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lunedì 25 giugno 2018

L’accoglienza verso gli ultimi vissuta da Florenzia e le sue figlie (di Michele Giacomantonio)

Mai come in questa fase della storia dell’umanità l’accoglienza  dei più poveri ed emarginati è stata posta sotto attacco. Addirittura il presidente americano Trump se l’è presa con i i bambini degli immigrati che vengono separati dai loro genitori perseguiti penalmente e rinchiusi in campi di concentramento per bambini ed è arrivato a dire che la loro morte toglierebbe di mezzo futuri delinquenti. E solo le forti reazioni degli americani a cominciare da sua moglie e dalle altre first lady e di Papa Francesco, gli hanno fatto fare marcia indietro.
Ma non meno sconsiderata è stata la decisione del Ministro degli interni italiano, Matteo Salvini, di avere rifiutato l’attracco ad un porto italiano alla nave Acquarius col suo carico di oltre 600 persone di cui molti bambini e persino donne in cinta pescati nelle acque Mediterranei e salvati dagli scafi che li portavano via dall’Africa. E così per giorni questa povera gente è rimasta in balia delle onde in rotta verso la Spagna che le aveva dato accoglienza.

Il povero sacramento di Gesù

11 gennaio 2015 "Gesù lo possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri, nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo sofferente e immagine visibile del Dio invisibile". E’ una delle tante immagini che Papa Francesco usa per ricordarci che i poveri sono sacramento di Cristo. Questa è una citazione presa dall'Angelus dell’11 gennaio del 2015, ricordando che con la nascita di Gesù "la terra è diventata la dimora di Dio fra gli uomini e ciascuno di noi ha la possibilità di incontrare il Figlio di Dio, sperimentandone tutto l'amore e l'infinita misericordia". Così Gesù, ha spiegato, "lo possiamo incontrare realmente presente nei sacramenti, specialmente nell'Eucaristia" e ritrovare nel volto degli ultimi. 
Questo collegamento forte fra l’accoglienza di Gesù e quello dei poveri e degli emarginati in Florenzia è sempre stato particolarmente  presente.
La prima esperienza  di accoglienza dei sofferenti scoprendo in loro il volto di Gesù , Florenzia, ancora Giovanna, dovette farla, al capezzale del padre durante la lunga malattia che lo portò alla morte.
Alle suore missionarie in Brasile che erano andate a prestare la loro opera ai malati scriveva – probabilmente ricordando quelle lunghe giornate passate  a spiare la sofferenza di papà Giuseppe –“Oh come sarebbe bello se in uno dei tanti ammalati trovereste Gesù in persona! Ma se non lo trovate visibile. Lo trovereste sempre invisibile, Quindi quando  avvicinate l’ammalato andate con quel pensiero che vedete Gesù”.
Ed una suora commentando questa lettera osservava che in Madre Florenzia il motivo teologico della carità per il prossimo era il corpo mistico di Cristo da curare così come si legge in Matteo 25,26 “Tutto ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avete fatto a me”. E per Florenzia divennero Gesù i fanciulli abbandonati e bisognosi, le giovani universitarie da ospitale, le anziane, gli ammalati “quanti non trovano sulla terra l’atmosfera della pace cristiana e la fortezza serafica”.
Suor Colomba ricorda che Florenzia  usava dire frequentemente: “Quando un povero bussa alla nostra porta, bisogna accoglierlo ed aiutarlo, perché in lui c’è l’immagine di Gesù Cristo” E suor Gemma aggiungeva che “ I poveri bussavano con fiducia alla porta, non tollerava che se ne andassero a mani vuote e se qualcuno si mostrava avaro nei loro confronti, ne esigeva la riparazione. Anche alle ammalate andavano le sue attenzioni ed erano oggetto delle sue predilezioni. Non lasciava intentato alcun rimedio pur di ridare loro salute e vigore”.

