Palermo (Adnkronos/Ign) - Vent'anni fa moriva Giovanni Falcone. Il 23
maggio 1992 sull'autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci e a
pochi chilometri da Palermo, Cosa Nostra fece saltare in aria l’auto su
cui viaggiava il magistrato antimafia, sua moglie Francesca Morvillo e i
tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio
Montinaro.
Sono trascorsi venti anni, eppure la verità non è ancora
venuta a galla. Troppi silenzi, troppe memorie corte, troppi ricordi
sbiaditi. Sono stati numerosi i processi con condanne già passate in
giudicato. Eppure, è di pochi giorni fa l'annuncio eclatante del
procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, che parla di "novità sulle
indagini". Quali ancora non si sa. Gli esecutori materiali della strage,
come accertato dai processi, furono almeno cinque uomini, tra cui
Pietro Rampulla che confezionò e posizionò l'esplosivo e Giovanni
Brusca, che fu la persona che azionò il telecomando al momento del
passaggio dell'auto blindata del magistrato, che tornava da Roma.
Ma
pochi mesi fa il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che sta
riscrivendo la storia delle stragi, ha raccontato ai magistrati nisseni
che sarebbe stato lui a recuperare l'esplosivo, un'altra novità
processuale non ancora accertata. Una delle tante. L'esplosivo per la
strage di Capaci, come ha raccontato Spatuzza, fu prelevato da
pescherecci che lo usavano per la pesca di frodo, nascosto in un rudere e
poi preparato per l'attentato. Il pentito si è autoaccusato della
partecipazione anche a questa strage dopo essersi già attribuito un
ruolo nel furto della Fiat 126 usata come autobomba in via D'Amelio
contro Paolo Borsellino.
Spatuzza ha riferito che circa un mese e
mezzo prima della strage di Capaci, un altro mafioso, Fifetto Cannella,
gli chiese di "procurare una macchina voluminosa per recuperare delle
cose". Il collaboratore mise a disposizione una macchina di suo fratello
e con quella, assieme a Cannella e ad altri due uomini, Peppe Barranca e
Cosimo Lo Nigro, raggiunsero il porticciolo di Sant'Erasmo. Qui, con un
conoscente, indicato solo col nome di battesimo di Cosimo, figlio del
proprietario di un peschereccio, scaricarono da un'imbarcazione
ormeggiata alcuni cilindri di circa un metro, che erano legati alle
murate del natante.
"Successivamente constatai che al loro
interno vi erano delle bombe", si legge sui verbali. "Recuperati i fusti
- ha raccontato il pentito - li caricammo sulla mia vettura per
dirigerci verso la mia abitazione. Durante il tragitto ricordo che ebbi
un problema perché all'altezza dello Sperone c'era un psoto di blocco
dei carabinieri. Una volta arrivato a casa di mia madre, ubicata in un
cortile, scaricammo i bidoni in una casa diroccata di mia zia, che era
fianco di quella di mia madre e che noi usavamo come magazzino".
L'indomani, Spatuzza e Cosimo Lo Nigro trasferirono l'esplosivo in un
magazzino di via Brancaccio, che era peraltro stato sequestrato dal
Tribunale. "Inizoammo quindi a fare la procedura - ha ricostruito il
pentito - tagliando la lamiera dei clindri con scalpello e martello ed
estraendo il contenuto. A fine giornata abbiamo caricato il materiale
che avevamo ricavato, mettendolo nelle fodere di cuscini e poi dentro
sacchi della spazzatura, e lo abbiamo portato nella casa diroccata di
mia zia".
Spatuzza ha però precisato: "Nessuno mi ha mai detto
esplicitamente a cosa servisse l'esplosivo che ricavammo. Il giorno
stesso della strage di Capaci, venne qualcuno, forse Cannella, a
chiamarmi per dirmi di fare sparire l'esplosivo (parecchi chili) che io
ancora custodivo nella casa diroccata di mia zia. Non sapendo dove
metterlo, decisi di portarlo nella ditta dove lavoravo e chiamai Lo
Nigro e Barranca affinché mi facessero da copertura durante il tragitto.
Io lo nascosi, ma successivamente lo consegnai a Cannella, cosa che
avvenne sicuramente prima della strage di via D'Amelio".
Per
uccidere il giudice Giovanni Falcone, la moglie e i tre agenti della
scorta, i boss mafiosi riempirono di tritolo una galleria scavata sotto
l'autostrada e per assicurarsi la buona riuscita del delitto, ne misero
circa 500 kg. Come punto di riferimento gli attentatori presero un
frigorifero bianco posto ai lati della strada nel tratto che collega
l'aeroporto di Punta Raisi, oggi intitolato a Falcone e Borsellino, al
capoluogo siciliano.
La strage di Capaci è una storia di trame e
di depistaggi, una storia fatta di mezze verità. E sono trascorsi
vent'anni. Una storia collegata strettamente con un'altra strage, quella
in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della
scorta. In quei 57 giorni sarebbe stata avviata la cosiddetta
'trattativa' tra lo Stato e la mafia, di cui lo stesso Borsellino
sarebbe stato messo al corrente. E per gli inquirenti sarebbe stata
proprio questa notizia ad accelerare la sua morte. Palermo sta indagando
sulla trattativa con indagati 'eccellenti', dall'ex ministro Calogero
Mannino al senatore Marcello Dell'Utri al generale Mario Mori. Ma i
dubbi e i veleni sono tanti.