Leonida
Bongiorno
31 marzo 1977
Robespierre Docet (ricordi di Guerra)
Ho conosciuto il
professore Leonida nelle scuole medie a Lipari, “la Sorbona”, come la
chiamava Lui, ed oggi è per me un piacere poterlo ricordare attraverso alcuni
suoi scritti.
Il 31 marzo 1977
viene pubblicato il volume “Robespirre Docet” che racconta i
suoi ricordi di guerra.
Leonida rievoca i
giorni della sua permanenza in Francia, a Valence sur Rhone, all’indomani della
liberazione e dell’avanzare delle truppe. Nitidi i suoi ricordi su quei giorni
storici per la Francia e per l’intera Europa, rievoca con orrore l’esecuzione
di alcuni giovani: (…) Ma, bel al di là
dello spettacolo della folla e degli stessi carri armati, c’è qualcosa di assai
triste. Che pone gli uomini al di sotto delle belve. Dai bracci degli alti pali
dell’illuminazione della piazza, cappio al collo, pendon o otto dieci
giovanissimi. Sui diciotto vent’anni. Han tutti la stessa divisa. Della
Jeunesse Francaise.
Il racconto
diventa drammatico nel momento in cui, per un errore, viene arrestato insieme
alla sua amica francese, da lui chiamata “Butterfly”, scambiata per una
collaborazionista.
(…) dalla porta del corridoio buio, sbuca
Butterfly. Che singhiozza. E mi guarda smarrita. È sospita da due gendarmi
che la tengono stretta alle braccia mentre avanza barcollando. Ha i capelli
rapati a zero. A scale. Betterfly mi guarda ancora. Per qualche attimo.
Sconvolta. Mentre continua a singhiozzare disperatamente. Raggiuntas la soglia
del grande portone, uno di quei due loschi sggerri, con due pugni alle reni le
urla: - Vattene a casa tua, adesso!
Il calice è ormai colmo di veleno. Ed io sarei
costretto a berlo. Per questo, scatto in piedi come una furia. Gridando che
vergogne simili sono inammissibili.
E a questo punto ho la certezza che per me è veramente
la fine. Il capo della sbirraglia, dalla faccia di teschio vivente, dalla
fondina appesa al cinturone estrae la vecchia pistola a tamburo.
Vien verso di me urlando. Con l’arma spianata.
Ti uccido. Tu sei un italiano. Un vigliacco. Sei del
letame come tutti gli italiani. Una carogna da seppellire.
Tutti lo guardano spauriti. Temono stia per capitare
l’irreparabile. Mi è subito di fronte con la pistola spianata. Ed io con grande
sforzo faccio appena il tempo a mettermi in piedi. Nel vasto salone c’è solo
terrore. E silenzio. Mentre sono investito dalle raffiche dell’uragano. Col
calcio della pistola, questo straccio d’uomo comincia a colpirmi alle tempie
come un folle. Io, con le braccia immobilizzate dalla bestiale stretta delle
manette che mi torturano, non posso minimamente difendermi. E i colpi,
alternati e veloci, si abbattono sugli occhi. Sulla faccia. Sulla bocca. Sul
collo. E il sangue mi cola copioso.
Arrestato, picchiato,
torturato, teme ormai di essere ucciso, quando sopraggiungono i suoi amici
partigiani francesi, Kun, Lebouchard e Pierre.
Il volume è stato
stampato presso La Grafica di Messina dalle edizioni Spes di Milazzo. Una copia
è conservata presso la Biblioteca comunale di Lipari.
Nel corso di
alcune mie ricerche, infine, mi sono imbattuto in una sua lettera datata 1 gennaio 1957. La lettera è
indirizzata all’allora direttore del Notiziario delle Isole Eolie, Avvocato
Salvatore Saltalamacchia, nonché assessore ai Lavori Pubblici di una delle
diverse amministrazioni Vitale. Non è il Leonida (Alessandro Preziosi) che
abbiamo ammirato nella fiction, ma il Leonida, già assessore e consigliere
comunale di Lipari, esponente di una minoranza che ha fatto della difesa del
suo territorio, delle sue tradizioni, della propria autonomia, una battaglia di
vita.
