Cerca nel blog

martedì 21 ottobre 2025

Centodieci anni fa, il primo caduto eoliano nella “GRANDE GUERRA” : GIOVANNI FRANGIONE

Da una ricerca Giuseppe Cirino, dedicata ai caduti Eoliani nella Grande Guerra (1915-18)


           
All’ingresso nel primo conflitto mondiale dell’Italia, il Regio Esercito aveva schierato in campo un numero di divisioni e mezzi superiori a quelle degli Austroungarici, ma le differenze sostanziali furono soprattutto costituite dai livelli di preparazione di questi ultimi e dal fatto che durante tutto il periodo di neutralità scelto dalla nostra nazione, i generali Austriaci, fecero realizzare in località strategiche (passi vallivi, catene montuose e rilievi), poderose fortificazioni, campi trincerati e reticolati, garantendosi una netta supremazia e dominanza del territorio. D’altra parte il Generale Cadorna ed il suo stato maggiore,  avevano incentrato la loro tattica, sulle cosi dette “spallate iniziali” ovvero massicci attacchi su zone concentrate di fronte, che avrebbero dovuto garantire un rapido raggiungimento dell’obiettivo con il passaggio dell’Isonzo, per la  conquista di Gorizia e di Trieste e sul fronte Carnico con la conquista del Trentino.
                Gli Austriaci, lasciarono dunque nei primi giorni di conflitto, spazio alla manovra italiana senza operare consistenti resistenze e consentendo al grosso delle loro truppe, un’ordinata ritirata strategica sulle linee difensive stabilite dai piani dal generale Conrad.
                Dal 23 giugno al 7 Luglio 1915, l’Italia tentò la prima “Spallata” (1^ Battaglia dell’Isonzo) con l’obiettivo di avanzare sul fronte della Venezia Giulia verso il campo trincerato di Gorizia ed allo stesso tempo, svolgere un’azione di diversiva sulla fronte  del Cadore e della Carnia. Gli obiettivi raggiunti si rivelarono però pressoché inconsistenti e le truppe italiane riuscirono solo a conquistare alcune porzione degli obiettivi strategici prefissati. Le fanterie si dissangueranno nel primo grande attacco contro i trinceramenti delle linee Sabotino – Podgora – Oslavia.
                All’alba del 18 Luglio del 1915 il fuoco delle nostre artiglierie, fu preludio alla 2^ Battaglia dell’Isonzo (Dal 18 Luglio al 3 agosto 1915) che su uno scenario pressoché immutato, vide contrapporsi la II e III Armata Italiana guidate dal Duca D’Aosta e dal gen. Frugoni contro il sistema difensivo austriaco comandato dal generale Boroevic. La tattica italiana rimase immutata rispetto alla prima battaglia, e sullo stile delle esperienze risorgimentali, predilesse massicci attacchi frontali alla baionetta, che dissanguarono le fanterie contro le ben munite e difese postazioni di mitragliatrici ed i reticolati austriaci.    Per favorire ulteriormente l’avanzata, il Comando Supremo aveva anche organizzato un’ulteriore manovra diversiva nell’area del Trentino e nell’area di Gorizia. La manovra nel Trentino non era necessaria, mentre gli attacchi contro la piazzaforte di Gorizia  furono inconcludenti. Gli Austriaci  riuscirono a respingere i primi attacchi ed a mantenere le posizioni sul Carso, Gorizia e dintorni. Gli italiani riuscirono comunque ad occupare una parte del Monte Nero il Colovrat la conca di Plezzo vicino a Caporetto  e postazioni sull’Alto Isonzo. La battaglia si concluse per mancanza di munizioni di artiglieria ed armamenti vari, poco prima che la prima linea austriaca stesse per cedere, costando alla nostra nazione circa 42.000 tra morti, feriti, dispersi e prigionieri.
Sarà proprio in questo periodo e nel contesto sopra descritto, che perderà la vita il primo fante Eoliano:

Frangione Giovanni   figlio di Giovanni e Barea Giuseppa  nato a Lipari  nel 1894 – distretto militare di Messina
Soldato del 49° Reggimento di Fanteria di linea 6^ Compagnia matricola 42379 (20) – 4^ Armata – 1° Corpo d’Armata  - 1^ Divisione di Fanteria .
Morto il 28 luglio 1915 per ferita mortale ricevuta in combattimento all’età di 21 anni


Sepoltura originaria: Monte Logorai – sepoltura attuale:  Ignota
Unità di appartenenza
Brigata Parma – 49 ° e 50° Reggimento di Fanteria
 
Sede dei reggimenti in tempo di pace: Torino.
Periodi di permanenza della Brigata Parma al fronte:
Anno 1915:
-          Dal 24 maggio al 6 novembre: Nel Settore di San Pellegrino – Col Margherita – Sottosettore di Valles
-          Dal 12 novembre al 31 dicembre: Passo Valles – Zona di Ghirlo.

Circostanze della Morte del Fante Frangione Giovanni

-          Riassunto dai Diari di guerra della Brigata Parma:

La brigata Parma, all’inizio delle ostilità si trova riunita a Sedico – Bribano. Verso la metà di Luglio , risalito il Cordevole, le viene affidato il compito di presidiare i passi san Pellegrino e di Vallesalle dipendenze della 1^ divisione inquadrata nei ranghi della IV Armata comandata dal generale NavaLa Brigata svolge in questo periodo azioni di controllo e pattugliamento e partecipa alle azione diversive delle prime due “Battaglie dell’Isonzo” nella zona compresa tra l’Alto Isonzo ed il Trentino”.
 Nell’ultima decade di ottobre il IX Corpo d’Armata svolge un attacco sulla fronte Col del Bois – Col di Lana, e la Parma vi partecipa, sempre alle dipendenze della 1^ divisione. Il 49° fanteria muovendo dai passi di San Pellegrino e di Valles, riesce il 22 ottobre , ad occupare con due compagnie il Monte Castellazzo, mentre il 50° manda i sui battaglioni a rincalzare altre unità operanti contro il Col di Lan, Sief, Settsass.

