ALLE PRESE CON LE CITTÀ E CON LA GUERRA
1. L’insediamento nelle grandi città della Sicilia
Gli anni trenta sono anni di consolidamento e di sviluppo per l’istituto. Consolidamento nella sua struttura giuridica, sviluppo nella sua presenza sul territorio e Madre Florenzia, pur non trascurando i piccoli centri, affronta le grandi città della Sicilia – Trapani, Catania e Palermo –, preparandosi così al grande salto su Roma. Ma sono anche gli anni in cui Florenzia, proprio nel giorno in cui compiva il suo sessantesimo compleanno, perdeva mamma Nunziata, che il 18 giugno 1932 era rientrata a Lipari con Nunziatina, Angelina, Maria e Giuseppe. Florenzia, che in quel periodo è impegnata ad avviare la nuova casa di Catania, va a Lipari per il funerale e si incontra con i fratelli. Oltre a Caterina, che, da quando aveva deciso di sposarsi contro la volontà della madre, non aveva ormai più rapporti con la famiglia e viveva nel New Jersey, mancava ai funerali anche don Antonino che, dopo una breve visita in Italia, era tornato a New York da diversi mesi.
La prima grande città ad avere una sede dell’istituto fu Trapani, dove era vescovo mons. Raiti, che aveva chiamato Florenzia a Lipari da New York e aveva voluto che nascesse l’istituto. È lui a volere le Suore Francescane e, il 16 novembre 1930, un piccolo gruppo, come al solito accompagnato da Florenzia, vi si reca. Alla stazione ad accogliere le suore ci sono le ragazze dell’Azione Cattolica che, informate dal vescovo, vogliono creare un rapporto di collaborazione pastorale lungo le linee di impegno che le Francescane di Lipari hanno sperimentato con successo in questi anni: insegnamento del catechismo, preparazione dei bambini alla prima comunione e cresima, sviluppo delle opere di apostolato nelle parrocchie appunto con l’Azione Cattolica delle giovani e delle sezioni minori, assistenza ai fanciulli nella messa domenicale e festiva. Inoltre, aprono l’asilo nido, il doposcuola e la scuola di ricamo. Un’attività ampia e intensa, anche se la casa scelta per adattarla a istituto, malgrado la collaborazione delle ragazze, risulta piccola, disagiata e umida, inadeguata per tutte quelle attività e, soprattutto, mancava lo spazio per una cappellina. Una casa di una povertà estrema. Comunque, non era la povertà che spaventava Florenzia, che confidava nella Provvidenza e sapeva trasmettere questa incrollabile fiducia alle sue suore. E infatti, superate le difficoltà dei primi tempi, arrivarono gli aiuti. I Carmelitani offrirono un loro conventino sito di fronte alla Madonna di Trapani, dove finalmente c’era spazio sia per la vita comunitaria sia per le opere. La scuola di ricamo e l’asilo hanno un buon successo e a settembre si apre una scuola di taglio e cucito, grazie al contributo di suor Agnese. Nel conventino prende avvio anche un orfanotrofio che accoglie le prime tre orfanelle ed è sovvenzionato, inizialmente, da famiglie benestanti che costituiscono l’associazione “pane di S. Antonio” impegnandosi a un’offerta mensile. Via via che gli orfanelli crescevano di numero, non bastarono più le donazioni volontarie e si stipularono convenzioni con il Consorzio provinciale e altri enti. E non bastava più nemmeno il conventino. Nell’arco di sei anni, l’istituto cambiò sede tre volte finché nel 1936 si acquistò una struttura con annesso giardino, in via del Mercato, dove poterono svilupparsi liberamente tutte le opere avviate.
Catania primi del secolo
Dopo Trapani, fu la volta di Catania. Era da tempo che Florenzia raccoglieva le confidenze e le preoccupazioni di tante giovani che da Acireale e dalla provincia dovevano andare a Catania a studiare e, lontane dalle famiglie, non sapevano dove alloggiare. Sarebbe stato necessario un pensionato per studentesse fuori sede. Così un giorno decide di andare dal vescovo di Catania, mons. Patané, e di esporgli il suo progetto. Il vescovo fu felice dell’iniziativa e promise il suo appoggio.
Si trovò una casa sufficientemente ampia e ci si mise subito alla ricerca di fondi per prenderla in affitto e arredarla. Gli aiuti non mancarono e, il 15 settembre 1933, tutto era pronto per avviare l’esperienza, anche se in quello delle suore la povertà vi regnava sovrana. Florenzia rimase a Catania nel pensionato fino a quando la fondazione non fu bene avviata, collaborando con le altre cinque suore. Faceva di tutto e appariva instancabile. Andava alla ricerca di contributi e donazioni, usciva con un’altra suora per fare la spesa e le compere in genere, era pronta a supplire la suora portinaia, ad aiutare in cucina, a pulire la verdura, a rigovernare le stoviglie. Si dedicava ai capi di biancheria che rimanevano nel comune cestino di lavoro, perché le suore non riuscivano a dedicarvi tempo e passava la ricreazione a sferruzzare e rammendare. Intanto, al Pensionato affluivano molte studentesse e presto la casa divenne insufficiente e, se non si volevano respingere tante nuove richieste, occorreva trovare una sede più grande prima che iniziasse il nuovo anno scolastico. Inoltre, arrivavano richieste anche da parte di persone anziane e Florenzia era ben decisa ad accoglierle. Così, in compagnia di due altre suore, sotto il sole cocente di luglio andò in cerca di un edificio più adeguato. Quando questo fu finalmente trovato, si stipulò il contratto di acquisto e ai problemi e alle ristrettezze dell’anno precedente se ne aggiungono di nuovi perché la casa da arredare era ora più grande. Anche questa era in affitto, ma più tardi, con la solidarietà delle altre case della congregazione, si riuscì ad acquistarla e ad ampliarla.
