L’Amico Massimo Ristuccia ormai da tempo ci fornisce documenti e foto sconosciute che riguardano il passato delle nostre isole, la sua passione per queste ricerche sta arricchendo la memoria storica della nostra comunità, personalmente lo seguo con interesse e ne apprezzo i risultati in particolar modo i documenti legati alla secolare attività estrattiva della pomice.
Grazie a lui ho potuto acquistare un libro in una libreria d’epoca in cui viene documentato uno studio per “l’igiene e la sicurezza del lavoro nell’industria della pomice di Lipari”, fatto nel maggio del 1955, per conto dell’E.N.P.I. (Ente Nazionale per la Prevenzione degli Infortuni), da parte di una commissione formata, da un medico del lavoro, un ingegnere, un assistente sociale e un tecnico per la documentazione fotografica.
Dopo averlo letto con molto interesse e malgrado che l’intestazione fosse riferita all’igiene e la sicurezza sui luoghi del lavoro, tale studio nel suo contesto generale è una vera e propria indagine che oltre ad analizzare i luoghi di lavoro, analizza anche gli aspetti produttivi, sociali e culturali dei lavoratori, tanto che ha richiesto la permanenza del gruppo di studio per diverse settimane sui luoghi e si può definire un vero testamento che fotografa la singolare realtà, estrattiva e di lavoro dei cavatori della pomice, esattamente, sessanta anni fa.
Il libro si compone di sei capitoli:
Nel primo capitolo viene descritta l’industria della pomice e si riportano i dati geografici e geologici, la mineralogia dei giacimenti e le caratteristiche chimico-fisiche della pomice, i prodotti industriali ed impieghi della pomice, gli aspetti economici-commerciali dell’industria, con varie schede inserite.
Si cerca di descriverne la forza lavoro e tal proposito si riporta, “ Il numero di unità lavorative che trovano impiego in Lipari nell’industria della pomice non è facilmente valutabile ……. buona parte delle lavorazioni hanno carattere stagionale o semistagionale (normalmente il lavoro alle cave si effettua solo nei mesi estivi, quello agli stabilimenti anch’esso nei mesi estivi e solo in misura ridotta e saltuaria nei rimanenti) per cui la mano d’opera ha carattere fluttuante. In via di approssimazione si può , tuttavia, calcolare che nelle cave comunali e private lavorino da 1.000 a 1.200 operai, e da 800 a 900 negli stabilimenti. La mano d’opera di questi ultimi è in buona parte costituita da personale femminile.
Alle dette unità sono da aggiungere circa 250 lavoratori iscritti alla compagnia portuale di Canneto-Lipari i quali, quando non trovano impiego per il carico del prodotto da esportare sui velieri e sui piroscafi, ben spesso si occupano dell’escavazione o della lavorazione negli stabilimenti”.
Nel secondo capitolo, si descrive la lavorazione della pomice. Nel primo paragrafo, sugli aspetti generali viene specificato che la lavorazione riguarda due grandi categorie di prodotti: la pomice in pezzi, dalla quale venivano ricavati i sagomati di pomice, e la pomice da molitura, distinta in pezzame, granulato e polveri di pomice. Nel secondo paragrafo viene descritto il lavoro nelle cave e tal proposito riporto, “trattasi di gallerie a scalini che seguono il percorso degli strati del giacimento. Ricavate senza mezzi meccanici, risultano in genere rettilinee, con sezione di metri 1,50/2,00 X 1,50, con volta a taglio grezzo, senza armature e rivestimento. Lo strato di pomice raggiunto dallo scavo è sfruttato col piccone e demolito in pezzi di grandezza variabile a seconda della riuscita del taglio. Il lavoro implica lo sgombero dei materiali di rifiuto, praticato con pala e cofano di vimini a spalla. In ogni galleria lavorano da tre a cinque operai…….. Nelle cave a cielo aperto, dette taglie, viene usato il sistema di coltivazione a rapina. Esso consiste nel cavare il minerale, sfruttando la naturale pendenza del giacimento ed attaccando dal basso la parete di pomice con il piccone. Il banco di pomice alto fino a 4m. viene indebolito progressivamente praticando alla sua base piccoli scavi (come inizi di gallerie)…… I piedritti di sostegno che ne risultano, sono fatti crollare attaccandoli con aste di legno munite di punta metallica. Si provocava in tal modo il crollo della falda soprastante”. Ne terzo paragrafo viene descritto il lavoro nelle baracche, dove avviene la pulitura e selezione, la spezzatura, la limatura, la rotolatura e molatura (con la quale venivano ricavati i famosi topolini di pomice). Nel quarto paragrafo viene descritto il lavoro negli stabilimenti che a suo tempo erano circa una decina, con una manovalanza variabile per ogni stabilimento da un minimo di 20/30 unita a un massimo di 100/130 unita e la lavorazione del pezzame, del lapillo, il trasporto del materiale grezzo e lavorato e i locali di lavoro.
