Raffaele Lombardo ha riconsegnato il Partito dei Siciliani a Silvio Berlusconi, l’uomo chiave dell’asse del nord, capo del governo “a trazione padana” che ha insolentito, oltre che impoverito, il Mezzogiorno d’Italia e la Sicilia. Il Partito dei siciliani, autonomista e territoriale, creato dall’ex presidente della Regione, sarà alleato, con il Grande Sud, alla Lega Nord. Un incaprettamento volontario.
“Non avevamo scelta”, ha spiegato Lombardo, ci hanno sbattuto la porta in faccia.
E’ vero?
Sì, è andata proprio così, ma questo non spiega “la dazione” di schede nell’urna al leghismo post-bossiano che proclama, come condizione della propria alleanza, l’impegno a spendere nel proprio territorio, la Lombardia, due terzi delle risorse pubbliche. Una idiozia, oltre che una infamia, un esemplare testimonianza di egoismo e di provincialismo insultante. Accettata con mente serena da altri autorevoli siciliani, come Angelino Alfano, Renato Schifani, Gianfranco Miccichè, Stefania Prestigiacomo, tanto per citare i big.
La porta in faccia, dunque. E’ prevalsa nel centrosinistra una priorità: liberarsi, definitivamente, dell’ingombrante Lombardo, e soprattutto dei suoi amici “trasversali”, presenti anche nel Pd, piuttosto che la vittoria su Silvio Berlusconi in terra di Sicilia.
Perché è andata così?
I nuovi equilibri di potere, spiegano in tanti. La miopia dei politici nostra, accusano taluni. Una resa dei conti, sospettano in molti. Una gran cazzata, che farà vincere Berlusconi, sussurra, disperato, chi sta fuori dal coro.
Noi vorremmo affrontare l’episodio partendo dal contesto, come avrebbe fatto Leonardo Sciascia. Per capire più che per giudicare, il fenomeno-Lombardo. L’uomo più potente, e più inviso (nei circoli che contano) di tutti i tempi nell’Isola.
L’idea che tutti i guai del mondo, o larga parte di essi, possano essere addebitati a qualcosa o a qualcuno, e che basti quindi liberarsi di qualcuno o qualcosa per salvarsi, è nata con l’uomo. E’ stata alimentata dall’istinto di sopravvivenza, dallo scaltro calcolo, dal possesso della verità.
L’idea che tutti i guai della Sicilia comincino e finiscano con Raffaele Lombardo e pochi intimisi è consolidata quando l’altro simbolo del male – Totò Cuffaro – è stato assicurato alla giustizia e, ha conquistato la sua consacrazione giorno dopo giorno, allorché l’ex governatore è riuscito a spogliarsi del suo odore sulfureo mostrando a “a coloro che stanno dalla parte giusta”, di di essere un detenuto modello, rispettoso della legge e dei verdetti dei giudici. Niente soddisfa di più il palato di coloro che stanno dalla parte giusta.
Emergendo dalle sue colpe con un comportamento remissivo e consapevolmente penitente, Totò Cuffaro rischiava però di lasciare orfani del Nemico i siciliani per bene; così si è provveduto – per carità nessuna congiura, complotto, trattativa ecc – a designare Raffaele Lombardo come epigono del cuffarismo che, come affermò lucidamente Gianfranco Miccichè, sarebbe nato prima di colui che gli ha regalato il nome, essendo pratica comune nell’Isola, la clientela e le cattive frequentazioni.
Se le cose stanno così, ma può darsi che stiano diversamente, dovremmo supporre che Raffaele Lombardo sia nient’altro che il capro espiatorio e perciò, inequivocabilemente, innocente. Male che vada, meritevole di indulgenza, come riparazione all’ingiusto cumulo di colpe che i siciliani per bene – soprattutto i politici per bene – gli assegnano per allontanare da sé il sospetto di complicità.
Troppo comodo, sorry. Raffaele Lombardo non merita l’aureola, ha la legittima rappresentanza di una Sicilia politica che ha fatto di sè – della propria intelligenza, dei propri valori, delle proprie attitudini ed abilità – carne da macello. Avrebbe potuto fare la fortuna della Sicilia ed invece è avvenuto il contrario, bruciando scelte, gesti e meriti (ambiente, energia, rifiuti ecc).
Un esempio, il più banale. Facendo un passo indietro – dimissioni e ritiro dalla politica – aveva salvato la propria immagine, candidando i figlio e rimanendo il dominus del nuovo partito, il Pds, ormai abbandonato dai suoi uomini forti (Leanza, Pistorio, Musotto ecc), ha azzerato i meriti (se diamo uno sguardo alle liste per le politiche troviamo altri figli-candidati al seggio parlamentare, ma l’ex governatore non può aspirare all’indulgenza, è ancora sulla scena).
Raffaele Lombardo non è un alieno, altro da noi, ma il simbolo della nostra decadenza culturale, del pensiero debole, della devastante condizione di degrado politico in cui è ridotta l’Isola.
Tutti colpevoli, dunque? E’ la società che ha creato il disastro, come si pensava trenta anni fa? Nemmeno per sogno: le responsabilità ci sono. Hanno nomi e cognomi, sono individuali e non collettive.
Se potessimo assistere alla sfilata – su una ideale passerella, come usava il varietà – dei personaggi che hanno fatto la complicata storia politica ed istituzionale della Sicilia, dal dopoguerra ad oggi – ci accorgeremmo con stupore che Raffaele Lombardo non godrebbe di quell’attenzione che oggi gli viene concessa. Magari la platea si spellerebbe le mani per plaudire, invece che insolentire, sia lui che gli altri suoi eroi. Chi lo sa?
Avendole voluti, scelti, tenuti in piede con il proprio voto, come farebbero a mostrare il cappio senza sentirsi stringere il collo?
La Lombardo story, in definitiva, è la Sicilia-story. E’ anche un alibi assolutorio, una ciambella di salvataggio. E il suo protagonista, l’ineffabile Raffaele, la cifra della nostra follia collettiva. Come la definereste la scelta di affidare a Tremonti, al Cavaliere e a Maroni-Bossi il futuro dell’autonomia siciliana?