Sul finire del decennio, nel luglio del 1939, Florenzia ritiene che sia giunto il momento di andare a Palermo per aprire anche lì una casa. Il successo di Catania le indica la strada da seguire in una grande città qual è Palermo: un pensionato per studentesse e giovani impiegate senza dimenticare le anziane che hanno bisogno di assistenza e conforto. Il giorno della partenza da Catania uno stuolo di apparecchi volteggia sulla città. È un’esercitazione militare che preoccupa e allarma la suora che l’accompagna, perché collega questo evento alle notizie che circolano su una possibile guerra che si prepara. Ma Florenzia è imperturbabile. Palermo è un obiettivo importante nel percorso dell’istituto che ha in mente e coltiva nel suo cuore. Importante non solo perché è la città più grande della Sicilia, la sua capitale storica, ma perché da qualche tempo va riflettendo sulle povertà che si sviluppano soprattutto nelle grandi città, che non sono solo le povertà tradizionali di chi ha problemi di sopravvivenza e non sa come arrivare al giorno dopo, ma anche di chi vive nell’agiatezza e qualche volta nella ricchezza, ma è privo di valori che gli diano significato all’esistenza. E questa povertà colpisce in particolare i giovani, figli di famiglie borghesi.
Sotto questo punto di vista, Palermo è il posto ideale per approfondire questa idea – già sperimentata a Catania – giacché sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento una nuova classe dirigente aveva fatto vivere alla città il sogno dell’industrializzazione e della rinascita commerciale. E anche se, dopo la prima guerra mondiale, questi sogni si erano raffreddati, le aspettative non erano però domate.
A Palermo, le due suore, appena giunte, vanno ad alloggiare dalle suore del Sacro Cuore in attesa di trovare una sede adeguata per la loro iniziativa. E così, ancora una volta, sotto il sole di luglio, Florenzia, sempre sofferente alle gambe, gira, in compagnia della consorella, per le afose strade della città alla ricerca di una struttura idonea. E dopo un mese di buchi nell’acqua, finalmente ecco una bella villa disabitata del Principe Gravina di Castelforte. Non centralissima, ma a un paio di centinaia di metri da viale della Libertà e. quindi. collocata nella parte più borghese della città, più facilmente accessibile dalle famiglie della cosiddetta buona società. Un’altra impresa fu quella di riuscire a parlare al Principe di persona, ma la tenacia di Florenzia alla fine l’ebbe vinta e ottenne di avere in affitto una parte del pianterreno, del primo piano e del giardino.
Ora finalmente poteva andare dall’arcivescovo a chiedere il permesso per avviare l’attività. L’arcivescovo era il cardinale Lavitrano che già conosceva Florenzia e anche le traversie del suo istituto al tempo in cui essa era alle prese con mons. Ballo che voleva chiudere la congregazione. Il cardinale fu ben contento di concedere il permesso e così, a tempo di record, si stipulò il contratto, si mise mano a ripulire l’edificio e si preparò, in una stanza, la cappella.
Il primo settembre tutto fu pronto per l’inaugurazione, con la benedizione del cardinale, per accogliere le pensionate. Come al solito, le camerette dedicate alle suore erano piuttosto spoglie, anzi, siccome arrivarono più pensionate di quante se ne aspettassero, si dovettero utilizzare anche i loro materassi e, come altre volte era accaduto, esse si adattarono per qualche tempo a dormire per terra in serena e francescana letizia, allietate dai canti di tre studentesse venute dalla Sardegna che furono le loro prime ospiti.
2. Problemi interni
Gli anni trenta, se furono indubbiamente anni di crescita, non furono però anni privi di problemi, fra cui alcuni molto insidiosi come, ad esempio, il “caso Gusmano”.
Suor Giuseppina Gusmano, al secolo Rosalìa, era di Cesarò, un piccolo paesino sui Monti Nebrodi in provincia di Messina. La vicenda di Rosalìa è legata all’eredità familiare. La ragazza, fattasi suora, entra in istituto e, siccome la famiglia è benestante, porta con sé una dote di 15 mila lire versate dal padre. Morto il padre, a Rosalìa dovrebbe spettare la sua quota di eredità, ma il fratello eccepisce che la quota di eredità della sorella era già contenuta nella dote pagata dal padre e, quindi, niente più è dovuto a lei e, per lei, all’istituto. Non è la prima volta che Florenzia si trova di fronte a un problema del genere. Già qualche anno prima, le era capitata una vicenda simile con una suora di Lipari e sa come le famiglie in Sicilia siano gelose della proprietà e cercano di difenderla contro chiunque sia, anche un istituto religioso, e per questo non temono di mettere in croce la loro figlia che rimane divisa fra la fedeltà alla famiglia d’origine e la fedeltà ai voti e alla famiglia religiosa. Ma la Madre, a Lipari come ad Acireale, è decisa a difendere i diritti dell’istituto. Ed è ciò che ricorda a suor Giuseppina, quando questa confessa che non sa e non intende resistere alle pretese del fratello. Di fronte alla posizione della giovane, proprio Florenzia, che era sempre stata comprensiva con le famiglie in difficoltà economica rassicurando le postulanti che della dote non c’era bisogno, qui si irrigidisce.
– Suor Giuseppina, noi siamo suore e abbiamo il sacrosanto obbligo di tutelare l’interesse della famiglia francescana, a cui ci legano vincoli santi ed eterni più di quelli della famiglia naturale.
– Non me la sento, Madre, di mettermi in lite con mio fratello Prospero. È la mia famiglia…
– Ora questa è la tua famiglia, se sei convinta della tua vocazione. Altrimenti puoi tornare a casa prima di emettere i voti perpetui.
Qualche giorno dopo, Rosalìa torna a casa accompagnata da due suore. È affranta e sconsolata e il fratello, prendendo le sue difese, informa le suore che l’accompagnano che avrebbe scritto un esposto al vescovo.
Infatti, qualche tempo dopo, giunge alla curia l’esposto in cui Prospero Gusmano chiede la restituzione della dote di 15 mila lire, visto che l’istituto aveva rimandato a casa la sorella. E per di più afferma che la sorella sarebbe stata esposta a tutta una serie di vessazioni e punizioni per cercare di convincerla ad agire in tribunale contro di lui. Vessazioni e punizioni così dure che la poveretta avrebbe persino tentato il suicidio e ne sarebbe morta, se non fosse stato per l’intervento di due consorelle.
Non ci vogliono molte parole a Florenzia per spiegare al vescovo come stia la situazione e, d’altronde, il vescovo conosce la sensibilità e lo scrupolo della suora. E bene, però, chiudere questa vicenda senza strascichi pubblici e così la curia, con l’accordo di Florenzia, invita Prospero Gusmano a recarsi in convento a ritirare le 15 mila lire.
