Mi sono convinto, riflettendo sulla vita di Florenzia, che la virtù maggiore che ha connotato tutta la vita della Serva di Dio, dalla fanciullezza alla vecchiaia, sia stata la pazienza. La pazienza più dell’obbedienza. L’obbedienza era naturalmente uno dei tre voti, uno dei tre consigli evangelici, ma questa era così salda e spontanea senza apparire mai come costrizione perché era fondata sulla pazienza e la pazienza a sua volta era fondata sulla certezza incrollabile, senza dubbi e senza incertezze, che il suo progetto – dalla propria vocazione alla promozione dell’Istituto ed alla affermazione di questo – era voluto da Dio. Una certezza che le derivava dall’”ascolto della voce” maturato nella preghiera e nel silenzio.
Ma la pazienza è una virtù così importante? Più dell’obbedienza tanto da poterle fare da fondamento? Ed è importante sotto l’aspetto umano o anche dal punto di vista della fede? Ed ha valore anche nel nostro tempo o è una virtù del passato che nell’era della comunicazione in tempo reale non ha più senso?
Attualità della pazienza
Non ho la pretesa di affrontare il problema a livello interdisciplinare. Per quando riguarda l’importanza della pazienza nella società moderna o post-moderna, come si usa dire, faccio riferimento ad un articolo del sociologo polacco Zygmunt Bauman[1] che sostiene che viviamo un tempo in cui la pazienza si è estinta e desideriamo un mondo sempre più simile al caffè istantaneo ma, a suo avviso, applicare le regole di internet alla vita reale provocherebbe danni gravi sul piano etico e sociale.
“Stiamo perdendo la pazienza – constata Bauman -, eppure i grandi risultati necessitano di grande pazienza. Il periodo di tempo in cui si è in grado di tenere desta la soglia di attenzione, l’abilità a restare concentrati per un tempo prolungato – in definitiva, quindi, la perseveranza, la resistenza e la forza morale, caratteri distintivi della pazienza – sono in calo, e rapidamente”.
Questo influisce sulla disponibilità ad ascoltare e sulle facoltà di comprendere, sulla determinazione ad “andare al cuore della faccenda”, quindi provoca un continuo declino delle capacità di dialogare. “Strettamente connesso ai trend descritti è il danno inferto alla memoria, oggi sempre più spesso trasferita e affidata ai server, invece che immagazzinata nel cervello”.
Naturalmente non possono mancare i riflessi sulla natura stessa dei rapporti umani. “Allacciare e spezzare legami online è più comodo e meno imprudente che farlo offline. Non comporta obblighi a lungo termine, e tanto meno promesse del tipo ‘finché morte non ci separi, nella buona e nella cattiva sorte’; non esige un obbligo così prolungato e coscienzioso come esigono i legami offline. Certo questo è un effetto non ascrivibile solo al diffondersi del digitale ed anche ad un malinteso senso della libertà ma forse soprattutto a quella che viene definita la banalizzazione dell’esistenza con l’affermarsi di stili di vita superficiali non fondati su scelte di vita che investono le basi dell’esistenza. Per quanto riguarda la libertà oggi essa viene spesso immaginata come l’assenza di legami, di vincoli, come possibilità di azzerare il passato rimuovendo tutto ciò in cui prima si viveva, e anzitutto le relazioni e gli impegni assunti, e ricominciare tutto da un nuovo punto di partenza. Oggi la vita di coppia è divenuta fragile, la fedeltà difficile, il compatimento impossibile. Ma non è solo problema delle coppie ma di tutti i rapporti fondati sui sentimenti, sulla fede, sui valori, sull’interiorità e quindi anche le vocazioni, le amicizie.
Dai rapporti umani alla democrazia. “Al contrario delle aspettative abbastanza diffuse secondo le quali Internet rappresenterà un grande salto in avanti nella storia della democrazia e coinvolgerà noi tutti nel processo di dar forma al mondo che condividiamo, osserva Bauman che si vanno accumulando le prove per le quali Internet potrebbe servire anche a perpetuare e a rafforzare conflitti e antagonismi”.
