Spesso le pagine dei giornali locali ospitano immagini di luoghi della nostra isola imbruttiti dalla presenza di rifiuti ordinari e straordinari; che siano sacchi di spazzatura, lavatrici ormai esauste, auto dimenticate o parsimoniosamente sottratte alla rottamazione, li troviamo nei più disparati angoli del centro urbano, a margine delle strade carrozzabili, insomma, costantemente sotto i nostri occhi. Il loro fugace momento di celebrazione mediatica vorrebbe scuotere quel senso civico che – da un po’ di tempo – sembra esserci sfuggito, ma paradossalmente stimola il senso di assuefazione e il vizio della rassegnazione. Il giorno in cui non ci sarà più, di quel vecchio televisore piazzato nel marciapiede sotto casa potremmo addirittura avvertire la mancanza, come se fosse diventato un amico che incrociamo abitualmente mentre andiamo a fare due passi.
Quando il degrado colpisce invece
luoghi discreti e nascosti, possibilmente dotati di intrinseca bellezza, siamo
ancora in grado di percepire un intimo senso di disagio, di chiederci perché
mai qualcuno abbia deciso di imbruttirli e a chi possa giovare tutto ciò.
È questa la domanda che mi rivolgo quando passo dal sentiero
delle cave di caolino e guardo la centralina di monitoraggio che l’INGV ha
collocato qualche decennio addietro nei pressi delle fumarole sotto Timpone
Pataso.
È ovvio che un tempo debba essere stata indispensabile per
raccogliere dati sullo stato del vulcano di Lipari – ancora attivo, nonostante
le apparenze – e che dunque sia stata preziosa per valutarne il rischio e
scongiurare eventuali, nefaste conseguenze sulla nostra vita. Ma oggi, e ormai
da molti anni, non monitora più nulla. I cavi che la circondano sono quasi
tutti divelti, i tubi corrugati spaccati, i fili di rame corrosi dall’acido
solfidrico che si sprigiona dalle fumarole. Il casotto si erge come un inutile
orpello, e una mano pietosa ha piazzato una pietra sul tetto di plastica per
evitare che decolli quando soffia il maestrale.
Attorno c’è un paesaggio ancestrale,
selvaggio, le rupi dei timponi, il giallo acceso dell’area fumarolica, il blu
cangiante del mare.
Da lì passano ogni anno migliaia di escursionisti, soprattutto stranieri. Di certo lo noteranno, perché oggettivamente è brutto. Ma non tutti conoscono cosa si cela dietro l’acronimo INGV, e magari qualcuno lo scambierà per un gabinetto chimico. “Però, questi italiani sono davvero strani”, penseranno, dopo avere cercato senza successo un wc pubblico nei pressi del porto e trovandone finalmente uno nel mezzo del nulla.
Pietro Lo Cascio
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