Avevo raccolto abbastanza testimonianze ma mi correva l’obbligo di verificare di persona l’entità della colata e così indossate le scarpe da ginnastica, mi avviai verso Punta Corvo. Da lì avrei potuto vedere la colata e i crateri in totale sicurezza. Giunto sul posto mi fermai a osservare la colata. Il quadro della situazione era chiaro, potevo tornare a casa a scrivere il pezzo. Dovevo batterlo con la mia Olivetti lettera 32 e poi accendere il gruppo elettrogeno per inviare l’articolo via fax. A quel tempo Ginostra non aveva ancora l’energia elettrica e quindi non avevo, né un pc né un collegamento ad internet e l’unica luce che illuminava il mio lavoro era di una lampada a petrolio. Quella sera il mio telefonino, che caricavo ogni volta che accendevo il gruppo a gasolio, miracolosamente prendeva anche a Punta Corvo. Provai a prendere contatto con la redazione per chiedere altro tempo poiché non avevo ancora scritto niente. Il redattore delle regionali mi disse che potevo dettarlo per fare prima e così qualche secondo dopo mi passo il nastro. Non aveva capito che io ancora non ero pronto e non avevo buttato giù neanche una riga e così mi ritrovai all’improvviso sotto una montagna di fuoco con il nastro che incalzava. Potevo solo fare due cose; la prima era quella di interrompere la comunicazione e richiamare spiegando il disguido mentre la seconda era dettare il pezzo. Presi fiato e cominciai a dettare lentamente il mio primo articolo al nastro ispirandomi da ciò che vedevo: “Stromboli:- Dopo l’Etna, dalle 18,30 di ieri sera, anche lo Stromboli è in eruzione. Fiumi di lava si stanno riversando lungo il pendio della ‘Sciara del Fuoco’, giungendo fino a mare e illuminando a giorno l’isola, su cui cade una pioggia di sabbia. Enormi nubi di vapore acqueo alte chilometri salgono dal mare lungo il costone della Sciara. Uno spettacolo affascinante e al tempo stesso apocalittico giunto a sorpresa, che ha allarmato gli abitanti di Stromboli e quelli delle altre isole eoliane da cui lo spettacolo è ben visibile. La fuoriuscita di lava è stata preceduta da fortissimi tuoni che si erano verificati nel mese scorso in concomitanza delle colate laviche dell’Etna. Un fenomeno così non si verificava dall’inverno del 1985; allora, per diverse settimane, il vulcano emise lava tanto da formare un isolotto davanti alla Sciara del Fuoco che poi fu spazzato via dal mare. La bocca dalla quale fuoriesce il magma si presume che sia quella più vicina al versante di Ginostra, in altre parole quella di cui parlava il vulcanologo Franco Barberi, che in una sua recente intervista aveva previsto tutto. Uno dei primi ad accorgersi dell’evento è stato Giovanni Lo Schiavo, un abitante di Ginostra, che uscito fuori dalla sua abitazione attirato dai guaiti di un cane e rivolgendo lo sguardo verso l’alto ha visto l’incredibile scena.
I Carabinieri hanno immediatamente allertato la Protezione Civile e la Prefettura di Messina e hanno potenziato i controlli per evitare che qualche turista attratto dal fenomeno possa avventurarsi vicino alle bocche.