Dal  al 23 luglio al 6 dicembre 1915 , il  49° reggimento subirà le seguenti perdite

Ufficiali
Truppa
Morti
Feriti
Dispersi
Morti
Feriti
Dispersi
1
5
/
8
41
/
 

Nel diario di guerra della brigata Parma, nell’ultima decade di luglio, non si registra lo svolgimento di particolari azioni di rilievo che abbiano visto impegnati i reparti alle sue dipendenze; è quindi probabile che il soldato Frangione Giovanni sia rimasto mortalmente ferito, durante lo svolgimento di ordinarie operazioni di pattugliamento, presidio o manovre diversive.
                Ulteriori informazioni sull’episodio che vide coinvolto il fante liparese, sono fornite dal registro dello stato civile del 49° reggimento di fanteria, dove alla pagina 49 riga 49 viene annotato quanto segue:

“ L’anno millenovecentonovantacinque addì ventotto del  mese di luglio nel monte Lagarnoi (errata trascrizione il corretto riferimento è monte Logorai – settore delle dolomiti) mancava ai vivi alle ore dodici pomeridiane in età di anni ventuno, il soldato Frangione Giovanni della 6° Compagnia al n° 42379 (20) di matricola – nativo di Lipari provincia di Messina, figlio di Giovanni e di Barea Giuseppa. Morto in seguito a ferita d’arma da fuoco per fatto di guerra. Sepolto a Monte Logorai come consta dal verbale mod.147 e dall’attestazione delle persone in esso firmate e a piè del presente sottoscritto  testi Capitano Nardi Vito – Sergente Piga. Il relatore incaricato Capo Divisione Gabrielis.”
I riferimenti alla morte del Soldato Frangione Giovanni, parlano in modo generico del Monte Lagorai che costituisce solo una delle cime della catena montuosa o dolomite del Lagorai, con un’estensione di circa 70 km. Nel periodo storico a cui si fa riferimento la IV Armata a cui era affidate le operazioni in detto settore, non controllava ancora le vetta Cima Lagorai che si staglia fino a 2585 mt. di altezza, ma solo i passi sottostanti e gli sbocchi verso le valli.
Solo nel 1916 azioni condotte da piccoli nuclei scelti di alpini e fanti, riuscirono a scalare le impervie cime dove si annidavano insidiose e predominanti (per via dell’altitudine e dell’accessibilità) le postazioni austriache.

APPROFONDIMENTO:
Per tutto il 1915 l’Esercito italiano aveva sepolto i propri caduti nei cimiteri civili di Primiero e Canal San Bovo, o in piccoli camposanti a ridosso delle prime linee. Il 2 novembre 1916 venne inaugurato invece il cimitero militare italiano di Caoria (ancora oggi esistente), che raccolse la maggior parte dei caduti italiani tra passo Cinque Croci e cima di Cece.

Truppe italiane su rilievi montuosi 

TRATTO DALLE MEMORIE DI GUERRA DI UBALDO BINOTTI SOLDATO DEL “49° REGGIMENTO DI FANTERIA BRIAGATA PARMA” PUBBLICATE SULL’ESPRESSO.
Mi sono imbattuto casualmente in questo articolo, dove il soldato Binotti descrive in maniera fedele lo spostamento della Brigata Parma verso le prime linee del Trentino. Certamente la lunga marcia descritta, fu fatica sopportata anche dal Fante Eoliano Giovanni Frangione.
“ La sveglia fù suonata alle ore 1 di notte e dopo preso un po' di caffè, ci consegnarono i viveri di riserva e dopo poco partimmo, non erano ancora le ore 2 quando iniziammo la marcia, con lo zaino pieno in assetto di guerra con tutte le munizioni pacchetto di medicazione, e tutti gli attrezzi e pesava circa quaranta Kg.
Si marciò transitando da Agordo quindi raggiungemmo il paese di Cencenighe, dove a destra c'è il bivio che porta a Alleghe e Caprile fino a raggiungere Cortina d'Ampezzo, e durante la marcia transitammo da diversi paesi, e finalmente raggiungemmo il  paese di Falcade Basso, che era l'ultimo paese in terra Italiana.
Si traversò questo paesetto ma a un certo punto la strada finiva, e dal punto che finiva la strada, si cominciava a salire per una stretta mulattiera, che era tutta ingombra da grossi ciottoli e nel centro scorreva un rigagnolo d'acqua, già principiava a farsi scuro, e noi dovevamo ancora camminare, quando cominciammo a salire per la mulattiera, sembrava di salire come quando Cristo, salì sul Calvario dalla grande stanchezza, che tutti sentivamo non essendo abituati a marce cosi lunghe, e su un terreno cosi faticoso, e quando davano il segnale di alt per un po' di riposo, non ci si toglieva di dosso lo zaino, ma ci buttavamo a terra come si butta a terra una balla di cenci.
Dopo una marcia di circa 45 o 46 Km più morti che vivi, e che a tutti dolevano i piedi, raggiungemmo la vetta di Passo Valles la cima dove c'erano le trincee questa cima era a oltre i 2000 metri di altezza, e li si dette il cambio ai fanti del 60F.a.
Era già notte ci fecero montare le tende, e si credeva cosi di poter un po' riposare, dopo la lunga marcia iniziata alle ore 2 esclamando finalmente e finita, e ci si sarebbe potuti buttare a terra per poter un po' riposarci

Avevamo appena finito di montare le tende, e si credeva di poter riposare, gettandosi a terra sopra una coperta, che avevamo appena disteso per terra per sdraiarsi sopra, udimmo un fischio e nello stesso istante un grido era il comandante del nostro plotone, che gridava secondo plotone adunata, e ci ordinò di prendere il telo da tenda e i picchetti, la coperta e i viveri di riserva, pacchetto di medicazione e tutte le cartucce, mettersi il telo da tenda e la coperta avvoltolati a tracolla, il resto tutto dentro il tascapane, lasciare lì lo zaino perché, si doveva andare a dare il cambio al posto avanzato, che era in una posizione ancora più alta, e c'era da percorrere un'altra po' di strada in salita.
Eravamo un po' frastornati dalla grande stanchezza, a causa della lunga e terribile marcia che avevamo fatto per raggiungere la cima di Passo Valles, e un po' per la rabbia e a qualcuno, scappò qualche imprecazione, e qualche bestemmia, mentre il nostro sottotenente, che era pure lui un richiamato, ci esortava a essere calmi e ci incoraggiava, acciocché ci facessimo animo, con parole paterne dicendoci che questi strapazzi, a cui si era sottoposti a sopportare erano a causa della guerra, e che ormai bisognava far si di avere tanta forza, e costanza, onde poter sopportare con meno disagio possibile, gli sforzi a cui saremo andati incontro, ma sperando che tutto andrà bene sperando altresì che la guerra finisca presto, e che il buon Dio veglierà su noi tutti.
Queste erano tutte belle e buone parole e buone esortazioni, ma le nostre povere membra erano ridotte all'estremo limite che umana persona può sopportare, e al solo pensare che dovevamo rimetterci in cammino, e che essendo gia notte e molto buio e non si vedeva, fù un momento terribile, che non scorderò.

Il cammino fù molto faticoso e lungo, perché camminavamo su un terreno di montagna, e non era ne una strada ne una mulattiera, era un susseguirsi di un terreno tutto ineguale e spesso qualcuno cadeva, ci volle circa due ore prima di giungere al punto dove c'era il posto avanzato. Appena arrivati i fanti del 60 scapparono come lepri inseguite dai cani, e a noi non ci diedero ne ci spiegarono, nulla circa a come era il posto che noi dovevamo difendere, da eventuali attacchi del nemico, solo ci dissero attenti perché davanti a voi, non c'è nessuno c'è solo il nemico, attenzione a non addormentarsi perché qui dormire significa morire, e dette queste poche informazioni essi scesero giù dalla montagna.