Naturalmente i sociologi lavorano sulle linee di tendenza e sono portati ad accentuare i contorni degli scenari che vanno prefigurando. Ed è lo stesso Bauman a metterci sull’avviso affermando che è prematuro valutare gli effetti aggregati di un cambiamento-spartiacque fra mondo online e mondo offline, così determinante nella condizione umana e nella storia culturale. Ma subito dopo aggiunge che “a conti fatti, d’ora in poi, faremo bene a tenere d’occhio da vicino le conseguenze della spaccatura online/offline”.
E faremo bene quindi a coltivare quella virtù della pazienza che è alla base di quella cultura del dialogo, della responsabilità, dell’affidamento reciproco, della fedeltà, ecc. che hanno garantito forme di convivenza fondate sul rispetto reciproco che hanno consentito di risolvere gravi problemi umani e sociali. Di fronte a tutte le trasformazioni tecnologiche, sociali e politiche vagheggiate o temute la pazienza si è dimostrata come la vera forza rivoluzionaria di cui l’uomo dispone.
La pazienza di Dio
Ma se la pazienza a livello umano e sociale è così influente che ci dice la teologia e quindi la fede? “La virtù dell’anima che chiamiamo pazienza – osserva Sant’Agostino - è un dono di Dio così grande che noi parliamo di pazienza anche riferendoci a colui che a noi la dona; e vi intendiamo la tolleranza con cui egli aspetta che i cattivi si ravvedano. È vero infatti che il nome "pazienza" deriva da patire, ma pur essendo vero che Dio non può in alcun modo patire, tuttavia noi per fede crediamo, e confessiamo per ottenere la salvezza, che Dio è paziente”[2] .
Ed il monaco Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, spiega che noi sappiamo fin dall’Antico testamento che Dio è paziente. Dio lo afferma a Mosè quando lo incontra sul monte Sinai per dargli le tavole della legge: “ Io sono il Signore, il Dio misericordioso e clemente, sono paziente sempre ben disposto e fedele” (Esodo 34,6). L’espressione che sentiamo tornare di frequente per indicare la pazienza di Dio nell’Antico Testamento, è “lento all’ira”[3].
La pazienza del Figlio
La pazienza del Padre si traduce nella pazienza del Figlio. C’è una parabola che dà la misura e la natura di questa pazienza ed è la parabola della remissione dei debiti ( Matteo 18,23 e ss.). Il padrone accoglie la preghiera del servo che chiede pazienza perché non può pagare i propri debiti ma lo punisce duramente quando vede che questi non si comporta, con altrettanta misericordia, verso i propri debitori.
La pazienza di Gesù è scandita da quella che il Vangelo chiama “la sua ora”. Osserva il teologo José Maria Cabodevilla che Gesù vivrà sempre dipendente da quella “ sua ora, tante volte da lui stesso menzionata (Mt 26, 45; Lc l4, 35.41; Gv 12,27; 17,1...)… Non ha alcun potere su quell'ora e nemmeno la conosce (Mc 13, 32). Conoscerla avrebbe significato una forma di potere su di essa, una anticipata notizia relativa agli occulti disegni del Dio dell'Esodo e ciò avrebbe reso psicologicamente impossibile una normale vivibilità umana del tempo…. Ogni uomo ha la sua ora e davanti ad essa dovrà osservare un comportamento simile: «Abbiate pazienza finché arriverà il giorno del Signore» (Gc 5, 7). Come qualsiasi altra virtù cristiana, la nostra pazienza si può solo intendere come imitazione e sequela di Cristo. Non ha niente dell’imperturbabilità e dello stoicismo agnostico[4].