Ma Florenzia non doveva curarsi solo delle proprie suore, ma guardarsi anche dalle attenzioni e dalle mire relative al piccolo istituto, che nascevano in alcuni ambienti ecclesiastici non sempre disinteressati.
Per fortuna, si trattava di episodi sporadici e subito cancellati da eventi di altra natura e di altro spessore, come quello che accade nella casa di Petralìa Sottana il 2 agosto 1932. Qui le suore divennero spettatrici di un grande prodigio, la miracolosa guarigione di una suora, suor Santa, colpita da paralisi spastica al braccio sinistro, sordità anche se lieve, grave atonia intestinale sin dall’anno precedente.
Quando le morì la madre, non avendo chi l’assistesse, suor Santa fu sistemata nella casa delle Suore Francescane, in una stanzetta di passaggio, e tutti a turno l’assistevano, la curavano e la confortavano di notte e di giorno, malgrado il loro lavoro. Era immobile nel letto, lo stomaco la tormentava perché era come una massa dura e in più era divenuta muta. Un giorno la suora viene a sapere che le ragazze dell’Azione Cattolica sarebbero andate a Lourdes e insisteva per unirsi a loro per chiedere la grazia della guarigione. Ma era un’aspirazione impossibile perché era nell’impossibilità di muoversi. Così l’arciprete, che passava con lei ore per confessarla, la convinse a scrivere una lettera alla Madonna. Lo fece e la lettera fu portata al Santuario dalle pellegrine. La notte del primo agosto, giorno in cui il pellegrinaggio giungeva ai piedi della Grotta, suor Santa sognò di trovarsi proprio a Lourdes, assieme ai pellegrini e, dal suo letto, si unì con voce chiara e distinta al loro canto. L’orfanella, che dormiva nella stanza attigua, fu svegliata da questo canto e non riflettendo, nell’assopimento, che una muta non poteva cantare, pensò che la suora sognasse e si riaddormentò. Anche suor Santa si svegliò al suono della propria voce, ripensò al sogno e si accorse che era completamente guarita. Parlava, lo stomaco era tornato normale e si muoveva senza difficoltà. Avrebbe voluto alzarsi, gridare di gioia e suonare la campana, ma, essendo ancora notte, temette di spaventare suore e orfanelle e così rimase a letto piangendo e ringraziando la Madonna. L’indomani, prima della comunione, la superiora andò a visitarla come al solito. Ma, invece della solita scena di muto dolore, si sentì salutare “Sia lodato Gesù Cristo” e vide suor Santa alzarsi con facilità e parlare speditamente. Si vestì da sola e, accompagnata da tutta la comunità – bambine, educande e suore commosse e piangenti di gioia –, si recò nella cappellina a ringraziare la Madonna. La notizia si sparse nel paese e fu un continuo via vai di persone che, meravigliate, volevano constatare il miracolo.
3. La casa dei bambini di Stromboli
L’impegno nelle grandi città non fa dimenticare l’attenzione per i piccoli centri che rimangono comunque quelli più congeniali alla congregazione. Negli anni che vanno dal 1935 alla fine della guerra, sono cinque le case che nascono per affrontare i problemi dei ceti più popolari, come ad Adrano in provincia di Catania, a Giarratana nella diocesi di Noto, a Pettineo in provincia di Messina e diocesi di Patti o addirittura in zone di vera e propria missione, come nel caso di Stromboli e Bosco di Rosarno.
L’esperienza nell’isola di Stromboli ha inizio il 26 giugno 1938. Si trattava di dare vita a una “Casa dei bambini”, intitolata al “Principe di Napoli”, e voluta dall’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia. Stromboli oggi è una delle mete più ambite dai turisti che, oltre alla bellezza dei paesaggi, amano i fenomeni della natura. Ma in quegli anni il vulcano, più che un’attrazione turistica, era una fonte di preoccupazione e spesso anche di paura. Nel 1938 erano ancora scolpiti negli occhi degli abitanti i fatti dell’11 settembre 1930, quando un’attività esplosiva con lancio di massi e fuoriuscita di gas e cenere rovente provocò sei morti e una ventina di feriti.
Quando arrivarono le suore, oltre alle preoccupazioni delle eruzioni e al continuo lavorìo del vulcano, che giorno e notte sputava fuoco dalla bocca accompagnato con brontolii e botti, alla lunga logoranti per chi non vi era abituato, vi era la sensazione di essere agli estremi confini dell’universo, giacché intorno a questo cono vulcanico pressoché brullo, il mare – osservato dall’abitato di San Vincenzo – si stendeva libero a vista d’occhio. La sterssa zona di San Vincenzo era un agglomerato di case sparse, la maggior parte delle quali si raggruppava in prossimità della chiesa su un pendio ai piedi del cono che degrada fino alla riva. Lontano della riva, su una piccola altura, sorgeva la chiesa. Un’altra chiesa, quella di San Bartolomeo, era a nord est del paesino, nel punto abitato più vicino alla Sciara del Fuoco, e non a caso il più colpito dalle manifestazioni vulcaniche del 1930. La popolazione, che, malgrado le fughe dopo l’eruzione del 1930, contava ancora più di mille abitanti, era composta per lo più da uomini di mare imbarcati su navigli dell’isola, dediti alla pesca, o anche su navi operanti nel campo del commercio, mentre la coltivazione dei campi era quasi esclusivamente praticata dalle donne.
I bambini, per i quali la casa veniva istituita, vivevano allo stato selvaggio e avevano persino difficoltà nel parlare. Infatti, le suore erano dovute andare nell’isola due mesi prima per preparare la cerimonia di inaugurazione che prevedeva inni, canti, poesie, dialoghi e una simbolica offerta di fiori. E, malgrado due mesi di impegno continuato, insegnare a quei bambini a recitare fu una vera e propria impresa.
A Stromboli le suore operarono nelle due parrocchie San Vincenzo e San Bartolomeo, insegnando catechismo, dirigendo le giovani di Azione Cattolica e occupandosi di tutte le iniziative parrocchiali. Grazie alla loro presenza, le mamme andavano a lavorare in campagna tranquille sapendo di lasciare i loro i figli in mani sicure. Inoltre, le suore erano per gli abitanti un riferimento per un consiglio e per un conforto e furono diverse le ragazze che manifestarono la volontà di seguirle nella vocazione. In particolare, va ricordata la vicenda di Assunta Cincotta, divenuta, in religione, suor Maria Grazia.
