Niente più acciughe gratinate o tagliata di
tonno, anguilla in umido o risotto alla crema di scampi. Sono quasi finiti i
pesci nel mare: in dieci anni sono triplicate le specie a rischio e sono cadute
in seria difficoltà varietà nostrane come triglie, seppie e naselli. Uno
scenario che non minaccia solo il palato e l'ecosistema ma che insinua il
pericolo di un collasso economico.
Sulla "lista rossa" degli animali a rischio critico stilata dall'Unione internazionale per la conservazione della Natura sono 414 le specie di pesce segnate, altre 486 sono considerate minacciate, mentre 1.141 sono definite vulnerabili e 60 del tutto estinte. Tra le più in pericolo ci sono la razza e lo storione, il tonno pinna blu e la cernia atlantica, il pesce spada e la balena blu.
La colpa? Dell'impatto umano e del sovrasfruttamento dei mari. È questa almeno la conclusione a cui è giunto l'ultimo rapporto sullo stato della pesca e dell'acquacultura pubblicato dalla Fao, che analizza la situazione a partire dal 1994: secondo lo studio gran parte della responsabilità è da attribuire alla troppa pesca realizzata dalle troppe navi di troppi paesi, che ha creato un "sistema iperstressato " e "sull'orlo di un imminente collasso".
Un collasso che, a fronte dei 4,36 milioni di pescherecci che tirano su ogni anno 90 milioni di tonnellate di pesce fresco, per un valore di 100 miliardi di dollari, promette di essere economico prima che biologico: "Le scorte di pesce -
ha spiegato Richard Grainger, capo dell'ufficio studi statistici della
Fao, al Financial Times - potrebbero diminuire fino al punto da non essere più
remunerativo pescarle".
Almeno un terzo delle riserve marine, infatti, sono ipersfruttate da navi con motori sempre più potenti ed ecoscandagli sempre più sofisticati, mentre il 57% sono arrivate al limite oltre il quale comincia il declino: in poche parole siamo a un passo dal superare il livello di produzione sostenibile e, se si va avanti con questo ritmo, entro il 2048 tutti gli stock commerciali potrebbero esaurirsi.
Una situazione aggravata da due circoli viziosi: da una parte l'interruzione della catena alimentare, perché la scomparsa dei pesci più piccoli si ripercuote sui più grandi che se ne cibano, dall'altra l'aumento dei prezzi causato dalla rarità di alcune specie, che ne incentiva la ricerca.
A poco sono serviti finora gli sforzi per tagliare le flotte, perché i politici sono riluttanti a decidere politiche che tagliano posti di lavoro: introdotte per esempio in Cina, dal 2008 sono state cancellate. In Europa invece entrerà in vigore nel 2014 il regolamento che introduce le quote di cattura: un sistema che però non convince il biologo marino Silvio Greco, presidente del Comitato scientifico di Slow Fish.
"È una logica che continua a favorire la pesca industriale -spiega- mentre bisognerebbe incentivare le comunità di pesca artigianale, che rappresentano le uniche realtà di sfruttamento sostenibile delle risorse ittiche e di salvaguardia degli ecosistemi marino-costieri".
Secondo lo studioso, almeno per l'Italia, un rimedio potrebbe essere quello di riadattare i consumi: "Dovremmo smettere di mangiare sempre gli stessi dieci pesci-bistecca perché quelli commestibili del mare italiano sono oltre 300", dice. "E valorizzare specie come il pesce-sciabola, lo zerro o gli occhialoni, che hanno elevate capacità di riprodursi e costano anche meno: così ovvieremmo al problema dell'importazione, visto che abbiamo un'autosufficienza annuale di soli tre mesi".
Ma non solo: "A fare la differenza potrebbe essere la creazione di un organismo terzo e sovranazionale, che a fronte della cessione di un po' di sovranità regoli le risorse". L'emergenza estiva, per ora, è soprattutto una: la scomparsa delle alici, dovuta al cambiamento climatico.