Scrivevamo così...oggi...lo scorso anno


 

Oggi, 21 ottobre: Beato Giuseppe Puglisi

Don Giuseppe Puglisi nacque a Brancaccio un quartiere di Palermo il 15 settembre 1937 da Carmelo, calzolaio, e Giuseppa Fana, sarta.

Entrò nel seminario diocesano di Palermo nel 1953 e venne ordinato sacerdote dal cardinale Ernesto Ruffini nel 1960. Nel 1961 venne nominato vicario cooperatore presso la parrocchia del SS.mo Salvatore nella borgata di Settecannoli sempre a Palermo, e dal 27 novembre 1964 operò anche nella vicina chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi a Romagnolo.

Dopo essere divenuto confessore delle suore basiliane Figlie di Santa Macrina nell’omonimo istituto iniziò anche la carriera di insegnante. Nel 1967 fu nominato cappellano presso l’istituto per orfani “Roosevelt” all’Addaura e vicario presso la parrocchia Maria Santissima Assunta a Valdesi. Nel 1969 fu nominato vicerettore del seminario arcivescovile minore. Nel settembre di quell’anno partecipò ad una missione nel paese di Montevago, colpito dal terremoto.

Seguì in particolare modo i giovani e si interessò delle problematiche sociali dei quartieri più emarginati della città. Seguì con attenzione i lavori del Concilio Vaticano II e ne diffuse subito i documenti tra i fedeli, con speciale riguardo al rinnovamento della liturgia, al ruolo dei laici, ai valori dell’ecumenismo e delle chiese locali. Il suo desiderio fu sempre quello di incarnare l’annunzio di Gesu’ Cristo nel territorio.

Il primo ottobre 1970 venne nominato parroco di Godrano paese in provincia di Palermo a quei tempi segnato da una sanguinosa faida riuscendo a riconciliare le famiglie dilaniate dalla violenza con la forza del perdono.

Il 9 agosto 1978 fu nominato pro-rettore del seminario minore di Palermo e il 24 novembre dell’anno seguente fu scelto dall’arcivescovo Salvatore Pappalardo come direttore del Centro diocesano vocazioni. Il 24 ottobre 1980 fu nominato vice delegato regionale del Centro vocazioni e dal 5 febbraio 1986 divenne direttore del Centro regionale vocazioni e membro del Consiglio nazionale. Agli studenti e ai giovani del Centro diocesano vocazioni dedicò con passione lunghi anni realizzando, attraverso una serie di “campi scuola”, un percorso formativo esemplare dal punto di vista pedagogico e cristiano.

Promotore di numerosi movimenti tra cui: Presenza del Vangelo, Azione cattolica, Fuci, Equipes Notre Dame, Camminare insieme. Dal maggio del 1990 svolse il suo ministero sacerdotale anche presso la “Casa Madonna dell’Accoglienza” a Boccadifalco, dell’Opera pia Cardinale Ruffini, in favore di giovani donne e ragazze-madri in difficoltà.

Il 29 settembre 1990 venne nominato parroco a San Gaetano, a Brancaccio, e dall’ottobre del 1992 assunse anche l’incarico di direttore spirituale del corso propedeutico presso il seminario arcivescovile di Palermo. Il 29 gennaio 1993 inaugurò a Brancaccio il centro “Padre Nostro”, che divenne il punto di riferimento per i giovani e le famiglie del quartiere.

Giuseppe fu sempre attivo nel suo quartiere per rivendicare i diritti civili della borgata, denunciando collusioni e malaffari e subendo minacce e intimidazioni. Venne ucciso dalla mafia in piazzale Anita Garibaldi 5, il giorno del compleanno, 15 settembre 1993. La salma fu tumulata presso il cimitero di Sant’Orsola, nella cappella di Sant’Euno e ad aprile 2013 la salma fu poi traslata nella cattedrale di Palermo.

La sua attività pastorale costituì il movente dell’omicidio, i cui esecutori e mandanti mafiosi furono arrestati e condannati con sentenze definitive fatto che spinse subito i fedeli al riconoscimento del martirio che avvenne nel dicembre del 98 ad opera del Cardinale Salvatore De Giorgi. Fu beatificato il 25 maggio 2013 al “Foro Italico Umberto I” di Palermo.

Buongiorno. Oggi è martedì 21 ottobre


 

lunedì 20 ottobre 2025

Accadde oggi...nel 1999


 

Come eravamo, luoghi, cose e personaggi delle Eolie di un tempo (22° puntata): Un quartetto, una chitarra + 1

Per come eravamo quest'oggi vi proponiamo un quartetto d'amici, una chitarra e un fan (perplesso)
Da sx: Liborio Cataliotti, Nunziello Li Donni, Carmelo Travia e Maurizio Ferrara.
Alle spalle: Domenico Lo Sinno alias "Lampadina"

Humanitas per le Isole Eolie, oltre 100 visite gratuite in due giorni

La prevenzione non ha confini, attraversa il mare e, dalla Sicilia, arriva fino a Lipari. L’iniziativa “Humanitas per le Isole Eolie”, del 17 e 18 ottobre, promossa da “Humanitas Istituto Clinico Catanese” e “COT Istituto Clinico Polispecialistico”, ha registrato oltre 100 visite in due giornate, grazie al team medico e allo staff, che hanno accolto anche chi non era riuscito a prenotarsi pur di garantire ulteriori e importanti possibilità di un controllo.

Venerdì e sabato, negli spazi dell’Ambulatorio Polispecialistico Eoliano COT di Lipari, si sono svolte visite senologiche e urologiche gratuite, dedicate alle donne e agli uomini nati o residenti nelle sette isole dell’arcipelago. Un’iniziativa che ha portato la prevenzione nel cuore del Tirreno, avvicinando ancora di più Humanitas alle Isole Eolie.

“Un’attività come quella di Humanitas che offre i suoi servizi alla popolazione delle Isole Eolie è importantissima. Le attività di screening sono basilari per le politiche sanitarie delle regioni, quindi incentivarle e coltivarle significa fare un grande lavoro per la sanità della nostra Regione”, spiega Marco Ferlazzo, Presidente di COT Istituto Clinico Polispecialistico. “È stato fondamentale anche incontrare i medici di famiglia, le istituzioni e chi lavora ogni giorno sul tema. L’obiettivo è offrire ai pazienti nuove specialità, garantendo il massimo della qualità sanitaria e un percorso completo di cura”.

“Siamo molto soddisfatti del risultato di questa iniziativa – afferma Corrado Malandrino, Direttore Generale di COT – È stato importante poter avvicinare le competenze dei nostri centri alla popolazione dell’isola”.

“Un ringraziamento speciale – spiega una nota – va a tutto lo staff di Humanitas e COT e ai medici: le senologhe Debora Fichera e Maria Gloria Marino, la radiologa Francesca Panarello, gli urologi Angelo Navarra e Giorgio Lo Giudice, e il fisioterapista Michele Farchica.