Assunta voleva entrare in convento, ma la madre non era di questo avviso e si ostinava nel diniego, così la giovane, un giorno, a tarda sera, lasciò la casa e, all’insaputa dei suoi familiari, andò a nascondersi sul vapore per partire l’indomani all’alba alla volta di Lipari e raggiungere così l’istituto delle Suore Francescane. Da qui, il passo successivo fu la strada per Acireale dov’era la casa del noviziato. La reazione della mamma fu durissima: per diversi anni non volle scrivere un rigo alla figlia suora.
Il successo dell’azione pastorale si pagava, però, a caro prezzo. Le suore vivevano in continua apprensione e tensione. Le scosse di terremoto, gli scoppi del vulcano influivano sul loro fisico sino a farle cadere ammalate, per cui sovente occorreva sostituirle. Vivevano in uno stato di stress permanente continuo: quante volte nel giorno e nella notte sussultavano per un improvviso movimento della terra e, quindi, per lo spalancarsi di porte e finestre causato da spostamenti d’aria. E non si trattava solo di semplici preoccupazioni. Un giorno, mentre si trovavano in chiesa, vi fu una forte scossa tellurica e una grossa pietra si staccò dal soffitto, sfiorò la testa di una suora e le cadde ai piedi lasciandola miracolosamente illesa.
Così, quando i fenomeni vulcanici divennero più intensi, Florenzia decise di concludere l’esperienza: la missione aveva operato per ben dodici anni. La casa si chiuse il 15 agosto 1950 e in quell’anno anche uno dei parroci e la maggior parte della popolazione emigrarono in Australia.
Stromboli, il lungomare (fine anni 70)
L’impegno nelle grandi città non fa dimenticare l’attenzione per i piccoli centri che rimangono comunque quelli più congeniali alla congregazione. Negli anni che vanno dal 1935 alla fine della guerra, sono cinque le case che nascono per affrontare i problemi dei ceti più popolari, come ad Adrano in provincia di Catania, a Giarratana nella diocesi di Noto, a Pettineo in provincia di Messina e diocesi di Patti o addirittura in zone di vera e propria missione, come nel caso di Stromboli e Bosco di Rosarno.
L’esperienza nell’isola di Stromboli ha inizio il 26 giugno 1938. Si trattava di dare vita a una “Casa dei bambini”, intitolata al “Principe di Napoli”, e voluta dall’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia. Stromboli oggi è una delle mete più ambite dai turisti che, oltre alla bellezza dei paesaggi, amano i fenomeni della natura. Ma in quegli anni il vulcano, più che un’attrazione turistica, era una fonte di preoccupazione e spesso anche di paura. Nel 1938 erano ancora scolpiti negli occhi degli abitanti i fatti dell’11 settembre 1930, quando un’attività esplosiva con lancio di massi e fuoriuscita di gas e cenere rovente provocò sei morti e una ventina di feriti.
Quando arrivarono le suore, oltre alle preoccupazioni delle eruzioni e al continuo lavorìo del vulcano, che giorno e notte sputava fuoco dalla bocca accompagnato con brontolii e botti, alla lunga logoranti per chi non vi era abituato, vi era la sensazione di essere agli estremi confini dell’universo, giacché intorno a questo cono vulcanico pressoché brullo, il mare – osservato dall’abitato di San Vincenzo – si stendeva libero a vista d’occhio. La sterssa zona di San Vincenzo era un agglomerato di case sparse, la maggior parte delle quali si raggruppava in prossimità della chiesa su un pendio ai piedi del cono che degrada fino alla riva. Lontano della riva, su una piccola altura, sorgeva la chiesa. Un’altra chiesa, quella di San Bartolomeo, era a nord est del paesino, nel punto abitato più vicino alla Sciara del Fuoco, e non a caso il più colpito dalle manifestazioni vulcaniche del 1930. La popolazione, che, malgrado le fughe dopo l’eruzione del 1930, contava ancora più di mille abitanti, era composta per lo più da uomini di mare imbarcati su navigli dell’isola, dediti alla pesca, o anche su navi operanti nel campo del commercio, mentre la coltivazione dei campi era quasi esclusivamente praticata dalle donne.
I bambini, per i quali la casa veniva istituita, vivevano allo stato selvaggio e avevano persino difficoltà nel parlare. Infatti, le suore erano dovute andare nell’isola due mesi prima per preparare la cerimonia di inaugurazione che prevedeva inni, canti, poesie, dialoghi e una simbolica offerta di fiori. E, malgrado due mesi di impegno continuato, insegnare a quei bambini a recitare fu una vera e propria impresa.
A Stromboli le suore operarono nelle due parrocchie San Vincenzo e San Bartolomeo, insegnando catechismo, dirigendo le giovani di Azione Cattolica e occupandosi di tutte le iniziative parrocchiali. Grazie alla loro presenza, le mamme andavano a lavorare in campagna tranquille sapendo di lasciare i loro i figli in mani sicure. Inoltre, le suore erano per gli abitanti un riferimento per un consiglio e per un conforto e furono diverse le ragazze che manifestarono la volontà di seguirle nella vocazione. In particolare, va ricordata la vicenda di Assunta Cincotta, divenuta, in religione, suor Maria Grazia.
Assunta voleva entrare in convento, ma la madre non era di questo avviso e si ostinava nel diniego, così la giovane, un giorno, a tarda sera, lasciò la casa e, all’insaputa dei suoi familiari, andò a nascondersi sul vapore per partire l’indomani all’alba alla volta di Lipari e raggiungere così l’istituto delle Suore Francescane. Da qui, il passo successivo fu la strada per Acireale dov’era la casa del noviziato. La reazione della mamma fu durissima: per diversi anni non volle scrivere un rigo alla figlia suora.