La pazienza di Dio trova la sua espressione più pregnante nella passione e croce di Gesù: lì la dissimmetria fra il Dio che pazienta e si spoglia di tutto per farsi prossimo all’uomo e l’umanità peccatrice si amplia a dismisura nella passione di amore e di sofferenza di Dio nel Figlio Gesù Cristo crocifisso. Da allora la pazienza, come virtù cristiana, è un dono dello Spirito elargito dal Crocifisso-Risorto, e si configura come partecipazione alle energie che provengono dall’evento pasquale. Mentre l’egoismo umano produce immoralità, corruzione e vizio, idolatria, magia, odio, litigi, gelosie, ire, intrighi, divisioni, invidie, ubriachezze, orge ed altre cose di questo genere, lo Spirito produce amore, gioia, pace, comprensione, cordialità, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé (Galati 5,22).
Ed ai primi cristiani che si lamentavano che il ritorno del Signore sembrava tardare Pietro ricordava che per il Signore un giorno sono come mille anni e mille anni come un giorno. «Il Signore non ritarda nell’adempire la promessa [...], ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti giungano a conversione» (2 Pietro 3,9). E Giovanni, rifacendosi direttamente al Maestro, aggiungeva: «Se rimarrete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32) .
Proprio commentando queste parole, Cipriano di Cartagine, vescovo e martire, osserva: “ammessi alla speranza della verità e della libertà, possiamo davvero arrivare alla verità e alla libertà. Il fatto stesso di essere cristiani è questione di fede e di speranza; ma perché la speranza e la fede possano arrivare a portare frutto, è necessaria la pazienza”[5].
San Paolo parlando della carità, unisce ad essa anche la sopportazione e la pazienza. «La carità, dice, è paziente; è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, ... non si adira non tiene conto del male ricevuto. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13, 4-5). Egli ci fa vedere così che essa può perseverare tenacemente per il fatto che sa sopportare tutto.
Ancora San Paolo nella lettera ai Romani ci ricorda che la sofferenza produce perseveranza e la perseveranza ci rende forti nella prova, e questa forza ci apre alla speranza. (5,4). A questo proposito il teologo Cabodevilla ci fa rilevare che apparentemente sembra che debba essere la speranza a generare la pazienza poiché solitamente è la speranza che ci incita ad essere pazienti. Ma la parola dell'apostolo contiene una verità più profonda, e cioè che solo con la pazienza si costruisce la speranza in quanto virtù, come nell'amore coniugale, che necessita del tempo e delle difficoltà inerenti al tempo, per essere qualcosa di più di un innamoramento passeggero. Il superamento di queste difficoltà genera la pazienza, rende ardua la nostra speranza, la consolida e la rivaluta fino a giungere a «sperare contro ogni speranza» (Rm 4,18). Pratica questa non meno dura, non meno paziente, di quella di credere contro ogni evidenza, di amare il nemico come noi stessi[6].
Ancora Enzo Bianchi fa osservare che, per il cristiano, la pazienza è coestensiva alla fede. Sia intesa come perseveranza, cioè come fede che dura nel tempo, sia come arte di accettare e vivere l’incompiutezza che rende capaci di guardare e sentire in grande. Questo secondo aspetto dice come la pazienza sia necessariamente umile: essa porta l’uomo a riconoscere la propria personale incompiutezza, e diventa pazienza verso se stessi; essa riconosce l’incompiutezza e la fragilità delle relazioni con gli altri, strutturandosi così come pazienza nei confronti degli altri; confessa l’incompiutezza del disegno divino di salvezza, configurandosi come speranza, invocazione e attesa di salvezza. La pazienza è la virtù di una chiesa che attende il Signore, che vive responsabilmente il non ancora senza anticipare la fine e senza ergere se stessa a fine del disegno di Dio[7].
Abbiamo parlato di pazienza nei confronti degli altri. Ne abbiamo parlato sopra a proposito delle relazioni umane nell’epoca del digitale e della banalizzazione degli stili di vita. Lo riprendiamo ora per le sue implicazioni religiose. La pazienza è attenzione al tempo dell’altro, nella piena coscienza che il tempo lo si vive al plurale, con gli altri, facendone un evento di relazione, di incontro, di amore. Il pazientare, cioè l’assumere come determinante nella propria esistenza il tempo dell’altro (di Dio e dell’altro uomo), è infatti opera dell’amore. «L’amore pazienta», dice Paolo (1 Corinti 13,4). E la misura e il criterio della pazienza del credente non possono risiedere, in ultima istanza, che nella «pazienza di Cristo»(2 Tessalonicesi 3,5).