Nel terzo capitolo, si riportano le cause di rischio nell’industria della pomice. Il primo paragrafo parla della polvere nell’industria della pomice e si riporta, “La polvere rappresenta la causa predominante di insalubrità nella lavorazione della pomice. Nessuna fase lavorativa ne è esente.
Il rischio varia, tuttavia, notevolmente con il tipo di lavoro e con la fase di lavorazione. Il lavoro negli stabilimenti è molto più polveroso di quello che si svolge nelle cave e nelle baracche…….. Nell’interno degli stabilimenti, fonte principale della polvere sono i buratti ed i forni in tutte le fasi di funzionamento. I forni per il pezzame sono alimentati attraverso canali in discesa che lasciano cadere il materiale direttamente, originando il sollevamento di notevole quantità di polvere. Anche il versamento del lapillo dalle carriole a mano sulle piastre dei forni, per la produzione di seconda qualità, dà luogo a formazione di polvere……. Chi di noi ha eseguito la raccolta dei campioni sulle piastre dei forni, sorvegliando da vicino l’apparecchio, ha potuto notare i tappi di polvere che si formano nelle narici già dopo pochi minuti di permanenza”. Il secondo paragrafo ci parla della pneumoconiosi tra gli operai della pomice, si fanno dei vari accenni agli studi fatti in passato e in particolar modo di uno studio fatto dall’INAIL nel 1950, anche con l’uso di una stazione schermografica mobile con la quale vennero eseguite oltre mille schermografie, si riporta quale furono gli esiti. “le conclusioni alle quali è pervenuto il Columba sulla scorta dei dati clinici emersi dall’indagine dell’INAIL, per quanto riguarda il decorso e la prognosi della forma pneumoconiotica, conclusioni riferite dal Matteucci nella citata monografia.
- La silicosi dei lavoratori della pomice di Canneto Lipari è una malattia ad insorgenza piuttosto tardiva ed a decorso abbastanza lento. Riesce di solito gravemente o totalmente invalidante solo nelle forme più avanzate ed anche in queste abbastanza spesso tardivamente, con caduta allora, quasi improvvisa o quanto meno assai rapida delle condizioni del soggetto;
- I suddetti lavoratori vanno incontro alla reticolazione in genere dopo 10-12 anni di lavoro. La reticolazione evolve con lentezza trasformandosi in silicosi nodulare dopo una decina di anni. Infine, dopo 25-30 anni, si perviene alle forme di silicosi massiva;
- Non intervenendo complicazioni (in genere bronco-polmoniti) o mancando malattie intercorrenti, il silicotico di Canneto-Lipari muore dopo molti anni o addirittura decenni con il quadro più o meno conclamato dello scompenso cardiaco destro: in piena coscienza, tormentato dalla dispnea, angosciato dalla fame d’aria, disperato nella invocazione della morte liberatrice;
- Decorso più rapido e maggior gravità presenta la malattia negli operai che sono adibiti ai forni per l’essiccamento della polvere, esposti direttamente all’inalazione di quantità massive della stessa polvere surriscaldata: qui l’insorgenza è precoce, la reticolazione può comparire già dopo tre anni, ed anche meno, di lavoro, dopo 10-12 anni si arriva ordinatamente alle forme massive; continuando la esposizione i pazienti vanno incontro alla invalidità totale o addirittura all’exitus, nel giro di 15-16 anni.”Nel quarto capitolo vengono descritte le forme di prevenzione da adottare, nel lavoro delle cave, nel lavoro delle baracche, nel lavoro degli stabilimenti, nelle operazioni di trasporto e naturalmente la prevenzione della silicosi chiamata “liparosi”. Viene descritta la trasformazione razionale degli impianti, la sistemazione dei servizi igienici che sono del tutto assenti e viene citata la nuova legge regionale 4 aprile 1956 n. 23 di polizia mineraria, considerato che il libro viene messo in edizione nel 1958.Il quinto capitolo è particolarmente