Gli abitanti di Ginostra, che sono quelli più interessati dall’evento eruttivo, sono invece in forte apprensione perché nel malaugurato caso in cui la lava cambiasse direzione o i lapilli colpissero le abitazioni e i depositi di bombole, non vi sarebbe per loro nessuna via di fuga a causa della mancanza di un approdo capace di evacuare in tempi brevi la popolazione. Il sindaco di Lipari, Mariano Bruno, ha invitato tutti alla calma fino alla verifica dell’entità del fenomeno da parte degli esperti; il professor Barberi e il capo del Dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso, da lui stesso sollecitamente avvertiti. Intanto due corvette della Guardia Costiera di Lipari sono pronte a muoversi in caso di necessità.”. Era fatta, tra sospiri e pause avevo completato il mio lavoro. Ero sudatissimo e preoccupato per ciò che avevo dettato di cui subito dopo non ricordavo una sola parola. Mentre tornavo a casa, mi venne in mente la scena di un film di guerra, di cui non ricordo il titolo, dove si vedeva un giovane cronista che a pochi metri dalla battaglia con un telefono satellitare dettava a braccio il pezzo descrivendo ciò che vedeva. Infondo, avevo fatto una cosa simile a pochi metri dal campo lavico dello Stromboli e ne ero orgoglioso. Giunto a casa, dopo una bella doccia, squillò il telefono. Era il numero della Gazzetta. Precipitai nello sconforto convinto di aver fatto un disastro irreparabile e invece dalla redazione Mario Cavaleri mi faceva i complimenti per l’ottimo lavoro svolto. Potevo andare a dormire tranquillo. La mattina successiva al risveglio il mio unico pensiero era di procurarmi il giornale per leggere cosa avevo dettato la sera prima e l’unico modo per procurarmi la Gazzetta del Sud era di andare a Stromboli, sull’altro versante dell’isola. Lì c’era un’edicola. Misi a mare la mia barchetta e partii. Arrivato all’edicola con soddisfazione, scoprii che il mio pezzo si era guadagnato il richiamo in prima pagina. Ne comprai tre copie e saltato in barca, ripartii per Ginostra di gran fretta. A meta strada proprio davanti alle prime casette di Puntalena il motore mi abbandonò e nonostante i vari tentativi di resuscitarlo non ci fu nulla da fare. Dovetti tornare a casa a remi, ci impiegai più di un’ora. Quando arrivai al Pertuso, ero stremato ma fortunatamente c’era mio padre che preoccupato per il ritardo che portavo mi aspettava al porto. Gli raccontai l’accaduto e poi insieme tirammo la barca in alto, nel “Fosso della Calce”, tanto finché il motore era rotto, non avrei potuto usarla più. Il resto della giornata lo passai a raccogliere informazioni e testimonianze per il mio nuovo articolo. C’era molto da scrivere.
La colata, dopo un primo rallentamento del flusso lavico, aveva ripreso vigore. Gli esperti rassicuravano gli abitanti e affermavano che il fenomeno non era pericoloso per la popolazione. Avevo raccolto diverse dichiarazioni. Potevo dettare il mio pezzo; questa volta, prima di chiamare in redazione lo scrissi a penna su di un foglio e poi sollevai la cornetta per trasmetterlo. Mi era andata bene la prima volta e non potevo rischiare ancora di essere colto impreparato. La mattinata del 30 Dicembre fu molto tranquilla e stando a quanto era stato diffuso, da un momento all’altro “Iddu” sarebbe tornato alla sua normale attività. Ero inquieto, qualcosa non mi quadrava. Intanto si era fatta l’ora del pranzo e per l’occasione avevo acceso il gruppo a gasolio per seguire il telegiornale, avrebbero parlato sicuramente di Stromboli e del vulcano. Infatti, a un certo punto, comparve sullo schermo una nota vulcanologa che minimizzava l’eruzione affermando che nel giro di qualche ora la parentesi eruttiva sarebbe terminata definitivamente. Proprio mentre l’esperta si riempiva la bocca di chiacchiere, sentii un rumore fortissimo e diverso dagli altri. Un rumore che non avevo mai sentito prima. Sembrava che qualcosa stesse friggendo all’ennesima potenza e che vi fosse una cascata a pochi metri da me. Capii subito che si trattava di un rumore che veniva dal mare. Saltai dalla sedia urlando: “Mamma, il maremoto... il maremoto.” Avevo intuito che il pericolo arrivava dal mare e in un paio di secondi ero già sul monumento ai caduti per guardare verso il molo. Restai di sale, davanti a me l’apocalisse: Il mare si era ritirato dal suo letto naturale per oltre70/80 metri lasciando il fondale completamente scoperto. Ci si poteva camminare. Le alghe sembravano cespugli al vento e i pesci saltavano sul fondale senza più il loro prezioso liquido. Un muro d’acqua, alto oltre 10 metri, si abbatté subito dopo sulla la costa del villaggio spazzando via ogni cosa. Le barche scomparivano inghiottite come fuscelli e gli scogli volavano da una parte all’altra. La scena si ripeté uguale per almeno cinque volte prima che tutto si placasse. Dopo il silenzio; un silenzio surreale e pauroso. Mille pensieri attraversarono la mia mente scuotendo il mio corpo che tremava impaurito. Avevo assistito a qualche cosa di unico, avevo visto in faccia la potenza distruttiva della natura e del mio vulcano. La gente, nel frattempo accorsa sul monumento ai caduti, piangeva disperata. Nessuno compreso me sapeva cosa sarebbe successo nelle ore a seguire ma se quello era il segnale d’inizio, certo non c’era da stare tranquilli. In quei momenti pensi soprattutto al peggio ma l’adrenalina ti fa andare avanti.