Per il Vice Sindaco di Lipari, Saverio Merlino, giunto al COT insieme all’Assessore al Territorio Giovanni Iacolino, “un’iniziativa come questa è un momento importante per le isole e per l’arcipelago. C’è bisogno di sanità, e questi due giorni offerti da Humanitas rappresentano un’occasione fondamentale per avvicinare i cittadini alla prevenzione, soprattutto in territori dove i servizi sono più limitati. La salute pubblica è un bene prezioso e va assolutamente tutelato”.

“Il successo dell’iniziativa conferma la validità del percorso condiviso tra Humanitas Istituto Clinico Catanese e COT, nato per offrire cure e competenze specialistiche anche in contesti più piccoli. Medici e staff hanno lavorato con grande spirito di squadra per rispondere alle numerose richieste arrivate, con un’adesione ben oltre le aspettative”, queste le parole di Giuseppe Sciacca, Amministratore Delegato di Humanitas Istituto Clinico Catanese e COT.

“Con Humanitas per le Isole Eolie, la rete Humanitas prosegue nel suo impegno a diffondere la cultura della prevenzione in tutta la Sicilia, a partire dai luoghi dove è più necessario esserci”, conclude la nota.

Nella foto:

Da sinistra/ dott. Angelo Navarra, dott. Giorgio Lo Giudice, dott.ssa Deborah Fichera, dott.ssa Maria Gloria Marino, dott.ssa Francesca Panarello

Scrivevamo così...oggi...lo scorso anno


 

Eoliani e amici delle Eolie che non ci sono più (Riproposizione 85° puntata, deceduti da luglio ad agosto 2024) (video di 2 minuti e 20 sec.)

In questo video realizzato con le foto in nostro possesso: Giovanni Portelli, Pierpaolo Cincotta, Elio Zanca, Fabio Merlino, Michele Giacomantonio, Giacomo Li Donni in Finocchiaro detto Giacomino, Concetta Puglisi ved. Natoli, Grazia Anna China in Saporita, Mario Vincenzo Famularo, Massimo Sidoti, Mihai Botez, Olga Anna Maria Giorgio, Antonia D'Ambra ved. Manfrenunzi, Pietrino Benenati, Attilio Famularo, Pina Berzi, Bartolo Reitano, Rita Filomena Camporeale ved. Torre

Tanti auguri di...


Buon compleanno a Laura Lo Ricco, Marco Favaloro, Giuseppe Cirino, Alessandro Ficarra, Alessia Sarpi, Robert Mondello, Rosellina Neri, Massimo Lo Schiavo


"Novecento": Rubrica settimanale a cura di Pino La Greca. Oggi: La vita dei coatti alle isole di Lipari

 


La vita dei coatti alle isole di Lipari

Un “reportage” del Corriere della sera

(estratto da: La lunga notte di Lipari, ed. Centro studi, 2010)

Il servizio giornalistico che segue è contenuto nelle pagine della “La Lettura” rivista mensile del Corriere della Sera, anno VIII n. 3 del marzo 1908 dalla pagina 228 alla pagina 232, la firma in fondo all'articolo è “Rossana”.


Certamente non è proponibile che il redattore sia venuto alle Eolie in pieno inverno 1908, ma molto probabilmente nell'estate/autunno del 1907 e riportato sulla rivista nel numero di marzo. Il tempo dei coatti politici è terminato, la testimonianza spazia dalla descrizione fisica delle isole, alle descrizione del Castello alla cronaca di tutta una serie di situazioni e di personaggi originali rispetto ad altre testimonianze del periodo. Dettagli, particolari, attenzioni che meritano un capitolo a parte.

***



Al sud del mar Tirreno, tra la Calabria e la Sicilia, sta il gruppo delle Isole Eolie e Lipari, chiamate anticamente col primo nome, perché una vecchia leggenda ne faceva la dimora di Eolo, re dei venti, e giustificava con la presenza di questo dio la rapide e continue alterazioni delle correnti atmosferiche. Il gruppo è composto di sette isole: Stromboli, Panaria, Saline, Filicudi, Vulcano, Alicuri e Lipari; da quest'ultima, più grande di tutte, prende il nome l'arcipelago che ha intorno a sé una corona di altri dieci isolette minori. Stromboli e Vulcano hanno il loro omonimo in perenne eruzione. Le altre isole invece sono come il vuoto sepolcro di un'antica divinità: il silenzio che le attornia incombe fatalmente e stupisce il visitatore, che si arresta ammirato davanti a quello spettacolo indimenticabile di selvaggia bellezza, degli enormi muraglioni di tufo, delle vere montagne di lave frantumate, scorie e pietre di un color rosso basaltico ammantano gli antichi vulcani ora spenti; delle rocce nere e lucenti sbucano qua e là mentre si scorgono ancora le vestigia delle correnti di lava che precipitarono al mare. Frequenti gole misteriose si aprono e lasciano zampillare impetuosamente delle acque minerali i cui vapori solfurei imbiancano e scompongono tufi e lave come nelle zolfare di Pozzuoli, spargendo un odore metallico ma non disgustoso.

Nessun punto pittoresco d'Italia e della Svizzera o dell'Egitto può offrire un quadro più impressionante di questo: avvallamenti dolcemente inclinati verso il mare, monti alti oltre 600 metri che si elevano a picco, creste frammentate di rocce candide e scintillati sotto il sole dove i mille barbagli della pomice si frangono come diamanti, vigneti coltivati lungo le falde dei vulcani estinti, olivi meravigliosi contorti e difformi come spasimanti di vita....

Chi desidera visitare queste isole deve rinunciare a qualsiasi speranza di comodità di viaggio, deve rassegnarsi e andare senza troppa fretta a dorso d'asino, ma in compenso quale incantevole spettacolo! Dalle acque di San Calogero al Campo bianco è un succedersi continuo di panorami, dove i monti, gli ubertosi declivi e il mare hanno una nota originale che ricorda le rive di Nazaret e la terra di Palestina. La solitudine e il silenzio sono così profondi così suggestivi, che pare che le onde stesse frangendosi sugli scogli mitighino il loro rombo possente per non turbare l'incanto. Posta su tre coni vulcanici spenti, accidiosamente specchiantisi sul mare, sta la vecchia città di Lipari che ebbe, un tempo, alta rinomanza e per le sue miniere di allume provenienti dalla natura vulcanica del suolo e per l'abbondanza delle sue sorgenti termali, che furono meta di principi e di nobili desiosi di salute e di riposo. Un versante dell'isola è aspro e diruto, l'altro adorno del verde cupo delle carrubbe e della elegantissima vite chiamata malvasia, dalla quale si spreme il profumato vino che corre anche oggi tutti i mercati del mondo. A destra il grande Campo bianco, chiamato così per la pomice candida che si estrae con fatica e che trovasi in commercio sempre più ricercata, accovacciata sta l'antica Liparus, che i pirati etruschi più volte devastarono, ma che Diana sempre protesse in virtù del tempo a lei dedicato. Così per secoli la città potè mantenere i suoi commerci, cioè il vino di malvasia, le uva secche, i fichi, l'olio, la pomice, lo zolfo, l'allume, il pesce secco furono una grande sorgente di ricchezza che giustifica il suo nome di Lipara, cioè grassa.