Ecco perché spesso la pazienza è stata definita dai Padri della chiesa come la summa virtus (cfr. Tertulliano, De patientia 1,7): essa è essenziale alla fede, alla speranza e alla carità. Innestata nella fede in Cristo, la pazienza diviene «forza nei confronti di se stessi» (Tommaso d’Aquino), capacità di non disperare, di non lasciarsi abbattere nelle tribolazioni e nelle difficoltà, diviene perseveranza, capacità di rimanere e durare nel tempo senza snaturare la propria verità, e diviene anche capacità di sup-portare gli altri, di sostenere gli altri e la loro storia. Nulla di eroico in questa operazione spirituale, ma solo la fede di essere a propria volta sostenuti dalle braccia del Cristo stese sulla croce.
In questa difficile opera il credente è sorretto da una promessa: «Chi persevera fino alla fine sarà salvato» (Matteo 10,22; 24, 13). Promessa che non va intesa semplicemente come un rimanere saldi in una professione di fede, ma come un mettere in pratica la pazienza e l’attiva sopportazione tanto nei rapporti intra-ecclesiali, intra-comunitari («sopportatevi a vicenda», Colossesi 3,13), quanto nei rapporti della comunità cristiana ad extra, con tutti gli altri uomini («siate pazienti con tutti», 1Tessalonicesi 5,14). La pazienza diviene così una categoria che interpella la struttura interna della comunità cristiana e il suo assetto nel mondo, in mezzo agli altri uomini, ai non credenti. E mentre interpella, inquieta.
C’è ancora un aspetto della pazienza su cui vorrei soffermarmi perché ha a che fare con la perfetta letizia e la capacità, di fronte anche a forti tribolazioni di mettere al centro dell’attenzione Dio e non noi stessi. Molto spesso, infatti, a noi sembra che Dio non premi la nostra pazienza. Sebbene Gesù abbia detto “Bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato” e ancora “Io sono la vite, voi i tralci, se rimarrete legati a me darete molti frutti e tutto ciò che chiederete radicati nelle mie parole, lo otterrete” ci sembra che le nostre richieste rimangano inascoltate. Le riproponiamo con frequenza ma senza risultato. E così ci chiediamo “Fino a quando deve prolungarsi la nostra preghiera perché Dio la ascolti?”. Forse, ci suggerisce il teologo Cabodevilla, bisognerebbe porsi diversamente il problema. Non quale sia il tempo di Dio per accogliere le nostre suppliche, ma quale è il tempo nostro finché non scopriamo e accogliamo e accettiamo la volontà di Dio. Lungo tutto il percorso della nostra preghiera infruttuosa è stato Dio a dimostrarsi paziente alla sordità di un'anima che a forza di parlare, si rendeva incapace di udire. Infatti la comunione di più volontà alla quale tende ogni vera preghiera deve realizzarsi verso l'alto e non verso il basso. Dio esaudirà tutte le sue promesse, ma non è tenuto a soddisfare tutti i nostri desideri. Mai dà una pietra a chi gli chiede un pane, ma neanche dà un coltello al bambino che gli chiede un coltello oppure non intende sacrificare un disegno più grande di quello che chiediamo. Se l'uomo, invece di lamentarsi che Dio non lo ascolta, si immergesse nel silenzio per ascoltare Dio, finirebbe per capire e il suo cuore potrebbe così evolvere dal desiderio all'annientamento, dall'esigenza fino al distacco, dall'impazienza fino alla pazienza.
Infine ancora una considerazione. La pazienza cristiana non ha niente di quelle passività tipiche di tante pazienze umane per cui sarebbe meglio parlare di rassegnazione. La pazienza cristiana non è rassegnazione a qualcosa ma abbandono a qualcuno. Più che sperare in qualcosa noi speriamo in qualcuno.