La mia barca era salva e mi aveva salvato fermandosi il giorno prima in mezzo al mare. Quello era l’orario in cui sarei tornato da Stromboli con il giornale e il maremoto mi avrebbe investito in pieno facendomi scomparire per sempre inghiottito dalle onde. Ero stato risparmiato dal mio angelo custode. Presi il telefonino dalla tasca e avvisai il giornale del maremoto. Mario Di Paola, il redattore della mia pagina, mi disse di fare attenzione e se era il caso di abbandonare l’isola di corsa. Dopo, chiamai l’agenzia Ansa e una mia amica che lavorava al TG5 per raccontare l’accaduto. Ero arrabbiato e sconvolto.
Il TG5 decise di mandare in onda la mia telefonata e l’agenzia Ansa trasmise il mio racconto e così nel giro di un’ora tutto il mondo parlava del maremoto di Stromboli. Chiamai Stromboli e inizialmente nessuno rispondeva. Il villaggio di Stromboli, essendo per buona parte appena sopra il livello del mare, era stato investito in pieno. Solo Scari e la parte alta restarono illese ma dalla Centrale Enel a Piscità il disastro. La centrale elettrica allagata, alberghi devastati, case distrutte e anche tre feriti. Questo era il primo tragico bilancio. Fortunatamente non c’erano stati morti. Due ore dopo il disastro buona parte degli abitanti di Ginostra erano già stati evacuati con gli elicotteri, l’unico mezzo che in quel frangente poteva giungere nella frazione, mentre a Stromboli una nave della Siremar e poi un aliscafo imbarcarono parte della popolazione che per precauzione stava abbandonando l’isola. Insieme con una decina di compaesani decidemmo di restare nel nostro paesino. Tornato a casa, il telefono non finì più di squillare e tra le tante telefonate ricevute due, mi colpirono particolarmente. La prima fu quella del Capo della Protezione Civile Nazionale, Guido Bertolaso, che voleva rassicurarci e sapere com’era la situazione a Ginostra. Disse: “Gianluca, se volete, veniamo a prendervi. Io sto sbarcando a Stromboli, non vi lasciamo soli.”. Lo Stato era presente e questo era rassicurante. Ancora non conoscevo quell’uomo, mi era sconosciuto, ma dalle sue parole comprendevo la grandezza del suo animo. La seconda telefonata fu quella dell’ex direttore del settimanale Panorama, Raffaele Leone, che a quel tempo era caporedattore centrale del quotidiano “Il Giornale”. Raffaele era un amico, lo avevo conosciuto anni prima quando faceva il corrispondente per il giornale “La Sicilia”. Raffaele, non sapeva ancora che io avevo da poco cominciato a scrivere, mi chiamò semplicemente per sapere come stavo. Da quella conversazione, alla fine, venne fuori un articolo a mia firma pubblicato sulla prima pagina del suo giornale. Per un giornalista alle prime armi finire sulla prima pagina di un giornale a tiratura nazionale e il massimo che si possa desiderare. Il resto del pomeriggio lo passai scrivendo, dettando pezzi e rispondendo al telefono sotto il rumore assordante degli elicotteri militari che sorvolavano l’isola. Finito il mio lavoro accesi la televisione e uno dei primi servizi di Raitre fu proprio dedicato al maremoto di Stromboli. Restai basito e mi sentii un tantino tradito quando vidi l’intervista che il giornalista stava facendo in diretta agli sfollati che sbarcavano da un elicottero a Messina. Erano alcuni miei compaesani che fino a un paio d’ore prima stavano sull’isola decisi a non partire e adesso li vedevo in tv lontani e al sicuro. Mi sentivo solo e impotente ma non volevo partire. La notte la passai insieme ai miei genitori nella