La scuola dell’accoglienza

Questa scuola dell’accoglienza che per Florenzia cominciò a Pirrera accanto al letto del padre continuò nella esperienza negli Stati Uniti col viaggio in nave, la quarantena ad Ellis Island, le immagini di miseria e di emarginazione viste a New York a partire dai quartieri di Little Italy a poche centinaia di metri da Sullivan Street dove andò ad abitare con la madre ed i fratelli. La vocazione di Florenzia è vocazione di accoglienza che trova espressione nel francescanesimo che conobbe proprio a Sullivan Street dai francescani del distretto dell’Immacolata Concezione che gestivano la chiesa di Sant’Antonio da Padova.
Certamente la povertà c’era anche a Lipari, soprattutto negli ultimi decenni dell’800 e c’era anche la miseria dei bambini senza famiglia, delle donne abbandonate, dell’infame commercio di alcool e prostituzione che si alimentava grazie alla colonia coatta e ad una gioventù borghese che si credeva emancipata ma in realtà era solo dissoluta e priva di ideali. Si, tutto questo c’era anche a Lipari ma probabilmente Giovanna che viveva a Pirrera – nel tranquillo ritmo della vita contadina, a pochi chilometri dalla cittadina ma che allora volevano dire più di un’ora di cammino a piedi per viottoli impervi - non ne coglieva gli aspetti più crudi. Ora improvvisamente sono proprio questi aspetti che le si impongono, che la obbligano a considerarli da vicino e quasi dall’interno, sulla nave, a Ellis Island e per le strade di una New York caotica e violenta dove la gran parte della gente viveva nella sporcizia, nella sopraffazione, nel degrado. Ed è sicuramente di questo che parla con i frati francescani e soprattutto con padre Daniele che era divenuto il suo confessore e consigliere. Ed è proprio perché convinto che la sua vocazione all’accoglienza è forte e genuina che padre Daniela fa il nome di Giovanna, divenuta nel frattempo Florenzia, per l’esperienza a Pittsbourg dove si trattava di assistere i bambini dei lavoratori italiani immigrati in questa città industriale cresciuta in pochi anni fino a divenirne una della più importanti del mondo. L’esperienza di Pittsbourg fallirà, non certo per responsabilità di Florenzia. Ma con la chiusura della casa di Pittsbourg di fatto si conclude anche la sua esperienza americana e si apre la storia dell’Istituto delle suore francescane dell’Immacolata Concezione di Lipari che è, fin dall’inizio, una storia di accoglienza perché per questo era stata chiamata Florenzia a Lipari da Mons.Raiti, creare una casa di accoglienza per le i figli di nessuno e le donne abbandonate..
Di questa storia di accoglienza voglio ricordare quattro di questi momenti voluti e decisi da Florenzia.

L’accoglienza dei bambini abbandonati

Il primo è un episodio dei primi anni dell’Istituto, che è un po’ il simbolo della passione che Florenzia dedicò all’accoglienza dei bambini abbandonati. Siamo nel 1908 all’indomani del terribile terremoto di Messina  del 28 dicembre e molti scampati da quella tragedia furono portati a Lipari. Fra questi vi era pure una bimba di 5 anni rimasta sola che si chiamava Linuccia.  Madre Florenzia, saputo di  questa orfanella chiese alle autorità l’affidamento come Istituto e l’ottenne. Linuccia divenne la beniamina della casa circondata dall’affetto della Madre, delle suore, ma anche delle altre bambine che frequentavano la casa di via Diana. Era intelligente studiava con amore ed a scuola era fra le più brave. A 8 anni cominciava già a suonare il piano. Ma cresceva sempre  esile malaticcia e verso il 12 anno di età peggiorò in salute. Si ammalò di tisi  polmonare  e fu costretta dal medico ad essere abbandonata dalla comunità per non infettare gli altri bambini. Florenzia pensò di portarla a Pirrera, a casa sua, dove si respirava aria pura ed ossigenata. Lì, lei stessa, assieme ad un’altra suora, la serviva con affetto materno, senza paura del contagio. Ma un giorno purtroppo Linuccia morì. Sicuramente Florenzia fu affranta dal dolore ma capì anche che l’accoglienza mette in conto il distacco e non può essere un sentimento proprietario. E tornò alla sua missione curando la sua ferita con l’amore per gli altri bambini come Francesca  che nove anni dopo si trovò fra le braccia una notte, messagliela dalla madre morente e che accudì e seguì nella crescita fino a trovarle lei stressa una famiglia che poteva offrirle un avvenire che l’Istituto non poteva. E poi Angelino e poi tanti altri. I bambini di Lipari, i bambini dei paesi della Sicilia, i bambini di Palermo, di Catania e di Trapani terrorizzati dai bombardamenti che li costringevano a correre nei rifugi, i bambini di Roma traumatizzati da una guerra che si era conclusa ma che presentava ancora aperte tutte le ferite di miseria e di fame, i bambini infine del Brasile e poi del Perù alle prese con una povertà ancora più profonda di quelle che alla fine dell’800 c’era a New York.
L’amore – scriverà nel messaggio di Natale del 1954 – deve essere il movente di ogni vostra aspirazione, di ogni opera intrapresa, l’amore che innalzi all’Onnipotente un cantico di gloria, di gratitudine e di riconoscenza nel trambusto di una vita sacrificata, francescanamente vissuta”.
L’accoglienza richiede amore ma anche accettazione del distacco. Distacco dalle persone ma anche distacco dalle esperienze: da quelle con i bambini, con le universitarie, con gli anziani con i derelitti dell’America Latina. Ed anche distacco dai luoghi Quella di vivere una vocazione di pellegrinaggio Florenzia la incarnò nella sua esistenza tanto da farne una costante della sua missione. Un andare da un posto ad un altro che non vuol dire sradicamento ma capacità di moltiplicare le radici.” Suscitare raggi di luce dovunque – scriveva nel messaggio natalizio del 1953 – come da una irradiazione del sole mille riflessi si sprigionano” Le radici di Lipari, degli Stati Uniti, di Acireale, di Palermo, di Roma, dell’America Latina.
L’accoglienza non è appartenenza a qualcuno ma capacità di essere tutto a tutti.

