo minerario, delle attività molto più antiche, ma già organizzate con criteri moderni è il caso della nostra pomice, dell’allume e dello zolfo. A riprova di ciò riproduciamo la prima testimonianza ufficiale sul commercio dei prodotti minerari delle Eolie, si tratta di un mandato di Carlo d’Angiò del 18 maggio 1276 con il quale il Sovrano autorizza il Vescovo ad asportare e commerciare “sulfhur, alumen, carbones, lapides et scopas ac deferendum illa ad vendendum per terras fidelium et amicorum nostrorum”. Carlo D’Angiò aveva proibito ad alcun mercanti l’acquisto di zolfo, allume, carbone, pietre e scope nelle isole di Vulcano e di Lipari. Il Vescovo, ricevendo danni da quest’ordine, supplicò il re di togliere tale proibizione per i mercanti che andassero a vendere le predette merci nel reame o nelle terre dei fedeli ed amici del re. E questi annui.
L’allume è noto fin dall’antichità: Diodoro Siculo ne mette in rilievo lo sfruttamento che si faceva a Lipari di questo minerale ed il copioso guadagno che ne ritraevano, non solo i Liparesi, ma anche i romani. I liparesi avevano di questo prodotto un vero e proprio monopolio e quindi un’assoluta libertà nello stabilire i prezzi di vendita, poiché, oltre che nelle Eolie, l’allume non si trovava anticamente in nessuna parte del mondo, tranne che nell’isola di Milo nell’Egeo, ma in piccola quantità e, secondo quanto scrive Teofrasto di qualità inferiore a quella nostra. Ulteriori notizie si ottengono da alcuni atti custoditi presso l’archivio Capitolare di Patti. Nel 1247 attraverso un rogito notarile che transunta un mandato di Federico II, si apprende della restituzione al Vescovo di Lipari di una vena di allume sita in Vulcano. Il Campis credeva che l’allume si ricavasse nell’isola di Lipari nella contrada denominata Pirrera e che da questa località venisse poi trasportato in quella detta Parmito ove veniva purificato e ridotto alla perfezione dovuta. Lo Spallanzani c’informa che egli non è riuscito a trovare che minime tracce di allume, per cui opina che la vena di questo minerale si sia venuta ad esaurire con il tempo o che sia andata perduta, e ciò sempre quando non si voglia intendere che i Liparesi traessero l’allume non dalla loro isola, ma da quella di Vulcano che ne possedeva in abbondanza anche alla fine del XVIII secolo, epoca in cui Spallanzani ebbe a visitarla.
Lo Zolfo. Il 15 maggio 1533 il Vescovo di Lipari concede in enfiteusi miniere di zolfo, allume e vetriolo esistenti nelle isole Eolie.
Nel corso del 1700, il Vescovo Ventimiglia, nel tentativo di combattere la disoccupazione, apri una “fabbrica” nell’isola di Vulcano per lo sfruttamento delle zolfo e di altri minerali. Ma fu costretto a ritirarsi dall’impresa perché contrastato dai borghesi possidenti di Lipari i quali da un canto si vedevano preclusa la facoltà di “legnare” liberamente in quell’isola, e, dall’altro, paventavano che l’affluenza di manodopera nella “fabbrica” avrebbe potuto far lievitare il costo del lavoro. Ma l’accusa di comodo che inventarono fu ben altra, e sortì l’effetto voluto: presso il vicerè di Palermo essi indicarono il vescovo come responsabile dell’inquinamento dell’aria – a motivo dei fumi originati dal processo di purificazione dello zolfo – e del conseguente deperimento delle vigne e dei coltivi a Lipari e a Salina. L’8 marzo del 1706 una lettera del Tribunale della Regia Monarchia ordina al Vescovo di sospendere l’estrazione dello zolfo e dell’allume nell’isola di Vulcano, poiché il fumo porta nocumento ai raccolti di uva passa. L’ordine viene ribadito il 27 maggio del 1707.
L’8 aprile 1813 il Vescovo di Lipari, Mons. Silvestro Todaro, con autorizzazione del Re di Napoli, diede in enfiteusi al Generale, marchese, Don Vito Nunziante terre arenose della Mensa Vescovile: Levante, Ponente fino a Monte Saraceno e alle Grotte di Lentia. Il 16 aprile 1813 aggiunse altre 2 salme e mezzo presso la Fossa. Parimenti certo Mag. Leonardo Donato ricevette in enfiteusi a nome dello stesso Nunziante altre 10 salme dietro Porto Ponente e Porto Levante. Tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 si producevano annualmente 4.000 quintali di zolfo, 6.000 di allume e 300 di acido borico. Nel 1830 se ne ricavava un provento complessivo annuo di cinquemila lire, di cui: 3.000 provenienti dalla estrazione dello zolfo e 2.000 da quella dell’allume e dell’acido borico. Dumas, che visito le Eolie nel corso del 1835 descrive l’attività di estrazione mentre visitava il cratere insieme ai figli del Nunziante. I forzati estraevano lo zolfo lungo gradoni circolari degradanti verso l’interno del cratere. Nel corso del 1840 centinaia di lavoratori, forniti dalla colonia penale di Lipari, si recarono a Vulcano per la produzione di zolfo ed allume, nel 1848 arrivarono ad essere 400 circa. Nel 1865 il viaggiatore Elisèe Reclus, visita l’isola di Vulcano narrando lo stato in cui si trovavano i pochi addetti (meno di 10 persone) all’estrazione dello zolfo, ancora forniti dalla colonia penale di Lipari. Dopo 60 anni, nel 1873, tutto divenne proprietà degli eredi del Nunziante. Nel 1874 gli eredi rivendettero tutto all’asta e fu comprato da certo Domenico Ranieri a nome di Stivenson di Glasgow per lire 5.450, con atto registrato a Messina. Nel 1877 l’inglese acquistò altri terreni a Vulcanello, Porto e Grotta Abate per lire 5.100. Nel 1888 si ebbe l’ultima eruzione del Vulcano, con getto di lapilli, sabbia, bombe vulcaniche ed abbondanti emanazioni di vapori solforosi in tutta la zona di Levante e fin sotto il Palazzo che lo Stivenson si era fatto costruire. Forse impressionato per tali fatti se ne tornò in Inghilterra e lasciò un curatore. Intanto durante la sua permanenza nell’isola aveva fondato una fiorente azienda agricola, con ricco e abbondante vigneto, e una industria per l’estrazione dello zolfo del cratere. L’11 marzo 1902 fece testamento lasciando molto a Istituzioni ecclesiastiche, ma non bastando i soldi per dette donazioni vendette parte dei terreni che furono acquistati il 28 gennaio 1903 da Giovanni Conti, da Ferdinando Conti e da Giuseppe Favaloro. Dopo l’ultima eruzione le attività estrattive dello zolfo, dell’allume e dell’acido borico furono completamente abbandonate di pari passo i proventi erano andati progressivamente diminuendo negli anni, fino a raggiungere milleduecento lire, di cui 375 per lo zolfo, 460 per l’allume e 365 per l’acido borico.