loro camera. Eravamo vestiti di tutto punto con le scarpe ai piedi e uno zainetto ciascuno con una torcia, i documenti, le pile di ricambio e una bottiglia d’acqua e così ci addormentammo alle prime luci dell’alba. Gran parte della nottata la passammo fuori in terrazzo a commentare l’accaduto e a scrutare i movimenti del vulcano. Ognuno di noi aveva studiato un eventuale piano di fuga e trovato un riparo in caso di lancio incontrollato di lapilli e scorie incandescenti. La mattina del trentuno, dopo aver bevuto un bel caffe ed esserci aggiornati su quanto stava accadendo, prendemmo una decisione molto dolorosa. Eravamo rimasti veramente in pochi a Ginostra così come a Stromboli. C’era stato un vero e proprio esodo di massa. Mio padre voleva che andassimo via per qualche giorno; secondo lui non valeva la pena rischiare restando, era troppo pericoloso. La barca del “Rollo” era fuori uso, il maremoto l’aveva danneggiata, non c’era un approdo sicuro e l’unico modo per scappare in caso di necessità sarebbe stato l’elicottero ma con la bufera che sarebbe dovuta arrivare nella serata, anche l’elicottero non era tanto sicuro e poi in caso di cenere vulcanica nessun mezzo avrebbe potuto sorvolare la zona. Sentii il mio giornale e anche i redattori m’invitarono ad abbandonare il fronte e a spostarmi a Lipari, dove era stato creato un centro emergenza con tanto di sala stampa dove gli inviati di tutti i giornali e le televisioni nazionali seguivano l’evolversi dell’eruzione a stretto contatto con la Protezione Civile e i vulcanologi. Pensai e ripensai a cosa era più giusto fare e alla fine decisi di spostarmi con la famiglia. Chiamai il Sindaco di Lipari, Mariano Bruno, che due ore dopo mando un elicottero per prelevarci. Avevo raccolto le cose più importanti e gli effetti personali cui tenevo di più in un borsone. Dentro ci avevo messo anche i pochi risparmi accumulati negli anni. Eravamo speranzosi ma in realtà non sapevamo quando saremmo potuti tornare a casa. Nel peggiore dei casi quello sarebbe stato il mio ultimo giorno a Ginostra, ero preparato a tutto. Il vento aumentava e l’invio dell’elicottero era sempre più in forse ma alla fine arrivò. Avevamo portato con noi anche il nostro cane Rinti ma il pilota non voleva farlo imbarcare dicendo che con la tempesta in corso non si poteva aggiungere altro peso sull’elicottero. Io ero risoluto e determinato e dissi al pilota: “ O sale il mio cane o resto a terra pure io.” Alla fine dopo una lunga contrattazione trovammo un compromesso. Potevamo portare Rinti a bordo ma dovevamo lasciare i bagagli. Non ci pensammo su due volte, saltammo a bordo e lasciammo le nostre poche cose ai bordi dell’elipista. Il viaggio fino a Lipari fu veloce ma sembrava ugualmente che non terminasse mai. L’elicottero sobbalzava e i lampi sembravano centrarlo ogni volta. Piangevo, ma non di paura. Piangevo perché avevo dovuto abbandonare la mia casa, la mia vita e la mia isola e non sapevo quando sarei tornato; inoltre avevo dovuto lasciare la mia borsa con i documenti e i soldi. Arrivai a Lipari che era già buio; in tasca non avevo i soldi neanche per comprare un panino e dovetti chiedere ai negozianti dell’isola di farmi credito per qualche giorno. Mi sentivo svuotato e perso, ma dovetti farmi coraggio. La notte la passai con i miei a casa dei nonni materni che erano di Lipari e la mattina seguente mi piazzai al municipio, dove era stata allestita la sala stampa e da lì mi muovevo solo per mangiare o andare a dormire qualche