"L'abbassamento della temperatura superficiale che si è verificato nell'alto Adriatico lo scorso inverno ha provocato una moria di uova e di pesci - spiega Greco - per questo quasi non si trova un'acciuga: le aziende che le salano non sanno più dove cercarle".
Sulla "lista rossa" degli animali a rischio critico stilata dall'Unione internazionale per la conservazione della Natura sono 414 le specie di pesce segnate, altre 486 sono considerate minacciate, mentre 1.141 sono definite vulnerabili e 60 del tutto estinte. Tra le più in pericolo ci sono la razza e lo storione, il tonno pinna blu e la cernia atlantica, il pesce spada e la balena blu.
La colpa? Dell'impatto umano e del sovrasfruttamento dei mari. È questa almeno la conclusione a cui è giunto l'ultimo rapporto sullo stato della pesca e dell'acquacultura pubblicato dalla Fao, che analizza la situazione a partire dal 1994: secondo lo studio gran parte della responsabilità è da attribuire alla troppa pesca realizzata dalle troppe navi di troppi paesi, che ha creato un "sistema iperstressato " e "sull'orlo di un imminente collasso".
Un collasso che, a fronte dei 4,36 milioni di pescherecci che tirano su ogni anno 90 milioni di tonnellate di pesce fresco, per un valore di 100 miliardi di dollari, promette di essere economico prima che biologico: "Le scorte di pesce -
Almeno un terzo delle riserve marine, infatti, sono ipersfruttate da navi con motori sempre più potenti ed ecoscandagli sempre più sofisticati, mentre il 57% sono arrivate al limite oltre il quale comincia il declino: in poche parole siamo a un passo dal superare il livello di produzione sostenibile e, se si va avanti con questo ritmo, entro il 2048 tutti gli stock commerciali potrebbero esaurirsi.
Una situazione aggravata da due circoli viziosi: da una parte l'interruzione della catena alimentare, perché la scomparsa dei pesci più piccoli si ripercuote sui più grandi che se ne cibano, dall'altra l'aumento dei prezzi causato dalla rarità di alcune specie, che ne incentiva la ricerca.
A poco sono serviti finora gli sforzi per tagliare le flotte, perché i politici sono riluttanti a decidere politiche che tagliano posti di lavoro: introdotte per esempio in Cina, dal 2008 sono state cancellate. In Europa invece entrerà in vigore nel 2014 il regolamento che introduce le quote di cattura: un sistema che però non convince il biologo marino Silvio Greco, presidente del Comitato scientifico di Slow Fish.
"È una logica che continua a favorire la pesca industriale -spiega- mentre bisognerebbe incentivare le comunità di pesca artigianale, che rappresentano le uniche realtà di sfruttamento sostenibile delle risorse ittiche e di salvaguardia degli ecosistemi marino-costieri".
Secondo lo studioso, almeno per l'Italia, un rimedio potrebbe essere quello di riadattare i consumi: "Dovremmo smettere di mangiare sempre gli stessi dieci pesci-bistecca perché quelli commestibili del mare italiano sono oltre 300", dice. "E valorizzare specie come il pesce-sciabola, lo zerro o gli occhialoni, che hanno elevate capacità di riprodursi e costano anche meno: così ovvieremmo al problema dell'importazione, visto che abbiamo un'autosufficienza annuale di soli tre mesi".
Ma non solo: "A fare la differenza potrebbe essere la creazione di un organismo terzo e sovranazionale, che a fronte della cessione di un po' di sovranità regoli le risorse". L'emergenza estiva, per ora, è soprattutto una: la scomparsa delle alici, dovuta al cambiamento climatico.
"L'abbassamento della temperatura superficiale che si è verificato nell'alto Adriatico lo scorso inverno ha provocato una moria di uova e di pesci - spiega Greco - per questo quasi non si trova un'acciuga: le aziende che le salano non sanno più dove cercarle".