Alle armi, alle armi…Il duello è cominciato nel giorno della consacrazione e, parafrasando Nino Martoglio, “due paladini che sù due pileri, per causanza della bella politica, sono addiventati du nemici feri”.
Antonio Ingroia ha dedicato la sua prima dichiarazione pubblica da candidato premier del Movimento “Rivoluzione civile” a Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia, siciliano, magistrato in prima linea come lui. Chi si aspettava fair play, sobrietà, un benvenuto cavalleresco nell’agone elettorale, un beneaugurale arrivederci in Parlamento e “un vinca il migliore” da parte di Ingroia, deve esserci rimasto male, ma chi mastica un poco di queste cose, sa benissimo che non avrebbe potuto essere così.
Gli arancioni di Luigi de Magistris, Leoluca Orlando, Antonio Di Pietro, hanno una missione insieme ai Verdi e Federazione della Sinistra: erodere i suffragi dell’elettorato di sinistra del Partito Democratico.
Niente di nuovo, beninteso: la guerra delle due sinistre fa parte della storia politica italiana, se le sono date di santa ragione da sempre: cambiano i protagonisti, le vicende, il contesto, ma resta lo scontro feroce, fratricida, velenoso, svantaggioso.
Luigi De Magistris sostiene in verità che gli arancioni di Rivoluzione civile sono “post-ideologici”, ed hanno il culto della legalità e delle buone pratiche. Né sinistra, né destra. Ma la sinistra radicale sta in questa nicchia, a dispetto dei contenuti ( il garantismo ha rappresentato la bandiera della sinistra negli anni sessanta e settanta, ora è sinonimo di cobelligeranza con la mafia).
Il duello, dunque, è cominciato. Antonio Ingroia considera, di fatto, la candidatura di Piero Grasso, Procuratore nazionale antimafia, una decisione ostile, un’arma per combatterlo. E ricorda a chi non l’avesse presente, il lapsus di Grasso sul premio a Berlusconi antimafioso, e soprattutto la sua nomina al vertice della Procura nazionale antimafia da parte del governo Berlusconi nel 2005 (“scelto in virtu’ di una legge con cui venne escluso Giancarlo Caselli, ‘colpevole’ di aver fatto processi sui rapporti tra mafia e politica”) . Considerazioni che dovrebbe persuaderci che Grasso, in realtà. è uno che ha navigato su mari tempestosi con una barca che gli è stata prestata dall’uomo sbagliato.
La scelta di candidarlo da parte di Bersani, dunque, non è affatto encomiabile, ma s’inquadra, è il senso delle critiche di Ingroia, nel contesto di un partito, che ha fatto lotta antimafia a singhiozzo. Più che tenere sveglio il Paese, insomma, il PD si sarebbe concesso molte pause di sonno.
Né Pierluigi Bersani, né Piero Grasso, durante la conferenza stampa dedicata all’annuncio della candidatura, avevano fatto cenno ad Antonio Ingroia. Non una parola, nonostante fosse ormai chiara come la luce del sole l’intenzione del magistrato. Non solo: il Pd ha fatto conoscere l’intenzione di candidare Piero Grasso in Calabria come capolista, non in Sicilia. Una scelta di sicuro non sgradita a Ingroia, pur essendo stata assunta per la volontà dello stesso Procuratore nazionale antimafia di non misurarsi nel territorio in cui per molti anni ha amministrato giustizia.
C’è stato, invero, un cenno indiretto di Grasso alla necessità di separare l’attività politica dall’attività giudiziaria, perché il magistrato deve essere visto sempre come un uomo extra partes. Una volta scelta la strada politica non si può tornare indietro. E’ una polemica indiretta? Sarebbe una forzatura considerarla tale. E’ un fatto che Grasso abbia sentito il bisogno di ricordare la sua scelta di appendere la toga al chiodo con otto anni di anticipo. E’ un fatto altresì che Ingroia non abbia rassegnato le dimissioni e alla fine della sua “avventura” politica può, se lo vuole, tornare a fare il magistrato.
Che cosa dobbiamo attenderci?
Ingroia non mollerà facilmente Grasso, suo competitor naturale (il Procuratore nazionale antimafia, però, si candida alla Camera, Ingroia alla premiership e alla Camera). Dovrà duellare con lui e con il partito che lo candida. Grasso, invece, non ha alcun interesse ad inasprire la polemica. Il Pd gli dà la sicurezza di entrare a Montecitorio e, assai probabilmente, di ottenere incarichi ministeriali. Può permettersi un passo felpato: né critiche, né accuse, né sospetti. A meno che l’avversario non spari a palle incatenate. Ed allora sarà vendetta, tremenda vendetta. Una guerra nella guerra, che potrebbe monopolizzare l’attenzione dell’opinione pubblica. Quando s’è mai visto, infatti, che due alti magistrati inquirenti lascino contemporaneamente la toga e si schierino su fronti politici opposti, facendosi la guerra?