ora. Dedicai anima e corpo alla mia professione di giornalista per tutto il tempo in cui restai a Lipari, in quel modo potevo vivere con apparente distacco ciò che mi era accaduto. Grazie alla scrittura e ai contatti che potevo avere come giornalista ero sempre super informato sull’attività del vulcano che era in continua evoluzione. Ebbi la fortuna, in quel frangente, di conoscere tanti colleghi anche famosi e importanti. Feci amicizia con Attilio Bolzoni di Repubblica, con Salvo Sottile di Mediaset e con tanti altri bravi giornalisti che negli anni a venire diventarono firme importanti. Uno su tutti Carmelo Abbate di Panorama che oggi si vede in tante trasmissioni televisive in qualità di opinionista e a volte di conduttore. Quel breve periodo per me, che ero alle prime armi, fu molto gratificate professionalmente. Attilio Bolzoni, aveva il fiuto per le notizie e trovava sempre qualche cosa d’interessante da approfondire. Io seguivo tutti, ascoltavo e osservavo per poi mettere in pratica quello che avevo assorbito nei miei pezzi per la Gazzetta, che in quel periodo mi dava tutto lo spazio che volevo. Nei giorni che seguirono lo tsunami, regnava il caos in tutta la provincia di Messina. Gli esperti brancolavano nel buio sparando le ipotesi più bizzarre e cambiando idea continuamente. Nessuno era capace di prevedere ciò che stava accadendo. L’unica cosa certa era che il maremoto era stato provocato da un collasso di una parte del costone della Sciara del Fuoco che aveva ceduto sotto il peso della colata lavica. Il costone che aveva ceduto era per buona parte sottomarino, essendo lo Stromboli coperto per quasi 2000 metri dal mare. Si parlava di milioni di metri cubi di materiale franato che finendo violentemente in mare avevano creato le possenti onde distruttive. Un fenomeno che nella storia dello Stromboli si era già ripetuto altre volte. L’instabilità del costone della Sciara e la colata lavica, che continuava senza sosta, lasciavano presagire un altro crollo e quindi un altro maremoto che in realtà non ci fu. Il materiale franava un po’ alla volta allontanando ogni giorno di più il pericolo. Era cominciata la gara a chi le sparava più grosse e, un noto vulcanologo, a quell’epoca molto potente e ascoltato, propose di bombardare la parte di costone ancora in bilico per eliminare il pericolo. Non si rendeva conto che quell’azione avrebbe potuto far esplodere lo Stromboli in maniera violentissima. Oltre ad un’esplosione improvvisa il pericolo maggiore sarebbe stato il contatto del canale magmatico con l’acqua del mare. Se per qualche motivo si fosse aperta una fenditura in profondità lungo il condotto lavico e vi fosse penetrata acqua in grossi quantitativi, si sarebbe innescata una reazione tipo pentola a pressione. L’acqua sarebbe evaporata velocemente creando una forte pressione che avrebbe fatto esplodere mezza isola. Ecco qual era il vero pericolo e la paura di chi aveva compreso ciò. Fortunatamente il noto vulcanologo fu messo in minoranza dai colleghi e la sua idea naufragò. La Protezione Civile Nazionale, con l’isola rimasta quasi deserta, portò i più grandi esperti esistenti e creò una rete di controllo e monitoraggio unica nel suo genere in Europa. Si cercava di capire e si sperimentavano sul campo strategie e strumenti utili alla prevenzione e alla tutela delle vite umane. In Italia non capitava tutti i giorni una grossa attività vulcanica seguita da un maremoto e quindi si era impreparati ad affrontare quel tipo di emergenza.