Il successo dell’azione pastorale si pagava, però, a caro prezzo. Le suore vivevano in continua apprensione e tensione. Le scosse di terremoto, gli scoppi del vulcano influivano sul loro fisico sino a farle cadere ammalate, per cui sovente occorreva sostituirle. Vivevano in uno stato di stress permanente continuo: quante volte nel giorno e nella notte sussultavano per un improvviso movimento della terra e, quindi, per lo spalancarsi di porte e finestre causato da spostamenti d’aria. E non si trattava solo di semplici preoccupazioni. Un giorno, mentre si trovavano in chiesa, vi fu una forte scossa tellurica e una grossa pietra si staccò dal soffitto, sfiorò la testa di una suora e le cadde ai piedi lasciandola miracolosamente illesa.
Così, quando i fenomeni vulcanici divennero più intensi, Florenzia decise di concludere l’esperienza: la missione aveva operato per ben dodici anni. La casa si chiuse il 15 agosto 1950 e in quell’anno anche uno dei parroci e la maggior parte della popolazione emigrarono in Australia.
4. La casa di Rosarno
Se aprire una casa per i bambini a Stromboli era un’impresa temeraria in quei tempi, non meno lo era quella di aprire una casa a Bosco di Rosarno, in Calabria, una zona famigerata perché nell’Ottocento era stata rifugio del brigantaggio filoborbonico approfittando delle paludi. Ora da diversi decenni era oggetto di un’intensa opera di bonifica che aveva valorizzato l’agricoltura, ma sempre con gravissimi problemi dal punto di vista dell’integrazione sociale. L’aggettivo che meglio qualificava questa località era <<selvaggio>> e per cancellarlo occorreva una significativa opera di redenzione sociale, di bonifica umana, perché era abitata da una popolazione di agricoltori inaspriti dall’isolamento e dall’abbandono.
Il problema se l’era posto il marchese Luigi Nunziante che era di Rosarno e aveva grandi proprietà nei dintorni. Il marchese era presidente di quell’Associazione che aveva patrocinato la Casa per i bambini a Stromboli e, quindi, conosceva Florenzia e le sue suore. Ancora di più l’ascesa sociale della famiglia del marchese era fortemente legata alle Eolie, perché un suo avo era quel Vito Nunziante che nei primi anni dell’Ottocento comandava la guarnigione di Milazzo e, abbandonati i Borboni, divenne un importante imprenditore che impiantò a Vulcano una fabbrica per l’estrazione e purificazione dello zolfo e altri minerali.
Ora, nel maggio del 1942, in piena guerra, il marchese Luigi invita la Suore Francescane di Lipari a occuparsi della direzione di un asilo infantile da realizzare proprio a “Bosco”. Contattata Florenzia, questa accetta. L’impresa è impegnativa e molto difficile, ma le sembra anche un passo sulla strada di Roma che è il suo grande obiettivo. Anche qui la Madre volle accompagnare le suore nell’avvio del loro lavoro e rimase con loro circa un mese, finché non fu sicura che tutto procedesse come previsto e che il centro avesse spazio per l’asilo, ma anche per l’istituto a cominciare dalla cappella e, quindi, per tutte le attività religiose e sociali che nel tempo si sarebbero sviluppate. Malgrado l’isolamento della zona e la miseria di chi l’abitava, il centro le appariva una vera “oasi di pace” immersa fra gli olivi. Era di recente costruzione e, sulla parte destra, vi era l’asilo, la casa delle suore e la cappella, mentre sul lato sinistro si trovava uno “stanzone” in cui veniva organizzata la mensa per i figli dei contadini; nell’atrio, invece, veniva attivato in alcuni giorni della settimana il laboratorio di ricamo.
Ma se Bosco e il centro appariva un luogo di pace per Florenzia, non lo era per chi, molto più giovane, soffriva per l’isolamento.
– Madre, col suo permesso – andò a confidarsi suor Agatina, che era maestra d’asilo e, quindi, una figura importante per il lavoro in quella zona – io non me la sento di rimanere qui. Sono ancora giovane, ho accettato – facendo la suora – una vita di sacrifici, ma qui si prospetta una vita solitaria e triste.
– Ma presto questo luogo sarà animato da centinaia di bambini che verranno a scuola e al catechismo, da tante giovani che impareranno taglio e cucito, da tanti uomini e donne che frequenteranno la chiesa che si costruirà e le attività pastorali. Questo isolamento è questione di poche settimane e penso che poi rimpiangerete questa tranquillità.
Ma Agatina era determinata e resisteva ai ragionamenti di Florenzia e anche a quelli delle altre due consorelle. Così la Madre pensò che nell’atteggiamento della giovane ci fosse molto di più che una repulsione verso quella località e, a un certo punto, non insistette oltre.
– Va bene, suor Agatina, vuol dire che te ne tornerai con me ad Acireale e qui manderemo un’altra consorella.
E così fu. Suor Agatina tornò con Florenzia e ottenne di andare in vacanza dai genitori. Poi, dopo qualche tempo, come Florenzia aveva intuito, comunicò che non sarebbe più tornata in istituto, perché sentiva di non avere più la vocazione.
Comunque, nelle settimane successive, il centro prese a funzionare. Si inaugurò prima la cappella con una grande partecipazione di popolo e autorità e il mese dopo aprì l’asilo. Il suono della campana, che la domenica si diffondeva per la piana e annunziava la messa, fu un importante segno di novità e, richiamati da questo suono, si formava una lunga fila che si snodava per i campi. Erano ragazzi, padri e madri di famiglia, vecchi che avanzavano, appoggiandosi al bastone, affrontavano una lunga strada a piedi, sfidando la polvere e il fango, sotto il sole cocente o la pioggia, per raggiungere la chiesetta improvvisata preso i locali dell’asilo e dell’istituto. Era gente che manifestava una grande fede, ma anche una forte ignoranza religiosa, perché per molti era la prima volta che assistevano a una funzione religiosa. Così le suore iniziarono la scuola di catechismo per i grandi e per i piccoli con una notevole partecipazione di gente desiderosa di ascoltare e di apprendere, anche perché quello organizzato dalle suore era nella zona l’unico punto di aggregazione.