La pazienza di Florenzia[8]
Abbiamo già detto che la pazienza fu una virtù che accompagnò Florenzia tutta la vita dalla fanciullezza sino alla vecchiaia. Ora, alla luce delle considerazioni fatte, possiamo dire che la pazienza di Florenzia fu una pazienza radicata nella fede ed alimentata dalla fede. Fu il fondamento della sua spiritualità ed a questa spiritualità si alimentò. Se vogliamo partire dall’ultima considerazione che abbiamo fatta e cioè che la pazienza cristiana non è rassegnazione ma abbandono a qualcuno scopriamo che essa si addice a Florenzia pienamente e rimanda al suo affidamento pieno, completo, senza misura a Gesù. Ma se ripercorriamo tutto il ragionamento che abbiamo fatto ci accorgiamo come ogni singolo passaggio si addice pienamente a Florenzia come l’attesa paziente dell’ora , l’attenzione ai tempi degli altri, l’anteporre la volontà di Dio alla nostra supplica, ecc. Certo lungo il corso della vita della Madre questa pazienza è venuta approfondendosi, ha fatto i conti con un temperamento che in gioventù era un po’ impulsivo, impaziente e quindi è arrivata a raggiungere il pieno controllo del proprio carattere. Ma anche questo è un merito della Serva di Dio ed in qualche modo una anticipazione dell’urgente bisogno che abbiamo oggi di formarci alla pazienza. Ella infatti ha compreso che la pazienza non era sì un dono da chiedere nella preghiera ma, ancora prima, un valore da costruire attraverso l’autoformazione e il controllo di sé e che quante maggiori erano le avversità da affrontare tanto più doveva confidare nella pazienza.
Se vogliamo seguire questo cammino lungo i molti problemi che, Giovanna prima e Florenzia dopo, incontra potremmo articolare la sua vita in tre periodi tutti scanditi dal tema della pazienza. La pazienza per realizzare la sua vocazione di suora, prima a Lipari e poi negli Usa, che potremmo chiamare la pazienza della semina. La pazienza nel realizzare e consolidare il suo istituto, alle prese prima con l’apertura della casa a Lipari, poi con la carenza di vocazioni, e quindi con i pregiudizi dei superiori ed i contrasti che ne derivavano. Una pazienza che potremmo chiamare delle prove alle prese con le difficoltà. Infine la pazienza del raccolto e cioè l’attenzione ad accompagnare lo sviluppo dell’istituto dai piccoli paesi di provincia alle città, all’apertura della casa generalizia a Roma, alla missione in America latina.
Parlando di pazienza della semina e del raccolto viene in mente San Giacomo. “Guardate l'agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera” (Gc.5,7).
Per Giovanna anche il periodo della semina non fu privo di problemi. Fin da bambina mostrò subito una spiccata attitudine alla preghiera ed al silenzio. Passava lunghe ore dinnanzi all’immagine della Madonna degli angeli e spesso mamma Nunziata doveva mandarla a chiamare e la sgridava perché trascurava gli impegni di casa fra cui vi era la cura dei fratellini più piccoli. Il silenzio e la preghiera la portarono nel giorno della prima comunione a sentire la voce di Gesù. Non se ne meravigliò ed anzi lo confidò alla sorella più grande che le consigliò di tenere questo segreto per sé se non voleva essere presa per matta.