Anche sotto l'impero romano era quest'isola destinata come terra d'esilio pei delinquenti politici, ed oggi essa ospita nel suo castello oltre 560 coatti, raccolti tutti nella penisola italiana. Sopra un'alta roccia che si alza a picco sul mare, mostrando le sue inaccessibili scogliere di basalto, si leva l'antico maniero normanno diroccato, smantellato, ma terribile ancora ed imponente. Vi si accede per un luogo andito ad arcate a sesto acuto di meravigliosa fattura e i lastroni di pietra rossastra che formano il pavimento portano ancora l'impronta delle zampe ferrate dei cavalli normanni.

Bisogna con la fantasia immaginare una città squassata dal terremoto o distrutta dai secoli, una seconda Pompei, dove le mura e gli archi atterrati, le vie accidentate, gli alti strati di pietre e calcinacci rendono malagevole il cammino; una città morta, dove delle vigili scolte ancora passeggiano con le armi in pugno ecco lo spettacolo che si presenta a chi sale per visitare il castello di Lipari.

Dentro antri grandiosi ma cadenti, stanno delle enormi stanze, scrostate dalla calce, col pavimento di terra battuta, il soffitto a volta, nere, sporche, rigurgitanti d'animali schifosi e che sono adibite a dormitori per i coatti. Sugli spalti secolari non ancora distrutti, tutta una fioritura miserevole e ridicola di piccole fabbricazioni fatte dai condannati con creta e vecchio materiale, con porticine, finestrini, scalette irrisorie che assomigliano quasi ad una malattia vergognosa uscita dalle antiche muraglie del luogo.

Quattro chiese e l'antica cattedrale di Lipari sono chiuse dentro le mura del castello. Le loro porte sono sbarrate con spranghe di ferro e sono nell'interno, assai bene conservate, ricche di buoni dipinti di Alibrando da Messina e di Giovanni Barbera di Barcellona. Queste chiese attestano del lungo soggiorno dei gesuiti e dei padri francescani; nella cattedrale, pregevole e nota agli studiosi d'arte, è la bellissima sacrestia tutta rivestita in legno, finemente intagliato con un soffitto dove gli affreschi di un ignoto pittore sono artisticamente lumeggiati dai riflessi del mare che si frange e spumeggia sotto l'ampio balcone posto a 125 metri di altezza. Però la parte esteriore delle chiese è in uno stato miserando; l'ira e lo sfregio dei coatti si sono sbizzarriti nella forma più vandalica che si possa immaginare. Gli scalini per accedere sono spezzati, sbocconcellati, corrosi dal tempo e dalla furia umana; le porte qua e là bruciate mostrano i rattoppi e le spranghe di solido ferro poste per salvare i tesori dei reliquari li dentro conservati; i campanili atterrati, i muri coperti d'iscrizioni oscene ed ingiuriose, la sporcizia che corre lungo tutto il muro esterno è messa in armonia con quel luogo di desolazione e di pena, dove tutti i detriti umani sono riuniti e costretti a vivere in comune in una pericolosa ed immorale promiscuità. Quale larga messe di esempi agli studi criminali presenta questo luogo! Se qualcuno volesse osservare tutta questa deteriorata produzione umana, potrebbe fare uno studio giuridico sociale non indegno dei nostri tempi, poiché tutti i delitti, tutte le colpe, le psicopatie e le deficienze qui sono rappresentate, è un campo sperimentale che indisturbato svolge la sua fatidica parabola. Orbene come vivono questi 560 sciagurati?

Una compagnia di soldati di fanteria, un plotone di guardie di questura, un plotone di guardie di mare, un delegato, un maresciallo e due brigadieri sorvegliano i coatti per quello che riguarda l'evasione e la loro vita nell'interno del castello; per il resto, essi sono abbandonati a sé stessi, ai loro istinti, ai loro vizi, senza nessun criterio educativo, senza nessun obbligo al lavoro, senza nessun rudimentale tentativo di correzione.

Alle sette del mattino suona la diana che li caccia dal dormitorio, la pulizia di questo è affidata al caporale che deve stare attento perché ognuno faccia il suo giaciglio senza asportare oggetti di biancheria e coperte; queste sono cambiate ogni venti giorni e presentano il ributtante spettacolo della loro sporcizia cosparsa d'insetti che come vampiri socchiano il sangue di quei tristi abitatori.

Alle dodici è la distribuzione della Massetta, cioè la distribuzione dei cinquanta centesimi che il governo paga ad ogni coatto per il suo mantenimento. Mezza dozzina di soldati con la baionetta innestata e altrettanti questurini armati di rivoltella si schierano in una stanzetta al pian terreno situata sotto l'avanzo di un'antica torre. In quella stamberga diruta ci sono due porte; fra l'una e l'altra sono tirati i cordoni e nel mezzo un tavolino sul quale sono schierate 560 mezze lire di rame.. null'altro. Né sedie, né mobili, né alcuna cosa che richiami la dignità dello Stato o quella delle legge. Il brigadiere fra l'appello, uno alla volta passano davanti al tavolo e ricevono lo spillatico, continuando poi a comminare escono dall'altra porta. Impossibile dunque il furto, impossibile la ribellione, l'attentato, inutile ogni insidia. Gravi o sorridenti, accigliati od ironici, vanno l'uno dopo l'altro e in quell'impressionante defilé di cinismo e di miseria offrono allo sguardo dell'osservatore quanto avvi di più rivoltante nei detriti della razza umana.

Un lontano barlume di sentimento di manifesta nell'ora della distribuzione della posta. Certi volti si fanno attenti e gravi, qualche occhio si vela, una curiosità vivissima accende tutte le facce... sono le notizie del continente! Osservai un giovanotto alto e biondo di bell'aspetto che con atto felino si appartò dai compagni per sapere quanto conteneva una lunga lettera che egli leggeva compitando. Altri delusi e irritati, dopo qualche minuto, si disperdeva sghignazzando.

Il resto della giornata essi sono completamente liberi, quelli che vogliono lavorare possono farlo tranquillamente; infatti moltissimi sono occupati nelle cave di pomice, nei mulini, nel porto e questi riescono a guadagnare anche tre lire al giorno. Ma a che giova? Nessun senso di economia o di ordine è in loro; si notano rarissime eccezioni di invio di denaro alle famiglie o alle donne, che quasi sempre, hanno abbandonato sul marciapiede di qualche città; per la massima parte essi consumano quanto hanno guadagnato, mangiano, bevono, giocano, finché all'Ave Maria ubriachi cadenti, senza un soldo e con la bocca piena di bestemmie, si ritirano dentro il castello dove suona la ritirata.