interessante per uno “studio sociologico e dei rapporti umani nell’ambiente di lavoro dell’industria della pomice di Canneto Lipari”.Il metodo per le informazioni sui modi di essere e di comportarsi degli operai, viene basata su tre strumenti: il colloquio, l’osservazione diretta e le visite domiciliari.Il colloquio viene principalmente imperniato sulla base di un questionario con circa 40 domande e le interviste vengono fatte su due gruppi di operai, il primo composto da 17 elementi appartenenti a una azienda a ciclo ridotto e il secondo gruppo composto da 19 elementi appartenenti ad una azienda a ciclo intero di lavorazione.L’osservazione diretta degli operai al lavoro e nei momenti di riposo è servita come mezzo integrativo conoscenza integrativa allo studio. A tal proposito si riporta,”…. non esistono impianti igienici, spogliatoi e locali collettivi. Durante i periodi di riposo e per consumare i pasti gli operai si ritirano all’ombra nelle brevi gallerie di caricamento. Gli stabilimenti sono stati costruiti tenendo presente, sia pure in modo del tutto primordiale, la loro funzionalità e l’economia. Questo fa si che visitando uno stabilimento, anche dei più importanti, se ne riporta una impressione di precarietà e di incompletezza. Tutto concorre a consolidare questa impressione: le scale senza ringhiere, le terrazze prive di protezione, i passaggi improvvisati con tavole insicure, ecc..… Ci siamo sforzati di trovare una spiegazione plausibile, che naturalmente non può essere univoca, di questo stato di cose. Indubbiamente una componente di tale spiegazione è quella economica: le ringhiere e i presidi protettivi, richiedono un impiego di capitale che l’imprenditore considera erroneamente improduttivo. Altra componente non trascurabile è la mancanza di cultura tecnico-professionale nell’imprenditore (nell’industria della pomice è assente del tutto i tecnico). Quando un problema nuovo si presenta, l’imprenditore interviene consultandosi col caposquadra. Conseguentemente la mancanza tecnico-professionale porta alla improvvisazione. Ci si arresta all’essenziale, al minimo sforzo; manca ogni capacità di perfezionamento.Questo senso di -non compiuto-, di -non finito- influisce in modo negativo sull’operato e, in particolare, sul suo rendimento”.Le visite domiciliari, infine hanno permesso di osservare l’operaio, fuori dall’ambiente di lavoro e fare anche li delle domande sia a lui che ai loro familiari, per poter avere delle considerazioni comparative. A tal proposito si riporta, “Diverso è stato il comportamento dell’operaio intervistato sul lavoro e intervistato nella propria casa. Il contegno è apparso meno imbarazzante, più sicuro. I rapporti interfamiliari sono stabiliti sul metro dell’autorità del capofamiglia che comanda, la moglie si tiene in disparte, in atteggiamento dimesso. E’ il marito che offre il vino all’ospite, che conduce la conversazione. Alle domande che qualche volta rivolgevamo alla moglie, spesso era il marito che rispondeva.Riteniamo che a tutto ciò concorra, oltre alle particolari abitudini meridionali, anche il fatto che la personalità dell’operaio è durante il lavoro repressa e che l’operaio stesso trova nei rapporti familiari un elemento compensatore all’azione prostrante dell’ambiente di lavoro”.L’ultimo capitolo è sulle “Considerazioni finali”.Viene descritto il perché dello stato di fatto e l’aspetto culturale della lavorazione della pomice, facendo dei riferimenti al passato e poi si elencano una serie di iniziative, con riferimento di alcune leggi, per l’ammodernamento del ciclo produttivo e delle esigenze umane e sociali dei lavoratori-cavatori.Infine il libro viene arricchito di circa trenta foto che raffigurano gli operai-cavatori che lavorano e ne spiegano il tipo di lavoro fatto Salvatore Agrip.