Fu tale l’affluire della popolazione per l’istruzione catechistica che, il 15 novembre, ben 200 bambini, giovani e adulti ricevettero la prima comunione e la cresima. Fra le altre iniziative religiose le suore introdussero, in preparazione della Pasqua, anche la predicazione degli esercizi spirituali e così, per quindici giorni, la cappella era gremita da tanta gente che, sfidando l’oscurità, il freddo e la lontananza, li frequentava assiduamente. Alle confessioni e alle comunioni per la Pasqua partecipavano in moltissimi e si trattava di uomini e donne, che da più di quindici anni non si accostavano ai sacramenti.
Oltre all’apostolato, le suore si dedicarono anche alla carità: visitavano ammalati, curavano piaghe, consolavano gli afflitti, si interessavano di ogni necessità, assistevano i moribondi. Con una cassetta di pronto soccorso, offerta dall’ufficio dell’INAIL di Reggio Calabria, si trasformavano in infermiere per medicare ferite e curare malattie ricevendo la gente all’asilo o girando per le loro abitazioni. Quante volte, anche di notte, con la pioggia e il vento, venivano chiamate per recarsi al capezzale di qualche agonizzante. Già l’anno dopo, il 1° maggio 1943, si apriva la scuola di taglio e cucito per le ragazze e, a distanza di poco tempo, sorse anche la scuola rurale frequentata da un buon numero di alunni. Le ragazze del laboratorio, una cinquantina, assieme al taglio e al cucito e al ricamo, imparavano ad affrontare anche i problemi della vita.
E così, in poco tempo, la popolazione, grazie all’operato delle suore, era cambiata. Si notava una nuova consapevolezza non solo religiosa, ma anche civile soprattutto fra le famiglie che più frequentavano le iniziative. I piccoli dell’asilo, numerosissimi, erano forse i più entusiasti, avevano imparato le preghiere, e rappresentavano un collegamento forte con le famiglie portando nelle loro case, pagliai, capanne, quanto imparavano dalle suore. In quel Bosco le suore facevano anche da parroco come constatava il vescovo di Mileto, quando era chiamato per le prime comunioni e le cresime. Molte volte – per mancanza di un sacerdote che celebrasse – la funzione diveniva una liturgia della Parola animata dalle suore che, oltre a leggere il Vangelo e commentarlo, suonavano l’armonium intonando qualche canto religioso. Facevano da parroco, ma anche da centro sociale e di assistenza come dovunque, d’altronde, dove erano chiamate a operare. Ma qui, nell’assenza di ogni struttura, la loro azione emergeva con maggiore evidenza.
5. Dentro la guerra mondiale
La guerra, di cui da qualche tempo si parlava, giunge per l’Italia il 10 giugno 1940. E con la guerra i bombardamenti, lo sfollamento, il razionamento dei viveri, il mercato nero, ecc. Sono problemi che più o meno investono tutte le realtà dove operano le suore e incidono in maniera notevole sulla loro esperienza. Infatti, questa volta, a differenza di quella del 1915-18, la guerra non è un fatto lontano. Ora è in casa e l’esperienza che se ne fa è diretta e immediata. Inoltre, man mano che la guerra procede, le vie di comunicazione fra le città si interrompono e anche le notizie arrivano con sempre maggiore difficoltà. Florenzia, che è ad Acireale, riesce a fare qualche visita alle case nelle vicinanze, come Catania, Adrano, Lipari, ma le altre non può che seguirle col pensiero e la preghiera ascoltando le poche informazioni e, spesso, distorte dalla censura, che circolano attraverso la radio e giornali, ma ancor più tramite il tam-tam della gente.
Dal 1940 sino alla fine del 1942, le operazioni belliche in Sicilia e in Calabria sono mirate soprattutto a obiettivi strategici, a cominciar dai porti, dagli aeroporti, dai nodi ferroviari più importanti. Questo vuol dire, però, che Palermo, Catania, Messina, Trapani, Reggio Calabria sono località che si trovano ripetutamente, in quegli anni, negli obiettivi dell’aviazione militare inglese. Ma, in genere, è una fase dove i disagi sono abbastanza sopportabili e “sfollano” solo i cittadini più danarosi.
Ciò che, a partire dall’autunno del 1941, comincia a preoccupare più di ogni altra cosa è la fame. Il razionamento dei generi alimentari, attraverso il sistema delle tessere annonarie, che consentono di acquistare a prezzo calmierato quantità variamente contingentate di prodotti, diventa sempre più esteso e rigido.
Trapani ha il triste privilegio di avere, il 22 giugno 1940, uno dei primi bombardamenti della Sicilia e subito le suore ne sono coinvolte. Quando si scatena il finimondo, due di loro con 18 bambini non hanno altro scampo che rifugiarsi sotto il loggiato del palazzo delle Poste. Le bombe colpirono le case intorno e le ridussero in rovina, ma le suore e i bambini si salvarono.
A Catania i bombardamenti arrivano il 5 luglio. Insieme alle bombe arrivò anche un clima di sospetto, il razionamento con le tessere annonarie, l’oscuramento dopo il tramonto, e fu ordinata la rimozione dei cancelli di ferro per donare il “ferro alla patria”. Proprio a Catania durante la guerra si verificò un fatto straordinario che vede Florenzia come protagonista. Nel pensionato presso la casa delle suore era andata ad abitare Maria, una giovane donna rimasta sola perché Gino, il marito, era stato richiamato sotto le armi. Era parecchio tempo che la giovane non riceveva sue notizie ed era molto preoccupata. Passava così la giornata pregando e piangendo. Florenzia in quel periodo era a Catania e provava molta pena per questa giovane e cercava di consolarla come poteva quando essa le si confidava. Un giorno Maria le chiese quasi a bruciapelo:
– Madre, tornerà Gino?
– Non si preoccupi, suo marito tornerà.
Fu la risposta decisa della suora che proprio in quel momento aveva sentito la <<sua>> voce rassicurarla. Passavano le settimane e del marito non si aveva notizia. Poi, improvvisamente venne comunicato che Gino era morto. Maria era disperata, ma Florenzia non aveva alcun dubbio e la confortava.
– Maria, abbia fede, Gino tornerà. Preghi la Madonna.
Passarono due lunghi anni dall’armistizio durante i quali la povera Maria continuava a pregare e a piangere e, improvvisamente, un giorno Gino ricomparve sano e salvo.