La pazienza della semina
Giovanna non ne parla più ma continua sentire nel cuore e nelle orecchie la voce di Gesù e della Madonna. A 17 anni confida alla madre che vuole farsi suora. Mamma Nunziata non ne vuole nemmeno sentire parlare. Non è il momento, con la malattia del padre che si protrae ormai da anni e lo rende invalido, c’è bisogno del lavoro di tutti. Giovanna china la testa ma fa nel suo cuore una scelta di vita: se non potrà andare in convento e farsi suora, allora vivrà in casa come una suora abolendo dalle sue consuetudini anche il più innocente atteggiamento mondano: le festicciole con gli amici e parenti, le passeggiate con le amiche, e da ragazza giuliva e gioiosa diventa riservata e schiva. Già da tempo si era dedicata a curare il papà infermo, ora aumenta il suo impegno e se fino allora la madre si era riservata le cure più intime per rispettare il pudore di Giovanna, ora Giovanna non accetta più limitazioni. Se deve curare suo padre come farebbe una suora deve poter fare tutto quello che fanno le suore in ospedale, senza scrupoli e falsi pudori.
Giovanna torna a riparlare della sua intenzione di farsi suora alla morte del padre quando mamma Nunziata annunzia che sono costretti ad andare a New York dove suo fratello garantisce che troverà un lavoro a Giovanna ed i suoi fratelli grandicelli Angelina, Nunziatina, Peppino e Maria mentre Antonino rimarrà a studiare in seminario.
“Perché non posso rimanere anch’io e farmi suora?”, chiede Giovanna. “Perché i risparmi che abbiamo – risponde mamma Nunziata – bastono solo per gli studi di Antonino e non ce ne sono per la tua dote. E poi, questo viaggio costa e costa anche il soggiorno a New York. Lo zio anticipa tutto ma poi bisogna rimborsarlo e questo sarà possibile con gli sforzi di ciascuno di noi. Giovanna, non è questo il momento”. Ed ancora una volta Giovanna china la testa.
Ma a testimoniare che la sua non è rassegnazione ma affidamento alla volontà di Dio, lo dimostra il fatto che il viaggio negli Stati Unità darà i suoi frutti. Infatti è grazie al terribile viaggio in nave ed all’incontro con i frati di Sant’Antonio in Sullivan Street che la vocazione di Giovanna si precisa come vocazione francescana. E proprio a Sant’Antonio Giovanna incontrerà in padre Daniele, una valida guida spirituale, che saprà consigliarla quando, a quasi tre anni dall’arrivo a New York, constatando che tutti i debiti con lo zio erano stati saldati e che ormai aveva compiuto ventisei anni, decide di riproporre con forza la richiesta di farsi suora. Ancora una volta la risposta di mamma Nunziata è negativa. “Solo ora, finalmente abbiamo un po’ di respiro e tu vuoi andartene? Non se ne parla proprio”. Ma questa volta Giovanna non è sola a decidere. Le viene in soccorso a confortarla la “sua voce” e padre Daniele, dopo averle chiesto di fare un ultimo tentativo che sarà ancora infruttuoso, decide di aiutarla. Finalmente anche per Giovanna è giunta la “sua ora”, l’ora di realizzare il suo sogno. E così Giovanna va alla casa delle novizie ad Allegany dalle Franciscan sisters che avevano un convento vicino alla chiesa di Sant’Antonio ed a metà luglio del 1899 vestirà l’abito francescano ed assumerà il nome di Maria Florenzia.
La pazienza dinnanzi alle prove
Superato il periodo della semina si apre per Florenzia un lungo periodo in cui la sua pazienza è messa alla prova e spesso si tratta di prove dure. La prima prova deve superarla negli Stati Uniti a Pittsburg dove è stata inviata con altre compagne per aprire un centro di assistenza sociale e spirituale per gli immigrati italiani. L’esperimento fallisce, non certo per colpa di Florenzia, e lei si trova nella delicata situazione di ricominciare tutto da capo e dover rifare il noviziato. In questo frangente si pone il problema di rientrare a Lipari dove è tornata la sua famiglia. Ma non è questo che la convince a rientrare. Florenzia torna a Lipari perché lì la chiama il vescovo di Lipari che vuole che si occupi delle ragazze madri e dei bambini abbandonati realizzando per loro un istituto. Ma proprio l’apertura di questo istituto sarà una prova durissima. La diocesi non può aiutarla e deve fare tutto da sola ma finalmente col sostegno della famiglia. Deve trovare una sede, deve arredarla, deve cercare delle novizie che accettino di condividere con lei l’esperienza, deve prendere contatto a Roma con il Ministro generale dei Frati minori per ottenere l’aggregazione all’ordine. Il vescovo di Lipari, Mons. Raiti la sostiene ma non può fare molto per non ingelosire le suore di Carità che sono a Lipari dal 1886 e si dedicano alla formazione delle ragazze delle famiglie borghesi.
