Le primarie hanno provocato nell’elezione del sindaco di Palermo, la sonora sconfitta del Pd, perché vennero ferocemente contestate da una componente della coalizione che le aveva volute, in quanto fonte di inquinamento della battaglia politica con l’accusa (Leoluca Orlando), non provata, di presunti loschi “trafficanti” di voti e il sospetto (Davide Faraone) di patteggiamenti esecrabili del gruppo dirigente a danno delle minoranze.
La candidatura della presidenza della Regione siciliana, da parte del centrosinistra, non ha avuto a che fare con le primarie perché una delle componenti dell’alleanza, l’Udc di Gianpiero D’Alia, ha manifestato la sua preferenza per l’attuale governatore, divenendone di fatto il king maker. Il centrosinistra, insieme all’Udc, ha portato un suo uomo a Palazzo d’Orleans, senza le primarie. Meglio niente?
I tre casi mostrano esiti diversi. Esprimere un verdetto univoco sull’utilità delle primarie da parte del Partito democratico è perciò estremamente arduo. Nessuno ne contesta la qualità di strumento di partecipazione democratica, perfino coloro che non le hanno adottate, come il Pdl, ma si è dubbiosi sui vantaggi che esse offrono a chi le privilegi, magari per surrogare il gap democratico della legge elettorale. Insomma, chi è contrario o incerto sull’opportunità di celebrarle, ritiene che siano fonte di tensioni, litigi, dispute, veleni. Lascerebbero sul campo morti e feriti, invece che richiamare consensi ed apprezzamenti.
Le primarie, come ogni strumento di democrazia, non sono colpevoli di un bel nulla. Dipende da come viene usato lo strumento e dal suo buon uso. Il partito che le adotta, il Pd, si porta appresso una crisi identitaria irrisolta, e mantiene in sella un gruppo dirigente di vertice inamovibile, che non valorizza nemmeno lo straordinario ricambio ottenuto con le primarie nella composizione dei gruppi parlamentari.
Siccome è impensabile che un partito decida un suicidio di massa della sua classe dirigente: almeno le regole nello svolgimento delle primarie dovrebbero essere adottate con severità, senza eccezioni, rendendo sopportabile le resistenze al ricambio.
Quel che sta avvenendo in questi giorni nel centrosinistra siciliano in occasione della scelta dei candidati-sindaco offre un caso da manuale sull’uso delle primarie. Il Partito democratico le adotta a macchia di leopardo e laddove le adotta, sono oggetto di furiose dispute e polemiche contro il loro svolgimento e i risultati.
La crisi di fiducia verso i partiti, insieme ad una applicazione “duttile” delle regole condanna, paradossalmente, l’unico strumento di partecipazione e di democrazia interna e l’unico partito che lo adotta. In alcune città siciliane, dove si sono svolte – è il caso di Siracusa – o si stanno svolgendo, come a Ragusa, Comiso e Messina, la tensione è così alta che, qualunque sia il risultato, le primarie rilasciano una coda velenosa di polemiche che tracima nei media.
Sull’opportunità dello svolgimento delle primarie c’è una diversità di vedute fra il Pd di Beppe Lupo, e il Megafono di Rosario Crocetta; il primo si è battuto per le primarie, il secondo, per la scelta di personalità di indubbio valore in città-chiave, come Messina. Tuttavia Lupo, e lo stesso Crocetta, hanno spiegato che a Catania è meglio “saltare” le primarie perché il candidato è, Enzo Bianco, che è stato in passato sindaco della città etnea. La candidatura di Bianco è una buona candidatura, ma ha due limiti: comunica la permanenza del gruppo dirigente e, soprattutto, l’uso delle primarie a fisarmonica con la conseguenza che laddove esse si svolgono, regalano a chi non ci sta motivi per sentirsi raggirati o discriminati, ed agli elettori “sfiduciati” motivi per guardare altrove.
Le primarie sono uno straordinario motore della democrazia, ma hanno bisogno una macchina da far partire. Se il partito non c’è, le primarie divengono un castigo di Dio. Meritatamente.
La candidatura della presidenza della Regione siciliana, da parte del centrosinistra, non ha avuto a che fare con le primarie perché una delle componenti dell’alleanza, l’Udc di Gianpiero D’Alia, ha manifestato la sua preferenza per l’attuale governatore, divenendone di fatto il king maker. Il centrosinistra, insieme all’Udc, ha portato un suo uomo a Palazzo d’Orleans, senza le primarie. Meglio niente?
I tre casi mostrano esiti diversi. Esprimere un verdetto univoco sull’utilità delle primarie da parte del Partito democratico è perciò estremamente arduo. Nessuno ne contesta la qualità di strumento di partecipazione democratica, perfino coloro che non le hanno adottate, come il Pdl, ma si è dubbiosi sui vantaggi che esse offrono a chi le privilegi, magari per surrogare il gap democratico della legge elettorale. Insomma, chi è contrario o incerto sull’opportunità di celebrarle, ritiene che siano fonte di tensioni, litigi, dispute, veleni. Lascerebbero sul campo morti e feriti, invece che richiamare consensi ed apprezzamenti.
Le primarie, come ogni strumento di democrazia, non sono colpevoli di un bel nulla. Dipende da come viene usato lo strumento e dal suo buon uso. Il partito che le adotta, il Pd, si porta appresso una crisi identitaria irrisolta, e mantiene in sella un gruppo dirigente di vertice inamovibile, che non valorizza nemmeno lo straordinario ricambio ottenuto con le primarie nella composizione dei gruppi parlamentari.
Siccome è impensabile che un partito decida un suicidio di massa della sua classe dirigente: almeno le regole nello svolgimento delle primarie dovrebbero essere adottate con severità, senza eccezioni, rendendo sopportabile le resistenze al ricambio.
Quel che sta avvenendo in questi giorni nel centrosinistra siciliano in occasione della scelta dei candidati-sindaco offre un caso da manuale sull’uso delle primarie. Il Partito democratico le adotta a macchia di leopardo e laddove le adotta, sono oggetto di furiose dispute e polemiche contro il loro svolgimento e i risultati.
La crisi di fiducia verso i partiti, insieme ad una applicazione “duttile” delle regole condanna, paradossalmente, l’unico strumento di partecipazione e di democrazia interna e l’unico partito che lo adotta. In alcune città siciliane, dove si sono svolte – è il caso di Siracusa – o si stanno svolgendo, come a Ragusa, Comiso e Messina, la tensione è così alta che, qualunque sia il risultato, le primarie rilasciano una coda velenosa di polemiche che tracima nei media.
Sull’opportunità dello svolgimento delle primarie c’è una diversità di vedute fra il Pd di Beppe Lupo, e il Megafono di Rosario Crocetta; il primo si è battuto per le primarie, il secondo, per la scelta di personalità di indubbio valore in città-chiave, come Messina. Tuttavia Lupo, e lo stesso Crocetta, hanno spiegato che a Catania è meglio “saltare” le primarie perché il candidato è, Enzo Bianco, che è stato in passato sindaco della città etnea. La candidatura di Bianco è una buona candidatura, ma ha due limiti: comunica la permanenza del gruppo dirigente e, soprattutto, l’uso delle primarie a fisarmonica con la conseguenza che laddove esse si svolgono, regalano a chi non ci sta motivi per sentirsi raggirati o discriminati, ed agli elettori “sfiduciati” motivi per guardare altrove.
Le primarie sono uno straordinario motore della democrazia, ma hanno bisogno una macchina da far partire. Se il partito non c’è, le primarie divengono un castigo di Dio. Meritatamente.