E gli altri, quelli che non lavorano? Neghittosi, letteralmente coperti di sudiciume, stanno con indolenza stesi al sole lungo le vie di Lipari, o sulle panchine del porto, o addossati alle macerie della rocca, vivono in un pauroso letargo dal quale sortono o per rubare o per uccidere. Un sellaio si è preso uno stanzino in una via della città e, quando non ha bevuto troppo, lavora e canta divertendo i passanti con certi topi che ha messi in una gabbia circolare, ed ha ammaestrati. Un napoletano vivacissimo fa il venditore ambulante; con la mimica speciale dei suoi concittadini egli offre al pubblico i più svariati e stravaganti oggetti: un ombrello non perfettamente nuovo, delle stoviglie da cucina, dei cappelli; ma soprattutto vende nascostamente le scarpe che l'amministrazione dello Stato passa ai coatti perché non vadano scalzi.
Questo commercio frutta moltissimo a Lipari. Ogni sei mesi i disgraziati hanno un paio di scarpe ch'essi vendono immediatamente, comperando invece per pochi soldi delle vecchie ciabatte.
Un tipo interessante è questo abruzzese, maestro di scuola completamente sordo. Per la modesta somma di una lira al mese, egli fa lezione tutti i giorni a quei ragazzi che vogliono imparare a leggere e scrivere. Guardandolo intento al suo ufficio si direbbe col poeta: 
la faccia sua era di uom giusto tanto benigna anca di fuor la pelle e d'un serpente tutto l'altro fusto...
infatti egli gode fama di uomo astutissimo; è insuperabile nell'arte di combinare dei colpi finanziari; in apparenza paziente e mite, egli passa le sue giornate in una specie di sottoscala, dove su due tavole sostenute da sedie egli elabora le cinque classi elementari suddivise in 22 ragazzi che largamente approfittano della sua sordità per fare un chiasso indiavolato. Calmo, indisturbato, egli intanto macchina delle combinazioni e dei piani che danno poi lavoro ai colleghi del castello.

Molti coatti sono impiegati come servi nelle casi di privati e più specialmente nelle case dei molti francesi che sono appaltatori delle cave di pomice; altri sono barbieri, calzolai, fornai, orefici, pescatori... e si spargono dall'alba al tramonto per le vie della città, svolgendo la loro fatica fra la differenza e il disprezzo della popolazione, sfuggiti da tutti senza che mai una parola amorevole o cortese venga loro rivolta. Essi non sentono che comandi aspri, rimproveri duri e le invettive dei compagni; scalzi, mal vestiti, con gli occhi torvi e le teste arruffate essi lavorano, ma con odio, con collera, con furore quasi, e la sera con l'anima satura di fiele si gettano su quel sacco di vecchia paglia, popolata di luridi insetti sognando la coltellata che li liberi dalla vita.

In questo terribile ambiente, fatto di tutti gli avanzi della scostumatezza e della miseria morale, fervono passioni e vizi di una violenza ripugnante. L'usura e lo strozzinaggio si esercitano con attività dissanguante causati e mantenuti dal giuoco d'azzardo; fra un'ora e l'altra si prestano quattro soldi per averne sei, se ne prestano sei per averne dieci, e quelli che lavorano nelle cave sono i più sfruttati, poiché nella loro furia distruggitrice del denaro essi giocano tutta la loro settimana, senza neppure contare quelle lire che faticosamente hanno guadagnate. Una statistica originale ce li presenta divisi in regioni: ad esempio, i veneti sono più miti, si limitano a lavorare per bere e quando sono presi dal vino si gettano a letto e stanno tranquilli.

I calabresi e i siciliani rubano tutto quello che capita loro sotto mano. Quando nei dormitori, nella infermeria o in città avvengono dei piccoli furti, le guardie agguantano i calabresi e i siciliani certi di trovare fra loro la refurtiva.

I romani e i romagnoli sono sanguinari, l'uso del coltello è per loro una necessità organica. Nei pomeriggi festivi, sugli spalti del castello sono spesso disarmati e puniti perché tirano di scherma con il coltello a serramanico mostrando in questo esercizio una destrezza spaventosa. Ma pochi giorni dopo essi sono ancora in possesso della loro arma preferita; per comprare questo infido compagno essi si sottopongono a qualsiasi lavoro, a qualsiasi privazione.

I napoletani sono gli organizzatori delle molte società di ladruncoli, manutengoli, spacciatori di refurtiva, ecc.; essi esercitano la camorra con quella audacia e prepotenza che li rende poi temuti e rispettati; sono per lo più oziosi, spendono con una superiorità insolente i danari dei loro protetti. Questa ciurma costretta nel breve spazio del castello diroccato, nella tristezza di quel luogo che contrasta con l'incanto dal panorama stupendo che la natura stende ai suoi piedi, questa ciurma degenerata, purulenta e peccaminosa che vive a spese dello Stato, ogni tanto si permette dei banchetti succulenti, delle grandi feste che solennizzano per lo più il matrimonio di qualche collega.

La popolazione libera sta in guardia contro i coatti, né mai si stanca di protestare, come può, per il loro soggiorno a Lipari, né mai per nessuna sventura o gioia cittadina si fonde con loro; nell'animo di ogni isolano cresce la pianta della diffidenza e del disprezzo; specialmente le donne sanno che ogni padre, ogni fratello sarebbe pronto a toglierle da questo mondo se sospettassero soltanto un'intesa con un coatto. Tuttavia una certa quantità di infelici donne vengono gettate dal continente sulle rive di quest'isola incantata, e poiché i giovani coatti possono sposare e avere una famiglia, sempre però ritirandosi soli la sera al castello, così di frequente accadono questi orribili matrimoni festeggiati con grande schiamazzo dalla ciurma ubriaca. Si può immaginare una cerimonia più umiliante di questo mariage che si compie tra il cinismo e i lazzi osceni di quella gente perduta?

Nessun vincolo sentimentale, nessuna considerazione morale lega i due sposi che spesso si conoscono appena e compiono le formalità del rito reciprocamente canzonandosi e chiamandosi con soprannomi ridicoli o infamanti, mentre attorno suona il dileggio più plateale, l'ironia scomposta di quei seicento incoscienti che nelle loro manifestazioni di gioia rievocano la visione di una bolgia infernale.

Né mai è accaduto che una donna si sia redenta, né che scontata la pena, l'uomo l'abbia portata con sé. La depravazione e l'ignominia sono tali, li dentro, che nessuno pensa di assumere un dovere o di accettare una responsabilità dando il suo nome e la sua firma ad una donna.

Questa – diceva il delegato che mi accompagnava – è l'università del delitto; qui oltre alla quotidianità delinquenza spicciola, si organizzano, si preparano dei buoni colpi che si tenteranno a pena finita, e le menti sono messe alla tortura per escogitare qualche cosa di eccezionale, di sicuro, che conduca ad un reato degno di ladri superiori ed evoluti.