A Palermo, quando scoppiò la guerra, anche se era un continuo susseguirsi di bombardamenti, la città non subì particolari danni al patrimonio edilizio e monumentale e anche l’istituto sembrava non risentirne. Le ospiti si facevano sempre più numerose e le suore – che erano impegnate sul fronte della carità – cercavano di non far mancare loro il necessario, anche se la vita diveniva ogni giorno più difficile. Palermo, in guerra, per le difficoltà di approvvigionamento soffriva dello svilupparsi di un “mercato nero” che, inoltre, non era a tutti accessibile. Nell’autunno del 1941 venne introdotta la tessera del pane. Intanto, crescevano i bombardamenti e con essi aumentava lo sfollamento. Chi poteva si trasferiva nelle campagne, chi non poteva – ed era la maggior parte – sia perché non aveva dove andare, sia perché era trattenuto in città da obblighi di lavoro, sfollava solo di notte e il mattino tornava a Palermo. Si faceva così l’esperienza collettiva di un esodo quotidiano e di una realtà di vita precaria sotto l’aspetto psicologico, oltre che materiale.
Poi la guerra divenne più presente e insidiosa. Da gennaio a giugno del 1943, le forze alleate sferrarono una serie di attacchi che causarono gravissimi danni al tessuto edificato della città. A questo punto anche le suore furono costrette a sfollare e si rifugiarono nella casa di Petralìa Sottana con un buon numero di pensionanti, che vollero seguirle. Ma a Petralìa rimasero solo pochi mesi, perché a Palermo derubavano tutte le case chiuse.
Così, lo stesso ottobre decisero di tornare e trovarono la casa risparmiata dalle bombe, ma completamente svuotata dei mobili e delle attrezzature del pensionato. Si erano salvate solo la biancheria, i letti e i materassi delle suore che erano contenute in una stanzetta rimasta sprangata per uno spostamento d’aria durante i bombardamenti. A Palermo trovarono anche che in quei pochi mesi le condizioni di vita erano diventate ancora più dure. Una Palermo della fame e della miseria, in cui proliferava il sopruso anche da parte di chi avrebbe dovuto rappresentare e fare rispettare l’ordine. Mesi e mesi difficili che, però, le suore riescono a fronteggiare e superare.
La notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 si ha lo sbarco in Sicilia. In soli dieci giorni le truppe americane e britanniche conquistano due terzi dell’Isola. Palermo subisce pesanti bombardamenti e cede il 22 luglio. Anche Catania, dal 15 in avanti, subì attacchi da tutti i fronti e anche qui arrivò la fame. Per settimane mancò il pane e per nutrirsi si ricorse al mercato nero, anche le persone più abbienti si trasformarono in scassinatori, la solidarietà era ormai svanita, i saccheggi aumentarono. II 5 agosto anche Catania è liberata. Il 25 luglio si era dimesso da capo del governo nazionale Benito Mussolini e vi era succeduto il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio e, l’8 settembre, il governo firmava l’armistizio con gli angloamericani e, quindi, riconosceva il governo militare in Sicilia.
Nel luglio del 1943, dopo tre anni di guerra, quando le truppe angloamericane sbarcarono in Sicilia, la condizione economica e sociale era disastrosa. Se nella campagne la vita, bene o male, si svolgeva normalmente, nelle città e nei centri vicini alle principali vie di comunicazione e di rifornimento per via dei continui bombardamenti era, invece, divenuta impossibile. Chi non aveva potuto lasciare le città viveva in condizioni di totale disagio, in rifugi malsani, lottando quotidianamente per procurarsi il cibo.
All’alba del 3 settembre 1943 gli angloamericani sbarcarono sulle coste calabresi e, in una decina di giorni, le avanguardie, senza aver incontrato particolari resistenze, entrarono a Cosenza. La Calabria era divenuta “terra di nessuno”, con i tedeschi in ritirata e le truppe di “liberazione” fiancheggiate da piccoli gruppi di soldati italiani. Lo sfascio e la confusione erano enormi.
In effetti, la popolazione non era stata investita in modo massiccio dalle operazioni belliche né l’avanzata alleata aveva provocato scontri particolarmente cruenti, lo sfollamento aveva riguardato solo gli abitanti di Reggio e degli altri centri maggiori, eppure la regione nel suo complesso appariva allo sbando.
Le suore condividono questa realtà partecipando dei rischi e dei disagi. Grazie a Dio, nessun lutto c’è da segnalare a causa della guerra. Oltre alla paura dei bombardamenti, al problema dei rifornimenti dei viveri non solo per loro, ma anche per le persone di cui avevano responsabilità negli orfanotrofi e nei pensionati, l’esperienza che rimane più impressa è quella dello sfollamento a Palermo, ad Acireale, a Catania, ad Adrano e a Trapani.
Nel 1943, la casa di Acireale, che era posizionata di fronte al mare, divenne soggetta a pericoli per i bombardamenti navali. Si trovò una casa in campagna a Dagala del Re, un paesino una quindicina di chilometri a nord di Acireale, ma abbastanza distante dalla costa. Lì si trasferirono con lo stretto necessario Florenzia e la comunità, comprese le novizie e le postulanti. Solo due suore, che spontaneamente lo chiesero, rimasero all’istituto per evitare, per quanto possibile, che si sviluppassero furti e devastazioni. Ma sotto questo aspetto le nostre suore furono fortunate perché la casa di Acireale, che si trovò coinvolta in un bombardamento navale, rimase illesa e si frantumò solo, nello spostamento d’aria, qualche vetro. Invece la case vicine e la stessa chiesa della parrocchia del Suffragio subirono danni non lievi. Comunque, in questi mesi nemmeno le campagne potevano dirsi del tutto sicure, giacché vi erano incursioni che non si limitavano più a colpire gli obiettivi militari e strategici, ma tendevano anche a creare tensione nella popolazione. Da una di queste Florenzia rimase illesa per miracolo.
Un pomeriggio le suore erano uscite per comperare dei generi alimentari e Florenzia era rimasta in casa con suor Agnese. Entrambe erano nella stanza che guardava il viale di accesso e, di tanto in tanto, andavano alla finestra per vedere se comparivano le consorelle per andare loro incontro e aiutarle. Improvvisamente la Madre udì una voce che le ordinava: “Togliti dalla finestra”. Istintivamente, senza nemmeno riflettere, Florenzia fece un balzo indietro, mentre Agnese, incuriosita dallo scatto della Madre, si avvicinò alla finestra per vedere che cosa era successo. E in quel preciso momento si sentì il rombo di un aeroplano che volava basso e una sventagliata di mitragliatrice colpì la suora. Agnese cadde a terra gridando che stava morendo. In realtà, era tutta sanguinante perché i proiettili l’avevano colpita al braccio e alla gamba. Fu immediatamente soccorsa e di quella avventura le rimasero solo delle cicatrici.