La povertà della borghesia di Palermo

Nel luglio del 1939 c’erano già le avvisaglie della prossima guerra mondiale. E quando Florenzia ed una suora partirono per Palermo, perché Florenzia riteneva che fosse giunto il tempo di una nuova esperienza per il suo istituto, uno stuolo di apparecchi volteggiava sulla stazione di Catania. Ma questi non preoccupavano la Madre che riteneva la tappa di Palermo una passo importante nel percorso che serbava nel suo cuore. Da qualche tempo infatti Florenzia andava  riflettendo sulle povertà che si sviluppavano soprattutto nelle grandi città. Che non erano quelle tradizionali di chi aveva problemi di sopravvivenza non sapendo come arrivare al giorno dopo, ma anche di chi viveva nell’agiatezza e qualche volta nella ricchezza ed era privo di valori che dessero significato all’esistenza. Era una povertà che colpiva in particolare i giovani delle famiglie borghesi. Sotto questo aspetto Palermo era il posto ideale giacchè sul finire dell’Ottocento ed i primi del novecento una nuova classe dirigente aveva fatto vivere alla città il sogno dell’industrializzazione e della rinascita commerciale ed era divenuta quindi un faro di sviluppo e di speranza di progresso per tutta la gente della Sicilia.. L’accoglienza questa volta era rivolta alle giovani ragazze che venivano a Palermo per studiare. Erano le figlie di una borghesia agiata ma anche di famiglie modeste che cercavano un riscatto sociale. Venivano dal circondario ma anche da tutta la Sicilia e qualcuna anche dalla Sardegna. Quando la casa aprì le sue porte il 1° settembre tutto era in ordine anche se le camerette riservate alle suore erano piuttosto spoglie, anzi, siccome arrivavano più pensionate di quante se ne aspettassero, si dovettero riservare anche i loro materassi e come altre volte era accaduto esse si adattarono, per qualche tempo, a dormire per terra in serena e francescana letizia. L’esperienza del pensionato andò avanti malgrado sul finire del 1940 scoppiasse la guerra ed era un continuo susseguirsi di bombardamenti, il razionamento dei generi alimentari di prima necessità e poi anche lo sfollamento quando le suore, con un buon numero di pensionanti, si rifugiarono a Petralia Sottana.
Ma anche la guerra passò senza gravi danni per l’Istituto e in seguito al Pensionato si aggiunse un asilo e la scuola elementare. Le suore erano divenute di pieno diritto cittadine palermitane e Florenzia decise che fosse giunto il momento di mettere mano ai risparmi delle varie case ed acquistare una sede propria anche a Palermo.

