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mercoledì 1 gennaio 2014

PROVINCE, SE SALTA LA RIFORMA TUTTI A CASA. E L’ARS PERDE LA FACCIA

L’Assemblea regionale siciliana ed il governo della Regione hanno l’opportunità di perdere la faccia, definitivamente, entro un breve lasso di tempo. Ce la faranno a coglierla? Un’occasione irripetibile gli viene offerta dal disegno di legge sull’abolizione delle Province e la nascita dei liberi consorzi di Comuni. La Sicilia, infatti, è antesignana, nell’era repubblicana, di un lucido disegno riformatore degli ambiti territoriali. I padri costituenti dell’autonomia, con grande lungimiranza, vollero che nello Statuto speciale fossero abolite prefetture e amministrazioni provinciali e le questure dipendessero dal presidente della Regione, Capo della polizia.
La permanenza delle province nell’unica Regione che non le prevede nel suo statuto speciale meriterebbe alcune righe nei libri di storia, l’ultimo capitolo di un percorso a ritroso cominciato mezzo secolo fa.
Le Province hanno subito un maquillage dopo 40 anni e sono rimaste quelle disegnate da Benito Mussolini, i presidenti della Regione non sono mai stati capi della polizia, ma sono finiti in galera o si sono trovati sulla soglia delle carceri per loro meriti personali; i prefetti ci sono ancora e contano più di prima. Anzi, ad onor del vero la Sicilia ne ha uno in più rispetto alle nove Province, il decimo è commissario dello Stato e conta di più del parlamento regionale, dato che gli fa le bucce seduta dopo seduta, a buon ragione qualche volta.
Ma tutto questo è niente rispetto a ciò che l’Assemblea è sul punto di scodellare nei prossimi mesi. Dopo avere gridato ai quattro venti che in Sicilia, prima che altrove, la Sicilia avrebbe abolito le Province rispettando finalmente la sua carta costitutiva, e avere fatto una legge all’uopo, qualche giorno fa con uno scarto di un voto, ha bocciato la proroga dei nove commissari che amministrano in gestione straordinaria le amministrazioni provinciali per traghettare l’Isola verso la riforma. Il tritolo dopo avere scavato le fondamenta del palazzo.
La proroga non boccia la legge che abolisce le province, ma crea le condizioni perché ciò avvenga. Se entro i prossimi mesi, infatti, l’Assemblea non dovesse approvare il nuovo assetto territoriale, si tornerà a votare per i consiglieri provinciali ed il presidente della Provincia. E la Regione siciliana rimarrebbe l’unica, in Italia, a mantenere le province (che però, qui si chiamano regionali, e quindi è come se fossero un’altra cosa).
La Sicilia, in caso di bocciatura della legge che abolisce le province, non perderebbe tuttavia solo la faccia – non sarebbe un trauma – ma andrebbe a nuove elezioni, essendo difficile sopravvivere ad una puttanata di tale portata storica, visto che nell’Isola, non altrove, sono nati i liberi consorzi di comuni. La marcia del gambero è consentita ovunque, ma non nell’Isola, costituendo un’abiura, clamorosa, dello Statuto e dell’autonomia speciale.
È vero che la Regione siciliana si è giocata gran parte della credibilità per il modo ignobile con il quale ha usato le competenze speciali, usando lo Stato per ottenere privilegi di casta, ma questo non giustifica affatto che la china debba essere percorsa fino in fondo e trascinare la storia dell’Isola verso la pagina peggiore, il non-ritorno.
C’è chi nega che si tratti la bocciatura della proroga sia da annoverare come una questione politica, la fisiologica conseguenza di uno scontro fra fazioni interne ai partiti, o fra maggioranza ed opposizione, o governo e parlamento. Si tratterebbe di una trasversale resistenza al cambiamento, vecchia storia, che trova epigoni in tutti gli schieramenti politici. Una asserzione che lascia le cose come stanno e non fa capire niente.
C’è chi, invece, gettando il cuore contro l’ostacolo, si schiera a favore del vecchio assetto provinciale senza sentirsi né un traditore né un troglodita, addirittura reputando di dare il meglio di sé.Nello Musumeci, antagonista di Crocetta nelle ultime regionali, e leader solitario dell’opposizione di centrodestra, seguace di Storace, ha detto chiaro e tondo che “l’abolizione delle province all’Ars non la vuole nessuno, ed è bene che questa verità venga fuori”. E per spazzare via i dubbi che attanagliano coloro che guardano ai costi della politica, propone che gli eletti – direttamente dal popolo, come prima – svolgano la loro attività a titolo gratuito. E alle famiglie degli eletti chi le campa? Qualcuno ha chiesto, inascoltato.
Le balle, colossali, si sprecano. E le furbizie, naturalmente. Musumeci va capito – le Province sono un segno inequivocabile del Ventennio – ma gli altri? L’abolizione delle Province è diventato il momento topico per la resa dei conti. Rosario Crocetta, esasperato, denuncia: “C’è chi gioca sporco, vogliono mantenere i privilegi”.
Ce l’hanno in tanti con lui e con tutto ciò che fa, ma lui una mano, ai suoi detrattori in servizio permanente, la concede con generosità. Come la storia della quarta area metropolitana, che non sta né in cielo né in terra. Il governatore ci mette buona volontà nell’offrire pretesti e alibi, sicché tutto finisce dentro una cortina fumogena, nella quale non è facile distinguere favorevoli, contrari e dubbiosi, a causa delle polemiche, botta e risposta, agguati, proclami e controproclami. Roba da Cottolengo, che viene la voglia di prendere il primo aereo e trasferirsi in Guinea-Bissau, dove si combatte ma almeno si capisce come stanno le cose, dove sono i nemici e dove gli amici.
Anche le suorine di Maria Addolorata, in convento giorno e notte, si sono persuase che questa storia delle Province ormai va portata a conclusione con un poco di buonsenso, perché tornare indietro o imbrogliare le carte diverrebbe un caso nazionale, e farebbe tale di quel danno, che i figli ed i figli dei figli di coloro che combinano la frittata dovrebbero cambiare le generalità per sopravvivere alla gogna mediatica, prevedibilmente così intensa e feroce.

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