Ben diversa, invece, è l’esperienza di Rosarno. Qui, a cominciare dai primi mesi del 1943, la guerra si fa sentire con crescente intensità. Le mamme avevano paura a lasciare uscire i figli da casa per frequentare l’asilo, mentre al centro, ritenendolo più sicuro delle loro abitazioni sulla costa, viene a bussare la gente che cerca di sfuggire ai bombardamenti. Per alcuni mesi l’accoglienza sostituì praticamente tutta l’attività scolastica. Con l’armistizio dell’8 settembre finirono i bombardamenti, finì anche lo sfollamento e la gente tornò alle proprie case. Ma per le suore cominciò un periodo ancora più difficile. Improvvisamente si trovarono senza risorse perché erano troncate le comunicazioni con Roma, da dove provenivano le sovvenzioni, e senza assistenza spirituale perché non si trovava un sacerdote che si prendesse l’incarico di celebrare a Bosco la messa domenicale. Tutto diventava un problema in una regione sottosopra e privata di collegamenti pubblici. È un problema raggiungere la Prefettura per avere un sussidio; è un problema tornare a Rosarno; è un problema approvvigionarsi; è un problema trovare chi è disposto a vendere anche al mercato nero e, quindi, bisogna andare alla ricerca di cibo per paesini di montagna. Un pellegrinaggio faticoso e rischioso per delle suore, sempre camminando a piedi e chiedendo la carità di un alloggio quando si fa notte. Un pellegrinaggio che durò quattordici giorni. E un altro difficile e duro pellegrinaggio a piedi e con mezzi di fortuna fu necessario per raggiungere la curia vescovile e cercare una soluzione per un cappellano.
6. Morte di una suora
La guerra aveva risparmiato l’istituto. Nessuna suora ne era rimasta vittima, se non per qualche ferita come nel caso di Dagala, e tutto sommato anche gli edifici non avevano subìto gravi danneggiamenti. Ma qualche volta, dove non arriva la guerra, può arrivare una giornata di serena allegria.
Il 17 luglio 1944, ad Acireale è una bella giornata di sole e le suore con le postulanti allegre e festanti si recano al mare per fare il bagno e divertirsi all’aria aperta. Era quello del bagno a mare per le suore uno svago che Florenzia aveva sperimentato e praticato a Lipari e, quindi, adottato anche ad Acireale quando vi si era trasferita. Un’occasione per passare in francescana letizia qualche ora. Trovarono un punto della spiaggia comodo, tranquillo perché non vi era affollamento e così, con tanta allegria, chi sapeva nuotare si tuffò subito in acqua e chi, invece, non aveva confidenza col mare rimaneva sulla riva dove l’acqua era bassa o sulla spiaggia a giocare con la sabbia. A un tratto suor Cristina, giovane, alta, robusta, nel vigore dei suoi anni, che, pur non sapendo nuotare, fidandosi del mare tranquillo, si era allontanata dalla riva, mandò un forte grido chiedendo aiuto. Senza che se ne avvedesse, la corrente l’aveva trascinata lontano dalla spiaggia e ora era in balìa delle onde. In un primo momento nessuno si accorse di nulla, e chi vedeva suor Cristina agitare le braccia pensava che stesse salutando. Ma fu questione di qualche attimo, perché immediatamente divenne evidente il dramma che si stava accadendo. Subito si diffuse il panico. Che fare. Fra le ragazze che erano arrivate da poco al noviziato ve n’era una di Stromboli, bravissima nuotatrice. Pina, era il nome della postulante, fu chiamata a gran voce perché soccorresse suor Cristina. Pina, che era stesa al sole sulla spiaggia e non si era accorta di nulla, si tuffò e si diresse a forti bracciate verso la giovane in difficoltà. Ma, malgrado facesse ogni sforzo, non riusciva a contrastare la corrente fortissima e rischiava anch’essa di essere travolta. Quando dalla spiaggia si accorsero della situazione, cominciarono a gridare verso Pina di tornare a riva, ma la ragazza, immedesimatasi nel dramma che stava vivendo suor Cristina, voleva proseguire a ogni costo.
Le grida delle suore e delle postulanti richiamarono l’attenzione di alcuni pescatori che accorsero con una barca. Issarono a bordo la suora, la condussero sulla spiaggia e le fecero la respirazione artificiale per cercare di liberarla dell’acqua che aveva ingurgitato. Intanto sopraggiunse anche un medico. Erano per le suore che vivevano questo dramma della loro consorella momenti strazianti. Si cercava di fare ogni sforzo per strappare suor Cristina alla morte anzi... per farla riaffiorare alla vita. Florenzia, che era rimasta in casa perché non stava bene con la salute, allarmata da una prima telefonata, stava pallida, in ansia, di fronte al telefono ad aspettare notizie. A condividere la passione di Florenzia vi era suor Pia, la vicaria generale. Florenzia e suor Pia erano incollate a quel telefono che squillava ogni cinque minuti, ma non portava buone notizie. Giungevano solo i racconti dei momenti più atroci dell’agonia di suor Cristina. Poi, in una macchina, la portarono all’istituto già cadavere e così le suore, le novizie e le postulanti allibite e impietrite consideravano su come si può passare rapidamente e inconsultamente dalla vita alla morte. Una ragazza era uscita festante qualche ora prima per una giornata di gioia e tornava cadavere nella comunità.
La veglia fu ancora più atroce perché si era diffusa la voce che entro due ore avrebbe potuto riprendersi. Ma passarono le due e anche le tre ore e quel tenue filo di speranza si spezzò. Suor Pia vestì la defunta. Il viso della ragazza era ancora roseo e bello, con le labbra atteggiate a un sorriso, ma il suo cuore non batteva più.
(Settima puntata. Continua 7)
Per chi volesse leggere le puntate precedenti:
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