Nei mesi che seguirono il capo della Protezione Civile Nazionale, Guido Bertolaso, assumendosi tantissime responsabilità, riuscì a creare delle condizioni ottimali per la gestione emergenziale e un segno su tutti era stato la realizzazione dell’approdo di Ginostra che avrebbe permesso di far fuggire via mare gli abitanti in caso di eventuali emergenze vulcaniche. Un’altra mossa intelligente, a mio avviso, fu evacuare Stromboli senza nessuna ordinanza di evacuazione. Ci chiesero di lasciare l’isola per farli lavorare in tranquillità, spiegandoci di non voler fare un’ordinanza di evacuazione ufficiale per non complicare le cose. Infatti, assumersi la responsabilità di un’ordinanza di evacuazione durante un’eruzione vulcanica è molto più semplice che assumersi la responsabilità di toglierla in seguito. Essendo un vulcano attivo e vivo chi si sarebbe poi assunta la responsabilità di dire ufficialmente che non c’era più pericolo? Quanti anni sarebbero passati prima di poter tornare sull’isola? Anche in questo Guido Bertolaso dimostrò la sua grande capacità di saper gestire le emergenze. Certo in quella situazione ci fu anche tanta gente che ne approfittò speculandoci sopra ma questa è un’altra storia. In ogni emergenza ci sono sempre approfittatori e sciacalli.
I giorni e le notti passavano velocemente e grazie alla scrittura riuscivo a non impazzire. Avevo il privilegio, in qualità di abitante e di Giornalista, di potermi recare a Ginostra ogni due giorni con un elicottero della Marina Militare. Arrivavo alle 10:30 e ripartivo la sera all’imbrunire. In questo modo potevo portare da mangiare agli animali (avevo due muli e una decina di gatti), controllare di persona il mio villaggio che ormai era semi abbandonato (erano rimaste solo quattro persone) e l’attività del vulcano per il giornale.
Il mio primo sbarco a Ginostra dopo l’evacuazione restò impresso nella mia mente per sempre. Appena atterrati, avevo portato mio padre con me, trovammo tutti gli asinelli ai bordi della pista come se sapessero che solo da lì sarebbe potuto arrivare qualcuno. Nel villaggio il silenzio era irreale e veniva interrotto solo dal sorvolo degli elicotteri, l’unico rumore era quello. Elicotteri che andavano e venivano in continuazione come se stessero pattugliando una zona di guerra appena conquistata. Una sensazione desolante e di abbandono pervadeva il mio cuore e il mio animo. Fu un periodo molto triste. Ricordo che uno dei tanti viaggi fu come accompagnatore (guida) del giornalista di Panorama, Carmelo Abbate e del fotografo Fabrizio Villa. Per l’occasione ero stato ingaggiato un giorno intero dal settimanale. Era una giornata di tempesta e il nostro elicottero arrivato vicino a Strombolicchio fu investito da fortissime raffiche di vento, Il velivolo cominciò ad avere sussulti e perdite di quota. A bordo sbiancammo tutti e cominciammo a pregare i nostri santi protettori di farci arrivare sani e salvi a terra. Un’esperienza terribile che si finì comunque bene grazie alla bravura del pilota che riuscì ad atterrare, al C.O.A. di Stromboli, dopo diversi tentativi andati a vuoto. A Stromboli ci venne a prendere con una macchinina elettrica Luca Spoletini, l’addetto stampa del Dipartimento della Protezione Civile, che ci portò a vedere tutte le strumentazioni che avevano montato per monitorare il vulcano. In pochi giorni avevano fatto un lavoro incredibile. Dopo quasi un mese dall’evacuazione volontaria nell’aria si respirava che il rientro ufficiale sull’isola sarebbe stato questione di qualche giorno ancora. La Commissione Nazionale Grandi Rischi, composta dai massimi esperti italiani, non riusciva a prendere una decisione definitiva perché il vulcano continuava a destare preoccupazione. Era una fase di stallo che avrebbe potuto durare mesi o addirittura anni. La