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mercoledì 30 agosto 2017

Sceso il sipario sulla IV edizione di "Spartiti per le Eolie" (di Antonio Amico)

Siamo al quarto anno consecutivo della rassegna di incontri musicali “Spartiti per le Eolie”, che l’Associazione culturale “Euterpe”, con il patrocinio del Comune, ha organizzato per l’estate eoliana.
Quest’anno due serate, presso la chiesa della Addolorata, come di solito.
Sulla manifestazione è d’obbligo fare una premessa di carattere generale: nessun fine di lucro (gli artisti, di grande pregio e livello internazionale, suonano gratuitamente e vengono graziosamente ospitati dal Direttore Artistico, organizzatrice e presidente di Euterpe, Anna Paternò, a casa propria). Un solo scopo: fare cultura. Possibilmente “alta”. Sul termine bisogna intendersi e si possono esprimere posizioni diverse. E allora diciamo: possibilmente “altra”. E riempire spazi vuoti, da questo punto di vista, certamente più ardui e difficili, ma accattivanti.
E qui si inserisce la premessa. Che tipo di musica “altra” si può fare a Lipari? Certamente non per grande orchestra (organizzazione e collocazione complessa, costi proibitivi, malgrado l’entusiasmo e la fiducia della Paternò). Quindi, musica da camera: pochi strumenti, al limite il solo pianoforte, un violino, una viola, occasionalmente la voce.
E se non ci si vuole rassegnare alle arie d’opera o alle nobili canzoni dell’ottocento e dei primi del novecento, che sono altra musica, ci si rivolge alle sonate, ai trii, ai quartetti. Che sono incontri, conversari, occasioni: intime, discorsive, sognanti o frementi, arrabbiate. Secondo estro e condizione.
Quale musica può andare direttamente al cuore dell’ascoltatore che entra in dialogo con essa, ne diventa partecipe, negli spazi ristretti in cui viene eseguita, sale, salotti, preziosi scrigni barocchi, come quello in cui la rassegna è ospitata, senza le distanze di un grande teatro, un palcoscenico, un golfo mistico?
C’è un prezioso saggio di Paul Hindemith sull’argomento che andrebbe letto. Insomma, la musica da camera è una conversazione, un dialogo, in primo luogo tra i musicisti che si cercano con gli occhi, si offrono la battuta, rispondono, altercano, si appacificano, secondo i “caratteri” degli intervenuti; in secondo luogo con gli ascoltatori che sono così vicini, possono discernere le linee melodiche  più elaborate, le armonie più complesse e dei musicisti possono scrutare gli sguardi, osservarne il disappunto, la gioia, l’entusiasmo.
Questa è stata l’impressione ricevuta nelle due serate.
La prima: Romanticismo traboccante, Schumann dei suoi anni più difficili, già vicini alla malattia, ed evidenti nella drammaticità dell’ultimo tempo del suo Trio in sol minore; e Brahms ancora abbastanza giovane, più o meno dello stesso periodo, il 1862: un profluvio di temi, note, melodie, interrotte, riprese, e poi ancora interrotte e ancora riprese, fino all’esplosione finale del tempo alla zingaresca, passione brahmsiana mai abbandonata. Temi, dai quali, pur preludendo al suo sinfonismo maturo e costituendone la premessa, scaturisce l’intimità confidenziale del discorso cameristico brahmsiano, perfettamente in linea con quanto affermava Hindemith: un dialogo ininterrotto con il pubblico e fra gli esecutori che, questa sera, si cercavano con gli occhi e sorridevano. Su tutti la violista Anna Brugger che ha impressionato per la bravura e per l’atmosfera serena e sognante che ha saputo trasferire al pubblico. Sorridendo.
La seconda serata: più complessa e più “difficile”, sia per il salto temporale ad autori più contemporanei, sia per la scelta di un repertorio esclusivamente russo.
Bene ha spiegato la scelta Jacques Michaut Paternò. Una scelta in linea con l’idea, realizzata il 9 agosto al Centro Studi Eoliani, di rappresentare una riduzione teatrale del “Sogno di un uomo ridicolo” di Dostoevskij, realizzata e interpretata da Gabriele Furnari Falanga.
Un’idea nata da un anniversario: sono cento anni, oggi, dalla rivoluzione d’Ottobre che non ha stravolto il destino della Russia, ma ha modificato e in definitiva “informato” i destini dell’Europa in cui viviamo. Nessun intento politico. Solamente la volontà di ricordare a tutti come quell’utopia si trasformò in tragedia e come gli odierni nazionalismi in altra tragedia possono mutare l’utopia dell’Europa odierna.
Il programma, dunque:
Ŝostakoviĉ, Trio n. 1 in do minore, pieno di melodie accattivanti, come lui sa fare, ninne-nanne, moti perpetui: la sua musica.
Prokofiev, Cinque canti senza parole op. 35 bis per violino e pianoforte. Gradevoli, ma ostiche perché concepite nel pieno della sua stagione modernista e antiromantica, scaturita dai suoi contatti con i futuristi italiano, Daghilev, Stravinskij e Ravel.
Čajkovskij, più indietro nel tempo, Trio in la minore op. 50, un omaggio all’amico Rubinstein, un’opera traboccante di lirismo e di pathos, dalle melodie struggenti che si concludono in tempo di Marcia funebre, in memoria.
Che dire della serate? Tanto pubblico, malgrado la collocazione a ridosso della festa del patrono e anche tante facce nuove rispetto ai soliti affezionati.
Gli esecutori, gli immancabili Salvatore Gitto al piano (straordinariamente cresciuto) e David Haroutunian al violino, ormai di casa, esperto e compassato, la violoncellista Johanna Helm, dolce ed energica secondo partitura, l’altro pianista  Laurent Wagschal alle prese con le difficoltà esecutive del trio di Čajkovskij, magistralmente risolte e la dolcissima e brava, violista Anna Brugger, tedesco-coreana, dagli occhi profondi e sempre sorridenti.
Tutti bravi, tutti sereni. Un amalgama perfetto, malgrado la difficoltà, che si può immaginare.
La musica cameristica ti dà questo: sei a contatto con loro, li guardi, ne percepisci le emozioni, le difficoltà di alcuni passaggi, la tensione, ma anche l’affiatamento, la ricerca del momento per l’attacco, per il proprio intervento.
Voglio chiudere con un messaggio:
La musica è quantità, misura, nel periodo in cui viene composta o nell'attimo in cui lo strumento, stimolato dal musicista, la produce. Qui si compie un salto misterioso: quello che noi ascoltiamo è immateriale e nell'attimo in cui lo percepiamo sparisce per diventare memoria. La musica è il segno più sublime della nostra transitorietà. La Musica, come la Bellezza, risplende e passa per diventare la memoria, la nostra più profonda natura. Noi siamo la nostra memoria. 
Lo ha scritto Giuseppe Sinopoli, un grande, grande amico di Lipari, troppo prematuramente scomparso, affabile e sincero, colto, medico e archeologo, oltreché grande direttore d’orchestra. Un uomo che riponeva nella cultura la fiducia, forse utopistica, che tutti dovremmo riconoscerle per ricostruire quello che lentamente andiamo perdendo senza rendercene conto.
Euterpe, Jacques e Anna Michaut Paternò ne sono consapevoli e fanno del loro meglio. Vanno supportati e aiutati.
Antonio Amico

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