“Oggi
i tempi sono cambiati, a volte mi dico che questo non è il mio mondo”. Così
scrive Italo Toni, alla pagina 103 del suo libro “Eolie. Civiltà e vita degli eoliani”
(Youcanprint, Lecce 2021, Euro20), ultima fatica letteraria di una lunga serie.
Sono le stesse parole che mi ha detto conversando un pomeriggio della scorsa
estate sull’ombroso terrazzo dell’agriturismo Tivoli, proteso dall’alto della
località Quattropani sul braccio di mare che allinea la fantastica sequenza dei
coni vulcanici di Salina, Filicudi e Alicudi.
Si
conversava a ruota libera dei tempi passati, rievocando in particolare come
allora – si parlava degli anni tra i ’50 e i ’60 – si svolgeva il grande evento
della trebbiatura del grano. Mentre nella mia terra – la Romagna – già dagli
anni ’30 circolavano trattori e macchine da trebbia, a Lipari la conquista del
grano libero da paglia e pula avveniva su aie circolari create ai margini delle
abitazioni coloniche (ne sopravvivono splendidi esemplari proprio a Quattropani,
la località dove si trova l’agriturismo) a suon di braccia (la “battitura”) e
con l’indispensabile concorso del vento propizio, di cui occorreva naturalmente
attendere l’arrivo. Insomma, altri tempi, di cui Italo sembra avere nostalgia. All’avventurosa
vicenda che dalla raccolta del grano porta al pane in tavola, descritta senza
perdere un solo dettaglio, sono dedicate le pagine da 49 a 61 del libro.
Ma
questo è solo un momento, sia pure centrale, della “civiltà e vita” (bello
questo inscindibile binomio) degli eoliani. E la pesca? Le Eolie sono isole, e
le risorse che il mare offre sono evidentemente vitali per una popolazione cui
non può bastare un’agricoltura povera e stentata, sacrificata da un terreno
aspro e avaro. Proprio a tutto ciò che sta attorno alla pesca è l’argomento
principale della prima parte del libro, dopo una sintetica ma precisa
informazione di carattere storico e archeologico. Sulla pesca e tutto ciò che
la concerne Italo è un pozzo inesauribile di conoscenza: leggendo queste
pagine, si resta stupiti dalla varietà e complessità delle tecniche e degli
attrezzi (vari tipi di barche, di reti, di attrezzi, di accorgimenti…), si
viene a conoscere cosa sono le palamitare, i varchi di rizza di nassi e di
cuonzu, i suvarieddi, i chiummi, il chiarù… E naturalmente c’è l’infinita
varietà dei pesci che le acque eoliane offrono, con particolare attenzione ai
calamari e ai totani (questi ultimi menzionati con particolare rilievo: la
pesca al totano è quasi un rito, d’estate offerto anche alla partecipazione dei
villeggianti).
Oltre
alle attività per la “sopravvivenza materiale” (agricoltura e pesca), a Italo
non sfugge un altro aspetto centrale della civiltà eoliana, la peculiarità
delle costruzioni. Anche su questo Italo è un pozzo di informazioni senza
fondo. Oltre tutto nell’attività edilizia Italo si è sempre esercitato e si
esercita tuttora. In fondo, scrive Italo, “il mastro muratore era sempre un
contadino con esperienza in muratura”, perché nelle isole Eolie “non vi erano maestri
esperti in costruzioni edili, quindi tutto si tramandava di generazione in
generazione”. Così, per esempio, gli strumenti di misurazione rispondevano a una
tecnologia elementare, avente come primo riferimento la dotazione naturale del
proprio corpo, a cominciare dalla mano, il “palmu” che “nelle Eolie si misurava
con la mano aperta, dal pollice al mignolo, la misura si aggirava intorno ai 20
centimetri, invece un palmo e mezzo con la piegatura equivale a 30 centimetri
circa”. Mi lito a questo cenno, per invitare a leggere con attenzione questa
parte (pagine 62 e seguenti) minuziosamente descrittiva delle operazioni che
mettono capo a una costruzione tradizionale.
Il
libro si sofferma poi su costruzioni particolari, di importanza vitale per
l’economia domestica degli eoliani. Ad esempio i forni a legna, su cui Italo
vanta esplicitamente particolare esperienza: “gli eoliani naturalmente dopo la
stalla e la casetta e il cucinino passavano al forno fonte di ricchezza per la
famiglia”, ma al tempo stesso manufatto di grande complessità e impegno, per il
quale “ci voleva tanto materiale”. “Parte dell’architettura eoliana” erano “le
cisterne a campana”, del cui delicatissimo scavo sono descritte minuziosamente
le fasi e le competenze necessarie (“quando il mastro andava sul posto
verificava il terreno come un geologo…”).
Un
capitolo è anche dedicato alla costruzione delle strade. Chi, come chi scrive,
ha una discreta conoscenza di Lipari anche perché ama percorrerla a piedi in
lungo e in largo (detto per inciso: qui non c’è solo il mare, ma un’infinita
ricchezza die percorsi da trekking, con viste mozzafiato, non adeguatamente
valorizzata…), può apprezzare la complessità dell’antico reticolo di piccole
strade e sentieri, ma anche l’enorme lavoro che è stato fatto per dotare
l’isola di un sistema stradale moderno ed efficiente, abbandonando alla memoria
l’antico “viuolu inciacatu” (sentiero a pietra).
Naturalmente
Italo non dimentica le tradizioni religiose così importanti ancor oggi nelle
isole. Si sofferma in particolare sulla devozione domestica, ritornando ai
tempi dell’infanzia, quando la nonna e la mamma gli insegnavano a pregare:
“adesso dobbiamo dire i cossignuri”, cioè è arrivata l’ora delle preghiere.
Molto viva è la rievocazione del contesto festoso della messa domenicale,
quando la partecipazione al rito sacro e il successivo pranzo si fondevano in
un unico evento di umana e cristiana solidarietà.
Ai
margini della tradizione religiosa, un capitolo a parte è dedicato agli aspetti
più inquietanti che da sempre germogliano sul terreno delle credenze: vale a
dire le superstizioni e la presenza di stregoni e fattucchiere. Nel capitolo
“Storie di credenze popolari eoliane”(pagine 120 e seguenti) Italo compie
un’operazione degna di Camilleri: come ne La
concessione del telefono, ricostruisce la vicenda del fattucchiere Famularo
Giuseppe semplicemente riportando i rapporti dei Carabinieri in margine alle
denunce delle persone imbrogliate. La prosa dell’Arma è esilarante.
Infine
va prestata grande attenzione alla bellissima documentazione fotografica che fa
da corredo al testo, direi una componente essenziale – forse la più
significativa – del libro. Persone, luoghi, lavori e strumenti di quel tempo
che Italo sente come suo compaiono tutti sulla scena. E c’è anche lui, Italo
Toni bambino con “il mio primo mezzo di trasporto”, un lungo manubrio di legno
provvisto di una ruota, che nella forma sembra anticipare i micidiali
monopattini che oggi infestano le nostre strade. Ma quelli erano altri tempi, e
“a volte mi dico che questo non è il mio mondo”.
Bruno Liverani