Finalmente l’1 novembre del 1905, circa dieci mesi dopo il suo rientro a Lipari, nasce l’Istituto ma questo non risolve tutti i problemi. Anzi…Intanto mons. Raiti, che l’aveva richiamata a Lipari, lascia la diocesi per diventare vescovo di Trapani e dopo di lui i successori si susseguiranno con una certa rapidità fino a quando nel 1921 arriverà come amministratore apostolico mons. Salvatore Ballo Guercio che si rivelerà particolarmente ostile nei confronti di Florenzia e verso il suo Istituto. Mons. Guercio, che ritiene Florenzia non all’altezza del suo compito, vorrebbe che confluisse con le sue compagne in una congregazione più radicata e consistente e al suo rifiuto farà quanto è in suo potere per rendergli il cammino difficile. Tenterà inutilmente di non farla eleggere superiora, non riconoscerà la casa del noviziato ad Acireale e bloccherà le professioni di fede e le vestizioni. Saranno anni terribili nei quali ai problemi dell’Istituto si sommano i dolori e le sofferenze per la morte di una bambina, Linuccia, che le suore avevano cresciuto perché rimasta orfana durante il terremoto di Messina, quindi i suoi problemi di salute per le forti tensioni a cui il suo fisico era stato sottoposto, infine lo scandalo per l’abbandono di una suora.
Possiamo dire che solo col 1928 – ventitré anni dalla costituzione - il periodo delle prove può dirsi superato e l’Istituto entra in una fase nuova che abbiamo chiamato del raccolto.
La pazienza del raccolto
Fino a quel momento l’Istituto aveva vissuto in maniera stentata aprendo sedi nei piccoli paesi della provincia dove le suore insegnavano alle ragazze per lo più taglio e cucito ed aiutavano le parrocchie nella liturgia e nel catechismo. Ora Florenzia può pensare alle grandi città della Sicilia dove oltre alle povertà materiali crescono altre povertà che colpiscono l’animo e lo spirito delle persone e così nascono le case di Trapani, Catania ed infine Palermo. Povertà che sono accresciute dalla guerra mondiale con i bombardamenti, il mercato nero, gli sfollamenti. E quando la guerra finisce, il giorno stesso dell’armistizio, Florenzia, che ha ormai settant’anni e la salute malferma, con due suore parte per Roma, traversando un’Italia dalle ferrovie distrutte, dalle strade e ponti dissestati, per andare ad aprire a Roma la Casa generalizia che ha sempre sognato e senza la quale teme che il suo Istituto rimarrà sempre di diritto diocesano mentre lei vuole che diventi di diritto pontificio. Partono il 22 maggio 1945 e dopo due giorni e due notti di passione giungono in una Roma devastata, rifugio di sbandati, alle prese con una grave crisi degli alloggi. Cercano due cose: l’autorizzazione del Vicariato ad aprire una casa in città, un edificio che possa diventare la loro casa generalizia. Un obiettivo più difficile dell’altro perché il Vicariato è diffidente con le congregazioni siciliane che cercano una sede a Roma giudicandole affette di familismo e perché, come abbiamo detto, a Roma, in seguito ai bombardamenti ed alle vicissitudini di “città aperta” alle prese oltre che con la guerra fra americani e tedeschi anche con la guerra civile fra gli italiani, trovare un alloggio libero è praticamente impossibile. Eppure il 30 giugno a cinque settimane dall’arrivo le nostre suore hanno il contratto di un edificio e l’autorizzazione del Vicariato. Un vero e proprio miracolo. Un miracolo della fede e della pazienza.