Lettera al
Direttore
Caro, direttore,
in qualità di indigeno della nostra tribù indirizzo a te questa lettera per due
ragioni. La prima perché disponi di un quindicinale, la seconda perché fai
parte del governo dell’isola. Ecco lo scopo. Senza preamboli. Cosa fanno, anzi cosa strafanno a Marina
Lunga?
Si tratta certo di
un lavoro del Genio Civile, perché i robusti pilastri in cemento armato, ancora
freschi di getto e quindi incassati nella carpenteria, lasciano chiaramente
supporre una nuova costruzione che farà corpo con quella preesistente della
vecchia baracca in muratura in cui sono custoditi i motoscafi del citato ente.
Ma perché? Non
bastava già il fungo di prima? Perché aggiungerne un altro? Lì proprio sulla
spiaggia?
Nessun dubbio che
occorrerebbe un tifone intelligente per cominciare a spazzar via la quasi
totalità delle capanne, grandi e piccole di Marina Lunga. Ciò non toglie però
che il Genio Civile, invece di aumentarne la bruttura, avrebbe potuto pur
chiedere un modestissimo parere o consiglio e perché no, anche un permesso al
governo della tribù.
Come? Il Genio
civile chiedere permesso o consiglio ecc.?
Si. Certo. Nessuna
offesa. Una pura e semplice forma di cortesia. Che la risposta sarebbe stata altrettanto
semplice e cortesissima: signori del Genio Civile, per i ricoveri dei vostri
motoscafi, per i vostri uffici, per le vostre abitazioni quali egregi
funzionari, fate quel che volete. Vi mettiamo a disposizione i fronti su tutte
le spiagge dell’intero perimetro dell’isola, ma voi volete Marina Lunga. Vada
per Marina lunga. Ma lasciate la spiaggia e quindi libero l’orizzonte. Vi
offriamo braccia, mazze e picconi per smantellare la vecchia baracca in
muratura, ricovero dei vostri veloci mezzi marini, fino all’ultima pietra delle
fondazioni e vi diciamo, non avete che da scegliere. Vi aiutiamo, se
necessario, anche ad espropriare una dozzina di vecchie capanne. E in tutto
quel fronte e in tutta quella profondità costruite tutti i ricoveri, tutti i giardini,
tutti gli uffici e tutte le abitazioni che volete. Ma per favore. Anche voi
mettetevi in riga e allineatevi.
Ti dico Direttore
che ho fiducia nell’opera intelligente del nostro sindaco perché, se non se n’è
già occupato, si occupi urgentemente di questa piccola faccenda. Ed è bene che
lo faccia. E subito.
Il problema dei
lavori pubblici e privati, nel quadro dello sviluppo turistico e soprattutto
estetico della nostra tribù, dovrà esser preso di fronte a breve scadenza da
parte della commissione edilizia. E per favore, col massimo rispetto per tutti
gli egregi funzionari che ci degnano della loro attenzione, nessuno
cortesemente metta il naso nelle nostre bucce.
Siamo noi, senza
presunzione né immodestia, e solo noi, i modesti custodi della bellezza semplice
della terra nostra.
Caro Direttore, ho
detto. Come Chitarrella, quando giocava allo scopone scientifico. Se mi darai
ospitalità, ma per intero, ti ringrazio. Se per caso fossi spinto da estrema
diplomazia a fare il Catone, metti pure agli atti nel cestino questo foglio. Ho
la velina. Ma non ti ringrazio.
Ad ogni buon
conto, stasera 1 gennaio 1957, ugualmente e idealmente alzo il calice e bevo
alla prosperità tua personale, del tuo quindicinale (quando non sa di cera) e
dell’intera nostra tribù.
Tuo Leonida
Buongiorno
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