colata lavica aveva fatto collassare i crateri e una parte del condotto, il materiale era ricaduto all’interno delle bocche ostruendo gli sfiati che generano la classica esplosione stromboliana. Appena la lava avrebbe rallentato il suo flusso e la pressione del gas cominciato a risalire verso la superfice ci sarebbe stato il grande botto che avrebbe liberato le bocche dal materiale accumulato all’interno, ma era difficile prevedere quando ciò sarebbe accaduto. Si sarebbe innescato un meccanismo tipo pentola a pressione o meglio tappo di spumante. Quanto sarebbe stato violento lo scoppio? Anche quello non era prevedibile. Alla luce di tutto ciò si decise di far rientrare gli abitanti informandoli che l’emergenza era tutt’altro che finita. Quarantadue giorni dopo l’onda anomala, la popolazione rientrava sull’isola pronta a ricominciare e a organizzarsi per l’imminente stagione turistica che ormai era alle porte. Il grande rientro fu suggellato dall’allora Presidente della Repubblica Italiana, Ciampi, che, in quei giorni, si recò in elicottero sull’isola, incontrando gli abitanti, per dare un segnale forte della presenza dello Stato anche a Stromboli.
Il 5 aprile 2003, ore 09:15, una violentissima esplosione (paragonabile a quella del 1930) dai crateri sommitali (in particolare la bocca più vicina a Ginostra) con nubi alte alcuni chilometri colpì l’isola. Furono lanciati in aria massi grossi quanto automobili e dal peso di svariate tonnellate che si abbatterono sulla campagna di Stromboli e nel villaggio di Ginostra. Alcuni massi centrarono una casa di Ginostra distruggendola, delle strade e la cisterna di un’abitazione. Altri lapilli finirono in mare e lungo tutto il paesino creando sul suolo buche profonde alcuni metri nei quali sprofondarono scomparendo inghiottiti dal terreno. In una seconda esplosione, dopo qualche minuto, dalle viscere dello Stromboli fuoriuscì un enorme quantitativo di materiale scuro, incandescente e galleggiante, molto simile alla pomice. Il materiale fu sparato nel mare davanti a Ginostra e lo scalo del “Pertuso” fu ostruito per qualche giorno dalla pomice nera. Le porte delle abitazioni si aprirono e scoppiarono i vetri in tutte le case per il fortissimo spostamento d’aria. Non vi fu nessun ferito ma tanta paura. Gli isolani questa volta non vollero lasciare l’isola consapevoli che una volta saltato il tappo che ostruiva le bocche, il peggio era passato e si poteva cominciare a guardare al futuro con più serenità. Anche quella fu una giornata che non dimenticherò mai come il 30 dicembre 2002. Per la seconda volta, nel giro di pochi mesi, fui salvato dallo Stromboli, non era ancora giunto il mio momento. La casa andata distrutta era la mia e proprio quel giorno, a quell’ora, dovevo essere lì nella stanza che fu disintegrata da un masso grande quanto un’automobile. Con mio padre, in quel periodo, stavamo pitturando e sistemando la casetta per poterla poi affittare nel periodo estivo. Quella mattina pioveva e decidemmo di andare a lavorare più tardi soffermandoci a casa qualche ora in più. Solitamente alle 07:00 eravamo già a lavoro ma quel giorno il destino ci tenne lontano per proteggerci da una morte sicura. La violenza dell’impatto sulla casa fu così forte che le schegge del masso precipitato dai crateri, e sprofondato sotto il pavimento, arrivarono a conficcarsi, come dei proiettili, in una pianta di fichidindia a oltre 50 metri di distanza. Dall’emergenza Stromboli del 2002-2003 ho imparato che vivere sotto un vulcano attivo non è un gioco e che “Iddu” va rispettato e non bisogna mai dimenticarsi della sua esistenza. E’ lui che domina incontrastato sull’isola ed è con lui e con il suo umore alternante che bisogna fare i conti ogni giorno della nostra vita.
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