Per questo quasi tutti sono recidivi, che dopo breve soggiorno fra gli uomini essi ricadono nelle mani della giustizia, la quale qui li rimanda con nuove e più lunghe condanne.

Eppure nulla, proprio nulla si può fare per costoro? Questi giovani che hanno dai 20 ai 30 anni potrebbero essere tolti ad una strada delittuosa e sono invece lasciati per mesi ed anni in compagnia di vecchi incalliti nel vizio che indisturbati tengono cattedra quasi tutte le sere, fomentando con la descrizione della colpa e con l'esaltazione del reato tutti i cattivi istinti e le male tendenze degli ascoltatori. Perché accumulare e abbandonare a sé stesse in un ozio neghittoso, tutte queste energie che potrebbero essere adibite al lavoro? Se questa immensa rocca normanna, oggi rifugio di delinquenza, dove le macerie, il letame e la miseria s'accumulano paurosamente con le più turpi degenerazioni, dove i gufi e le civette fanno il loro nido, il mare corrode e il vento bersaglia, questa rocca dove 560 uomini languono accidiosi e sbadiglianti nell'inerzia, si tramutasse in un'ampia spianata dominante il mare e attorno corresse un fabbricato semplice e sano che avesse della scuola e dell'infermeria insieme, non sarebbe asilo più adatto per correggere ed educare questi traviati?

Se dall'antica cattedrale partisse una larga strada che conducesse verso monte Sant'Angelo e sulle lave, sulle scorie dell'antico vulcano fossero piantati vigneti, ulivi e gelsi... se si tracciassero degli orti, si scavassero dei pozzi e questa umanità degradata si tramutasse in una colonia agricola, non sarebbe forse compito degno della civiltà moderna e di quella scienza giuridico-sociale tanto discussa teoricamente ma che ancora non ci ha dati i frutti della sua praticità?

Rossana


Martedì interruzione energia elettrica in varie zone di Lipari centro


 

Si è dimessa l'assessora Barnao


 

Oggi, 20 ottobre: Santa Maria Bertilla Boscardin

Anna Francesca Boscardin nacque a Brendola, nel Vicentino, il 6 ottobre 1888. 
Angelo, il padre, a differenza della sua virtuosissima sposa e della pia e ingenua figliuola, era tutt'altro che un angelo di bontà. Quando i fumi del vino, cui era dedito, gli salivano al cervello, e una tetra e infondata gelosia per la sua sposa lo invadeva, allora l'uomo diventava una bestia. La sua cattiveria aveva delle insane esplosioni di collera che mettevano paura. Anna tentava sempre, ma spesso inutilmente, di difendere la mamma e rabbonire il babbo. Il suo carattere mite e dolce e la sua devozione nelle preghiere erano anche per il babbo — e sarà lui stesso a confessarlo — un forte richiamo al dovere di correggersi, di pregare. 
Annetta non fu una cima di intelligenza, ma in compenso aveva sortito un cuore mite e sensibilissimo, un a volontà tenacissima e intraprendente, per cui, anche se a scuola passò per ignorantella, si distinse sempre per l'ottima condotta. 
« Quando sarò grande anch'io mi farò suora », aveva detto una volta alla mamma vedendo al suo paese alcune suore che giravano alla questua. Questa ispirazione si trasformò presto in proposito. Né l'incertezza del parroco, nè l'esitazione del babbo a lasciarla partire valsero ad estinguere in lei la fiamma della vocazione. 
L'8 aprile 1905 Annetta, accompagnata dai genitori, entra nella casa Madre delle Suore Dorotee di Vicenza. « Sii buona, Anna... pensa solo a farti santa... prega per noi... per il babbo tuo!... », le disse la mamma. 
La buona figliuola aveva preso sul serio le consegne della mamma : la sua vita sarà la pratica costante di tutte le virtù fino all'eroismo. 
L'8 dicembre 1907, festa dell'Immacolata, Suor Bertilla si consacrò definitivamente a Dio emettendo i santi voti nella casa Madre di Vicenza. Fu in seguito mandata a Treviso per sostituire una consorella infermiera. Suor Bertilla che aveva sempre lavorato in cucina come sguattera, si rivelò quasi d'improvviso una infermiera abilissima, apprezzata e ricercata dai medici nei casi più difficili e delicati, benvoluta dai malati. Destinata per molto tempo al reparto dei bambini difterici, ebbe per loro le più attente e materne cure. Altri reparti e altri ammalati, ai quali fu successivamente destinata, ammirarono in Suor Bertilla l'angelica infermiera dalla carità eroica. La sua presenza e le sue parole erano una benedizione, una consolazione. 

Le incursioni aeree su Treviso durante la prima guerra mondiale portarono il terrore e lo scompiglio nella città e anche nell'ospedale dove era Suor Bertilla. In quei momenti difficili e tristi ella si inginocchiava in mezzo al reparto a recitare il Rosario fino a che il pericolo fosse cessato. 
Il suo amore per la Madre di Dio ebbe tutta la tenerezza, la fiducia, l'incantevole semplicità di una figlia per la sua madre. A tutti raccomandava la devozione alla Madonna. E nel Cuore di Lei metteva tutti i suoi assistiti. 

La sua attività instancabile, le veglie continue, la sopportazione silenziosa del suo male che da tempo nascondeva con eroica pazienza, consumarono in breve la salute robusta dell'umile suora. Il 16 ottobre 1922, per volere della Superiora, un professore venne chiamato a visitare Suor Bertilla. La diagnosi rivelò la necessità di un intervento chirurgico per estirpare un fibroma. L'indomani ebbe luogo l'operazione, ma ormai era troppo tardi. Tre giorni di acutissimi dolori passati in santa rassegnazione e assoluta sottomissione al divino volere bastarono per preparare l'incontro di Suor Berlina col suo Sposo Celeste. 

PRATICA. Sforziamoci di fare nostro il programma di Suor Bertilla: «A Dio tutta la gloria, al prossimo
tutta la gioia, a me tutto il sacrificio ». 


PREGHIERA. O beata M. Bertilla, otteneteci dal Signore la vostra umiltà e semplicità per cui tanto gli piaceste, quella fiamma di purissimo amore che tutta vi consumò, le grazie dì cui abbiamo bisogno e il premio eterno nel cielo. 