Il mendicicomio di Giarre

Nel 1954 Florenzia accetta di assistere gli anziani d un mendicicomio di Giarre. Tutto era nato per iniziativa di una dama di San Vincenzo che si era imbattuta un giorno in una capanna su un misero materasso giaceva un paralitico. Qualche passante gli portava un pezzo di pane ma nessuno s’interessava di sollevarlo dalle sue sofferenze giunte al punto che nell’immobilità a cui era sottoposto, oltre alle piaghe, i topi gli avevano rosicchiato le dita dei piedi. Nacque così l’idea di una casa di riposo per i vecchi abbandonati ed emarginati. Ci fu chi ci mise il terreno e chi si interessò ad avere i contributi dalla Regione. Si realizzò il pianterreno e poi anche il primo piano ed i poveri cominciavano ad abitarci. Era già meglio delle capanne ma c’era bisogno di chi si prendesse cura di questi derelitti e fu allora che si pensò alle suore francescane la cui fama cominciava  a circolare in quella parte della Sicilia. Per Florenzia questa era una nuova sfida e l’idea di  operare per l’accoglienza a poveri che languivano nella miseria in cui vedeva accumulato quanto di più penoso vi era sulla terra – dolori fisici e morali, povertà, amarezza, sconforto, abbandono – l’appassionava. Ci pensò su molto ma alla fine non seppe resistere alla richiesta e mandò le sue suore gratuitamente. Ci fu festa in questa casa di Giarre perché i vecchietti che vi erano ospitati avevano finalmente l’affetto di una famiglia. Grandi furono i disagi del primo anno perché nel reparto degli ospiti e delle suore mancava di tutto. Ma questa non era una esperienza nuova per Florenzia e le sue figlie, la povertà era stata loro compagna in tutte le iniziative. Le dame di San Vincenzo si misero a raccogliere fondi e Florenzia che aveva imparato a districarsi nei meandri della burocrazia pubblica ottenne dal ministero dell’interno materassi, biancheria per i letti, copette di lana, stoffe per i vestiti. E così passo dopo passo si avviò la casa. Prima  le vecchiette che occuparono il pianterreno mentre i muratori lavoravano al primo piano, poi quando questo fu abitabile le donne passarono sopra ed a pianterreno furono accolti i vecchietti. Nell’arco di qualche anno i lavori furono finiti e si arredarono decorosamente i locali e la chiesa che nelle case di accoglienza delle suore non mancava mai  ma aveva il posto più bello nella struttura.

Gli emarginati di Bosco di Rosarno
Nel maggio del 1942, in piena guerra, le suore vennero invitate ad occuparsi della direzione di un asilo infantile  in una frazione di Rosarno chiamata “Bosco”.
Rosarno, al tempo, era un comune di circa 10 mila abitanti della provincia di Reggio Calabria e della diocesi di Mileto, situato su una collina che si affaccia su una pianura ora ricca di aranceti ed uliveti ma oggetto, a partire dai primi anni dell'800, di una intensa opera di bonifica.
Bosco di Rosarno si stende, guardando il mare, ad est dell'abitato da cui dista poco più di sette chilometri. Nel passato era stata zona di caccia rinomata per l'abbondanza della selvaggina e per le sue erbe medicinali, poi, nell'800 vi trovarono rifugio, per diversi anni, alcune bande di briganti fedeli ai Borboni. Ora i briganti non c’erano più ma persisteva  una realtà  che aveva bisogno di una significativa opera di redenzione sociale, di bonifica umana perchè era abitata da una popolazione di agricoltori mezzo inselvatichiti dall'isolamento e dall'abbandono.
Florenzia volle accompagnare le suore nell’avvio del loro lavoro e rimase con loro circa un mese finchè non fu sicura che tutto procedeva come previsto. Malgrado l'isolamento della zona e la miseria di chi l'abitava, il centro era una vera “oasi di pace” immersa fra gli olivi. Era di recente costruzione e, sulla parte destra, vi era l'asilo, la casa delle suore e la cappella, mentre sul lato sinistro si trovava uno “stanzone” in cui veniva organizzata la mensa per i figli dei contadini; nell'atrio, invece, veniva attivato in alcuni giorni della settimana, il laboratorio di ricamo.
Quando si aprì l’Asilo, fin dal primo giorno, molti piccoli riempirono l’aula, lieti di trovarsi in ambiente nuovo, pulito e ordinato dove vi erano tanti giocattoli e materiali che non avevano mai visti e che guardavano con grande curiosità balbettando parole dialettali che la suora si sforzava di capire. 
Nelle domeniche, festività e primi venerdì del mese vi era una lunga fila di ragazzi, padri e madri di famiglia, vecchi  che avanzavano poggiandosi al bastone,  che si snodava per i campi percorrendo tanta strada a piedi sfidando la polvere e il fango, sotto il sole cocente o la pioggia, per raggiungere la chiesetta improvvisata preso i locali dell'asilo e dell'istituto. Era gente che manifestava una grande fede ma anche una forte ignoranza religiosa perchè per molti era la prima volta che assistevano ad una funzione religiosa. Così le suore iniziarono la scuola di catechismo per i grandi e per i piccoli con una notevole partecipazione di gente desiderosa di ascoltare e di apprendere, anche perchè quello organizzato dalle suore era, nella zona, l'unico punto di aggregazione.
Oltre che all’apostolato le suore si dedicarono anche alla carità: visitavano ammalati, curavano piaghe, consolavano gli afflitti, si interessavano di ogni necessità, assistevano i moribondi. Con una cassetta di pronto soccorso offerta dall’ufficio dell'INAIL di Reggio Calabria,  si trasformavano in infermiere per medicare ferite e curare malattie ricevendo la gente all'asilo o girando per le loro abitazioni. Quante volte, anche di notte, con la pioggia ed il vento, venivano chiamate per recarsi al capezzale di qualche agonizzante. Già l'anno dopo, il primo maggio del 1943, si apriva la scuola di taglio e cucito per le ragazze e a distanza di poco tempo sorse anche la scuola rurale  frequentata da un buon numero di alunni.  Le ragazze del laboratorio, una cinquantina, insieme al taglio e al cucito e al ricamo imparavano ad affrontare anche i problemi della vita.
La popolazione, grazie all’operato delle suore, era cambiata, si notava una nuova consapevolezza non solo religiosa ma anche civile soprattutto fra le famiglie che più frequentavano le iniziative.