Ora forse Florenzia potrebbe riposare tranquilla anche se le vicissitudini non mancano come l’infedeltà di una suora che crea molto imbarazzo. Ma c’è ancora una tappa da compiere prima che il raccolto sia completo. E’ una tappa importante a cui Florenzia ha spesso pensato ma che solo ora le si presenta concretamente. La tappa delle missioni. E alla fine di maggio del 1953 suona al cancello di via delle Benedettine un cappuccino missionario in Brasile, Padre Oderico, e, per il suo tramite, prende il via questa nuova avventura. E’ una esperienza che richiede a Florenzia più pazienza del solito perché ormai ha ottant’anni e non può pensare di andare lei in America Latina; perché il Brasile è lontano e la corrispondenza impiega settimane fra una lettera e la risposta, settimane che lei trascorre in trepidazione; perché è un mondo con cui si ha poca dimestichezza con una lingua diversa, costumi diversi, stagioni e clima diversi. Ma ormai Florenzia è maestra di pazienza e può raccomandarla alle proprie figlie. Probabilmente ripete a se stessa quanto scriveva Santa Teresa di Lisieux, la sua santa del cuore, come un’amica per lei: “Nulla ti turbi, nulla ti sgomenti, chi ha Dio nulla gli manca, con la pazienza tutto si acquista”. E questa massima di Teresa è divenuta anche sua e la ripete spesso alle sue figlie “Vi sentite sole? Ma quando avete Gesù nel tabernacolo della cappella, avete tutto”.
Conclusione
Vorrei concludere queste considerazioni sulla pazienza di Florenzia con due riflessioni legate proprio che giorno 24 giugno celebreremo la Venerabilità della Serva di Dio, un passo importante nel cammino del riconoscimento della sua santità. Essere santi vuol dire che il cristiano ha testimoniato la sua fede in modo eroico. Se la pazienza è la virtù principale di Florenzia possiamo dire che lei l’ha esercitata in modo eroico? Mi vengono in soccorso due massime che mi pare rispondano in pieno alla domanda. La prima è di Papa Gregorio Magno: “Noi possiamo essere martiri – osserva il grande pontefice - anche senza gli strumenti del martirio, se siamo pazienti” . La seconda è di Giacomo Leopardi: “La pazienza è la più eroica delle virtù, giusto perché non ha nessuna apparenza d’eroico”. Se la pazienza è una forma di martirio e di eroismo allora Florenzia li ha vissuti in pienezza.
La seconda considerazione riguarda il miracolo che di prassi la Chiesa richiede per riconoscere la santità ( anche se non sempre l’ha ritenuto necessario). Anche noi chiediamo che il Signore, affinché Florenzia venga riconosciuta santa, permetta dei miracoli legati alla sua intercessione ma ci viene da pensare che se leggiamo attentamente la vita di Florenzia proprio la sua vita è un miracolo. Un miracolo di pazienza che le ha permesso di ottenere risultati eccezionali.
Michele Giacomantonio
[1] Zygmunt Bauman, La nostra vita “digitale”, la Repubblica del 25 giugno 2014. Si veda anche Pier Cesare Rivoltella, UCSC, Comunicare al tempo dei media digitali: spazio tempo e relazione, PDF su internet. Mons. Claudio Maria Celli, Cercare la verità per condividerla, in www.ciberteologia.it.
[2] Sant’Agostino, La pazienza, in www.augustinus.it/italiano/pazienza/index2.htm.
[3] Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità. Pazienza, in www.donboscoland.it .
[4] José Maria Cabodevilla, Meditazione sulla pazienza, www.collevalenza.it.
[5] San Cipriano da Cartagine, De bono patientiae .I vantaggi della pazienza, 13.
[6] J.M.Cabodevilla, idem.
[7] E.Bianchi, idem
[8][8] I riferimenti a Madre Florenzia sono tratti dal mio libro Florenzia che ha svegliato l’aurora, Edizioni San Paolo, 2009.
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