Buongiorno. Oggi è lunedì 20 ottobre


 

domenica 19 ottobre 2025

Accadde oggi...nel 2003


 

Stromboli, si potenzia la prevenzione dei rischi legati al vulcano. L'articolo del direttore Sarpi sulla Gazzetta del sud del 19 ottobre 2025


 

Eoliani e amici delle Eolie che non ci sono più (Riproposizione 84° puntata: Deceduti da gennaio a giugno 2024) (video di 6:50)

  In questo video, realizzato con le foto in nostro possesso: Angela Provvidenti ved. Lazzaro, Angela Quadara (Lina) ved. Paino, Angelo Favaloro, Antonino Loprestini, Bartolina Ruggiero in Cavalletto, Bartolo Lo Surdo, Caterina Filolungo ved. Bartoli, Caterina Natoli ved. Favaloro, Caterina Quadara in Ficarra, Elena Scoglio ved. Lazzaro, Genj Groppo, Gino Vulcano, Giovanni Raffaele (Giovannazzo), Giuseppa Peluso ved. Cafarella, Giuseppe Fonti, Ivana Bonica, Nunziata Cannistrà, Pino Martinucci, Provvidenza Longo ved. Sardella, Stefano Caizzone; Adelina Falanga ved. Paino; Angelina Monte in Imbruglia; Bartolo Profilio; Carmela Fonti ved. Profilio; Decimo Francesco Segreto (Zu Cicciu); Francesca Casella ved. Spanò; Giovanna (Gina) Cincotta ved. Di Mech; Giovanni Russo (Augusto); Giuditta Bosetti ved. Subba; Grazia Natoli ved. Paino; Jonathan Giannò; Mohammed Sammoudi; Raffaele Pastena; Rita Landen in Ziino; Rosa Fonti ved. Iacono; Rosa Gualdi ved. Gugliotta; Salvatore Acquaro; Vittorio Lo Schiavo; Aurelio Li Donni, Bartolo Famularo, Bruno Patti, Concetta Barbaraci Mirabito, Cristoforo Saltalamacchia, Franco Villini, Giulio Cesare Giuffrè, Giuseppa Miano in Galletta, Maria Raffa, Mario Puglisi, Peppino Taranto, Tommaso Orioles, Urania Albergo ved. Adornato, Zefira Formica ved. Alessi

Calcio, Prima categoria: Il Lipari non riesce a vincere.

 Si è chiuso sullo zero a zero l'incontro di oggi pomeriggio al Monteleone - Scoglio tra il Lipari calcio e il Sinagra. La squadra di Riganò rinvia, di conseguenza, l'appuntamento con la prima vittoria stagionale

Il 27° Cammino Diocesano delle Confraternite a Lipari (18 ottobre 2025) Ampio video di Giuseppe Cincotta

Scrivevamo così...oggi...lo scorso anno


 

La Chiesa ha sette nuovi Santi

Sette nuovi Santi per la Chiesa. Stamane Papa Leone ha presieduto la messa in piazza San Pietro con la canonizzazione dei beati che arrivano da Paesi ed epoche diverse. I nuovi santi sono: il laico Bartolo Longo; la religiosa professa della Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice Maria Troncatti; la fondatrice dell’Istituto delle Sorelle della Misericordia di Verona, Vincenza Maria Poloni; il martire arcivescovo armeno cattolico di Mardin, Ignazio Maloyan; il laico martire Peter To Rot (il primo Santo dalla Papua Nuova Guinea); e i primi due Santi dal Venezuela: la fondatrice della Congregazione delle Serve di Gesù, Maria Carmen Rendiles Martinez e il laico Josè Gregorio Hernandez Cisneros.

Tanti auguri di...

Buon compleanno a Gaetano Favorito, Marina Patti, Maria Acquaro, Noemi Mirenda, Gabriele Furnari Falanga


Scrivevamo così il 19 ottobre del 2015.

  


L'area della galleria di Monterosa dopo il distacco del costone del giorno precedente

LA PAROLA - COMMENTO AL VANGELO DI DOMENICA 19 OTTOBRE 2025

Oggi, 19 ottobre: San Paolo della Croce

Nacque ad Ovada in Piemonte, da nobile famiglia oriunda di Castellazzo, presso Alessandria. Quando nacque, la camera si illuminò di vivissima luce, e ancora fanciullo fu dall'augusta Regina del cielo salvato da certo naufragio, segni questi che palesano chiaramente i divini disegni di Dio sul nostro Santo.
Coll'uso di ragione incominciò a divampare il suo amore per Gesù e, contemplando i dolori e le sofferenze del Maestro, incominciò il duro esercizio della penitenza. 
Infiammato dal desiderio del martirio, già s'era arruolato nella flotta veneziana, pronta per abbattere la mezzaluna che minacciava l'Europa cristiana; ma poi, avendo compreso che ben altra era la volontà divina, lasciò la milizia terrena e formò una valorosa schiera di soldati del Redentore: i Passionisti. Essi si proponevano di far conoscere a tutti i dolori sofferti da Dio per salvarci, e con la loro rigida disciplina, riparare tanti peccati, causa dei dolori di Gesù Crocifisso. 
Ritornò in patria e, rifiutate le nozze, abbandonata l'eredità paterna, s'incamminò per la regale via della croce. Ricevette dal suo Vescovo una rude tonaca e dietro suo comando si diede alla predicazione. 
Si portò quindi a Roma, ove potè studiare regolarmente la sacra teologia e dove dal Sommo Pontefice Benedetto XIII fu consacrato sacerdote. Ottenuta la facoltà di formare la nuova congregazione, coi primi figli si ritirò nella solitudine di Monte Argentaro, in Toscana, ove già prima la SS. Vergine l'aveva invitato, indicandogli la nera divisa, decorata dello stemma della passione; quivi gettò le fondamenta della sua nuova famiglia dandole le regole, ed aggiungendo ai tre consueti voti quello di promuovere il ricordo della passione. 
Grande fu il bene compiuto da questa Congregazione. Innumerevoli eretici, meditando le sofferenze e i dolori di Gesù, riconobbero il loro peccato e pentiti ritornarono in seno alla Chiesa Cattolica.
Tanto era viva la fiamma di carità in quell'anima santa che si palesò anche esternamente bruciandogli spesso la flanella di cui era vestito; nel celebrare non poteva trattenere le lacrime e sovente era rapito in estasi, sollevato da terra, circonfuso da vivida luce. 
Fu favorito di molti doni celesti: rivelazioni, colloqui divini, profezie, il dono delle lingue. 
Era amato e stimato dai Sommi Pontefici, eppure l'umile Santo si chiamava grande peccatore, degno d'essere calpestato dai demoni. 
Nonostante una vita sì penitente, arrivò a veneranda vecchiaia; il 28 aprile del 1775, dati gli ultimi paterni ammonimenti ai suoi diletti figli, ricevuti i Ss. Sacramenti, ricreato da una celeste visione volava al suo Redentore. 
PRATICA. Gesù crocifisso sia l'oggetto del nostro amore: egli ci ha amati fino alla morte di croce. 
PREGHIERA. Signore Gesù Cristo, che hai donato a S. Paolo una carità singolare perché predicasse 11 mistero della croce, e per suo mezzo hai voluto far fiorire una nuova famiglia nella Chiesa, concedici per sua intercessione, che ricordando continuamente la sua passione in terra, meritiamo di riceverne il frutto in cielo. 

Buongiorno e buona domenica. Oggi è il 19 ottobre