Le “favelas” del Mato Grosso in Brasile

Nel 1953 Florenzia ha ottant’anni ed è piena di acciacchi. Ma non si ripiega sui propri malanni. Pensa che ha ancora un importante passo da far fare al suo Istituto prima di chiudere gli occhi. Deve fargli vivere una nuova tappa nel percorso di accoglienza che ha segnato tutta la sua esperienza. Quello della missione verso i popoli che vivono una grave situazione di miseria e di emarginazione dove accoglienza vuol dire prima di ogni altra cosa sopravvivenza e promozione sociale. Alla missione Florenzia ci pensava da molti anni, dal 1937 quando voleva mandare le suore in Africa orientale. Ora è il Brasile ed in particolare il Mato Grosso che le schiude le porte attraverso le parole di un padre cappuccino missionario che le aveva parlato della drammatica situazione dei poveri e dei bambini in quelle terre. Una terra dove alla base della fame e della miseria c’erano soprattutto l’ignoranza e, per quanto riguardava gli indios, un’esistenza disumana e priva di ogni diritto civile.
Florenzia tutte le volte che le sue figlie partivano per dare vita ad una nuova esperienza le accompagnava per condividere con loro i disagi e le difficoltà degli inizi. Ma ormai da diversi anni aveva dovuto rinunciare a questo rituale perché la salute non glielo permetteva. Comunque è pienamente partecipe dell’avventura. Sceglie una ad una le suore da mandare affidando loro, in una funzione solenne, l’incarico formale. E così il 3’ giugno quattro suore – “nel nome del Signore” - partono per il Brasile. Non è facile l’insediamento a Jatai anche perché il loro compito è quello di realizzare l’accoglienza in un ospedale che prendeva le mosse proprio col loro arrivo. E dove il loro servizio – oltre che per i problemi di ambientamento in un altro emisfero, la lingua, le abitudini - era complicato dai rapporti con un’amministrazione che tendeva a scaricare sulle suore le difficoltà di gestione, con le infermiere dove molte erano protestanti e mal sopportavano la funzione di controllo che svolgevano le suore. 
Florenzia seguiva le sue suore da Roma con partecipazione e apprensione. Attendeva le loro lettere, le consigliava, le stimolava, qualche volta non mancava di rimbrottarle quando le sembrava che si stessero lasciando sopraffare dalle difficoltà. L’esperienza nell’ospedale di Jatai  durerà solo tre anni ma l’esperienza brasiliana continua ancora oggi e si estesa anche al Perù dando vita a numerose opere di condivisione e quindi di promozione umana e di evangelizzazione.
La grande lezione umana di Florenzia era che nelle situazioni difficili, se si era convinti dell’obiettivo, bisognava avere pazienza e perseveranza. Alle suore in Brasile scriveva attingendo ad una saggezza contadina che aveva maturato, senza mai dimenticarla, nella sua giovinezza a Pirrera. “Il fico maturo si prende dall’albero e si mette in bocca, ma per le altre cose si richiede tempo e poi la tristezza sarà cambiata in gioia”.
Ecco che cosa era l’accoglienza per Florenzia: un filo dorato che univa fra di loro l’amore, la perseveranza, l’accettazione del distacco, la capacità di mettere radici dovunque, un animo missionario itinerante aperto a tutti con l’impegno di darsi “tutto a tutti”.

                                            Michele Giacomantonio

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