Di questi tempi si
parla molto di “sviluppo”, una parola d’ordine che – rinverdita dalla ciclica
comparsa del fantasma dell’aeroporto – veicola imperiosamente, dal web alle
chiacchere davanti a un caffè, e suscita inevitabilmente qualche riflessione.
Tra gli anni
Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso, in nome dello “sviluppo”, a
Vulcano è sorto un centro urbano laddove c’erano solo giunchi, fumarole e capre
che pascolavano serafiche alla base di un cratere attivo. A detta di chi ne
possiede memoria – io, purtroppo, non me lo ricordo – quella parte dell’isola
costituiva uno dei luoghi più affascinanti del Mediterraneo, e forse del mondo.
Oggi è difficile immaginarne quella bellezza che qualche foto sbiadita non
potrà rendere con efficacia, mentre siamo assuefatti al disordine edilizio appena
occultato dalle acacie e dai pini di Vulcanello, alla vista di orrori di
calcestruzzo che ci accompagna mentre percorriamo la strada che dal porto
conduce alle spiagge nere, e persino al fatto che queste si riducano
inesorabilmente, anno dopo anno, assediate dagli stessi alberghi che ne
invocano il ripascimento.
Sempre in nome dello
“sviluppo”, pochi anni dopo Monte Sant’Angelo è stato ricoperto da una
faraonica coltre di cemento, così vasta da potersi distinguere addirittura nelle
immagini satellitari. Non c’è dubbio che vi fossero valide ragioni: raccogliere
l’acqua piovana per fare fronte alle necessità di una comunità in crescita.
Peccato che, nonostante i costi spropositati, un’opera del genere non abbia impedito
però di continuare a dipendere da navi che trasportano l’acqua dalla terraferma
al modico prezzo di tredici euro a metro cubo.
Una quindicina di
anni fa, invece, una pioggia di finanziamenti ha permesso la nascita di nuovi
alberghi, residence e strutture affini, trasformando il paese con
impressionante rapidità. Lo “sviluppo” era sulla bocca di tutti, e se non
facevi l’imprenditore turistico passavi per uno sfigato. Quegli imprenditori,
allora rampanti, oggi faticano a stare a galla, inseguiti da oneri di
urbanizzazione e tasse sulla spazzatura e, per di più, incattiviti dalla
spietata concorrenza cui sono costretti per sopravvivere.
La nostra
incontenibile vocazione per lo “sviluppo” ci ha fatto perdere l’opportunità di
realizzare – quando si poteva fare e i soldi c’erano – un porto adeguato alle
nostre navi e ai nostri aliscafi; qualcuno aveva infatti deciso che bisognava
privatizzare tutto per poi spremerlo come un limone, e il fatto che la limonata
se la sarebbero bevuta fuori dall’isola rappresentava un dettaglio
trascurabile.
Insomma, lo
“sviluppo” è un’aspirazione che i più ritengono sacrosanta e inalienabile, ma
può anche indurre effetti collaterali indesiderati. In forme meno rilevanti
delle precedenti, si manifestano quando fai fatica a individuare la presenza di
una spiaggia sotto folte schiere di lettini e ombrelloni; o sogni una caletta
romantica dall’acqua cristallina e, invece, vieni accolto dal “tunf-tunf” della
musica house sparata a palla e devi stare attento a non farti nebulizzare dal
tizio con la pompa; o sbarchi dall’aliscafo e ti fai strada tra una legione di
figuri, solitamente poco avvezzi all’uso di lingue straniere, che potrebbero
domandarti “zimmari?”, lasciandoti nel dubbio se stiano affittando camere o capre.
Se ne potrebbero riempire pagine intere, di effetti collaterali.
La cosa singolare è
che noi contiamo più di un milione di presenze l’anno – naturalmente, parlo di
quelle ufficiose – ma, nonostante questo, avvertiamo l’esigenza di svilupparci
ancora. Qualcosa, evidentemente, non ha funzionato. Eppure un milione di
presenze non è poco, per un paese “sottosviluppato” come il nostro. Perché si
ostinino a venire dalle nostre parti, è un mistero insondabile. Forse è gente a
cui piacciono le isole, e che magari si aspetta di trovare delle isole. Noi,
invece, amiamo travestirle da qualcosa che non sono, un po’ Rimini, un po’
rambla di Barcellona, un po’ mercatino rionale dell’altra Barcellona, quella di
Pozzo di Gotto. Mentre vendiamo souvenir da un euro ai malcapitati appena scesi
da un barcone e pronti ad essere stipati in un megabus che deve fare quattro
manovre ogni tornante, sogniamo il turismo d’élite, quello dei ricchi che portano
i soldi. Sogniamo lo “sviluppo”.
Pare che adesso sia
indispensabile fare atterrare qualcosa, per poterci finalmente sviluppare.
Pazienza se non si tratta più dell’aeroporto di Poggio dei Funghi che, con
buona pace dell’ingegnere Cincotta, è stato bocciato dall’evidenza dei fatti;
anche un’aviopista, un piccolo ultraleggero, possono restituirci l’inebriante
sensazione di rimetterci in gioco, di svoltare, di creare un futuro o, più
prosaicamente, un presente: come ha scritto qualcuno, noi dobbiamo “prendere il
volo”!
È un po’ malinconico
vedere una comunità che investe le proprie speranze su ottocento metri di terra
battuta, quando attorno a sé ha chilometri e chilometri quadrati di luoghi –
nonostante tutto – ancora meravigliosi e invidiabili. Peraltro, spesso
assolutamente ignoti a chi vive nelle loro immediate adiacenze. Forse il punto è
questo: la gente va in un’isola cercandone l’intrinseca semplicità e la
bellezza, mentre noi ci affanniamo nel tentativo di sembrare altro, perché di
semplicità e di bellezza ne abbiamo pieni gli occhi, e naturalmente le tasche.
Noi ci affacciamo dalle cave di caolino e immaginiamo campi da golf e
aviopiste; loro ci vanno perché è un posto selvaggio ed emozionante. Noi sogniamo
di vederli scendere da un ultraleggero; loro si accontenterebbero di sorbirsi
una granita senza il costante, mortifero olezzo del tombino accanto.
Certo, non possono
pretendere di essere coccolati e vezzeggiati, come si faceva una volta, quando
entrambi – visitatori e isolani – sapevano stupirsi a vicenda: i tempi sono
cambiati. Magari gli basterebbe trovare un cestino per le cartacce, una
toilette senza fare mezz’ora di fila al bar, un’isola pedonale piuttosto che un
autodromo per scooter e taxi, la galleria dell’ascensore per il Castello aperta
(e, va da sé, un ascensore funzionante), un ufficio informazioni che non sembri
l’oracolo della Pizia, un fruttivendolo che non spacci arance come se fossero
lingotti d’oro, addirittura qualche sentiero percorribile e ben segnalato; oppure
soltanto un po’ di attenzione, un sorriso spontaneo, senza fini necessariamente
commerciali. Ma noi siamo molto impegnati: siamo un paese in via di “sviluppo”.