Siamo
al quarto anno consecutivo della rassegna di incontri musicali “Spartiti per le
Eolie”, che l’Associazione culturale “Euterpe”, con il patrocinio del Comune,
ha organizzato per l’estate eoliana.
Quest’anno
due serate, presso la chiesa della Addolorata, come di solito.
Sulla
manifestazione è d’obbligo fare una premessa di carattere generale: nessun fine
di lucro (gli artisti, di grande pregio e livello internazionale, suonano
gratuitamente e vengono graziosamente ospitati dal Direttore Artistico,
organizzatrice e presidente di Euterpe, Anna Paternò, a casa propria). Un solo
scopo: fare cultura. Possibilmente “alta”. Sul termine bisogna intendersi e si
possono esprimere posizioni diverse. E allora diciamo: possibilmente “altra”. E
riempire spazi vuoti, da questo punto di vista, certamente più ardui e
difficili, ma accattivanti.
E
qui si inserisce la premessa. Che tipo di musica “altra” si può fare a Lipari?
Certamente non per grande orchestra (organizzazione e collocazione complessa,
costi proibitivi, malgrado l’entusiasmo e la fiducia della Paternò). Quindi,
musica da camera: pochi strumenti, al limite il solo pianoforte, un violino,
una viola, occasionalmente la voce.
E
se non ci si vuole rassegnare alle arie d’opera o alle nobili canzoni
dell’ottocento e dei primi del novecento, che sono altra musica, ci si rivolge
alle sonate, ai trii, ai quartetti. Che sono incontri, conversari, occasioni:
intime, discorsive, sognanti o frementi, arrabbiate. Secondo estro e
condizione.
Quale
musica può andare direttamente al cuore dell’ascoltatore che entra in dialogo
con essa, ne diventa partecipe, negli spazi ristretti in cui viene eseguita,
sale, salotti, preziosi scrigni barocchi, come quello in cui la rassegna è
ospitata, senza le distanze di un grande teatro, un palcoscenico, un golfo
mistico?
C’è
un prezioso saggio di Paul Hindemith sull’argomento che andrebbe letto.
Insomma, la musica da camera è una conversazione, un dialogo, in primo luogo
tra i musicisti che si cercano con gli occhi, si offrono la battuta,
rispondono, altercano, si appacificano, secondo i “caratteri” degli
intervenuti; in secondo luogo con gli ascoltatori che sono così vicini, possono
discernere le linee melodiche più elaborate, le armonie più complesse e
dei musicisti possono scrutare gli sguardi, osservarne il disappunto, la gioia,
l’entusiasmo.
Questa
è stata l’impressione ricevuta nelle due serate.
La prima:
Romanticismo traboccante, Schumann dei suoi anni più difficili, già vicini alla
malattia, ed evidenti nella drammaticità dell’ultimo tempo del suo Trio in sol minore; e Brahms ancora
abbastanza giovane, più o meno dello stesso periodo, il 1862: un profluvio di
temi, note, melodie, interrotte, riprese, e poi ancora interrotte e ancora
riprese, fino all’esplosione finale del tempo alla zingaresca, passione
brahmsiana mai abbandonata. Temi, dai quali, pur preludendo al suo sinfonismo
maturo e costituendone la premessa, scaturisce
l’intimità confidenziale del discorso cameristico brahmsiano, perfettamente
in linea con quanto affermava Hindemith: un dialogo ininterrotto con il
pubblico e fra gli esecutori che, questa sera, si cercavano con gli occhi e
sorridevano. Su tutti la violista Anna Brugger che ha impressionato per la
bravura e per l’atmosfera serena e sognante che ha saputo trasferire al
pubblico. Sorridendo.
La seconda serata:
più complessa e più “difficile”, sia per il salto temporale ad autori più
contemporanei, sia per la scelta di un repertorio esclusivamente russo.
Bene
ha spiegato la scelta Jacques Michaut Paternò. Una scelta in linea con l’idea,
realizzata il 9 agosto al Centro Studi Eoliani, di rappresentare una riduzione
teatrale del “Sogno di un uomo ridicolo”
di Dostoevskij, realizzata e interpretata da Gabriele Furnari Falanga.
Un’idea
nata da un anniversario: sono cento anni, oggi, dalla rivoluzione d’Ottobre che
non ha stravolto il destino della Russia, ma ha modificato e in definitiva
“informato” i destini dell’Europa in cui viviamo. Nessun intento politico.
Solamente la volontà di ricordare a tutti come quell’utopia si trasformò in
tragedia e come gli odierni nazionalismi in altra tragedia possono mutare
l’utopia dell’Europa odierna.
Il
programma, dunque:
Ŝostakoviĉ,
Trio n. 1 in do minore, pieno di
melodie accattivanti, come lui sa fare, ninne-nanne, moti perpetui: la sua musica.
Prokofiev,
Cinque canti senza parole op. 35 bis per
violino e pianoforte. Gradevoli, ma ostiche perché concepite nel pieno della
sua stagione modernista e antiromantica, scaturita dai suoi contatti con i
futuristi italiano, Daghilev, Stravinskij e Ravel.
Čajkovskij,
più indietro nel tempo, Trio in la minore
op. 50, un omaggio all’amico Rubinstein, un’opera traboccante di lirismo e
di pathos, dalle melodie struggenti che si concludono in tempo di Marcia
funebre, in memoria.
Che
dire della serate? Tanto pubblico, malgrado la collocazione a ridosso della
festa del patrono e anche tante facce nuove rispetto ai soliti affezionati.
Gli
esecutori, gli immancabili Salvatore Gitto al piano (straordinariamente cresciuto) e David Haroutunian al
violino, ormai di casa, esperto e compassato, la violoncellista Johanna Helm,
dolce ed energica secondo partitura, l’altro pianista Laurent Wagschal alle prese con le difficoltà
esecutive del trio di Čajkovskij, magistralmente risolte e la dolcissima e
brava, violista Anna Brugger, tedesco-coreana, dagli occhi profondi e sempre
sorridenti.
Tutti
bravi, tutti sereni. Un amalgama perfetto, malgrado la difficoltà, che si può
immaginare.
La
musica cameristica ti dà questo: sei a contatto con loro, li guardi, ne
percepisci le emozioni, le difficoltà di alcuni passaggi, la tensione, ma anche
l’affiatamento, la ricerca del momento per l’attacco, per il proprio
intervento.
Voglio
chiudere con un messaggio:
La musica è quantità, misura, nel
periodo in cui viene composta o nell'attimo in cui lo strumento, stimolato dal
musicista, la produce. Qui si compie un salto misterioso: quello che noi
ascoltiamo è immateriale e nell'attimo in cui lo percepiamo sparisce per
diventare memoria. La musica è il segno più sublime della nostra transitorietà.
La Musica, come la Bellezza, risplende e passa per diventare la memoria, la
nostra più profonda natura. Noi siamo la nostra memoria.
Lo
ha scritto Giuseppe Sinopoli, un grande, grande amico di Lipari, troppo
prematuramente scomparso, affabile e sincero, colto, medico e archeologo,
oltreché grande direttore d’orchestra. Un uomo che riponeva nella cultura la
fiducia, forse utopistica, che tutti dovremmo riconoscerle per ricostruire
quello che lentamente andiamo perdendo senza rendercene conto.
Euterpe,
Jacques e Anna Michaut Paternò ne sono consapevoli e fanno del loro meglio.
Vanno supportati e aiutati.
Antonio Amico
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