La spia che potrebbe avvisarci delle eruzioni forse si nasconde nel cuore dei vulcani. È questa la conclusione a cui è giunta la ricerca condotta negli Stati Uniti e pubblicata sulla rivista Nature. Una scoperta, che se confermata da ulteriori studi, potrebbe aprire la strada alla possibilità di poter prevedere questi fenomeni disastrosi. Il segnale individuato dai ricercatori americani Kari Cooper, dell'Università della California a Davis, e Adam Kent, dell'università dell'Oregon sono quelle grandi masse di magma che, ad altissime temperature, diventano in gran parte liquide e quindi in grado di muoversi con molta facilità. Si tratta infatti di una condizione molto rara e l'idea dei due ricercatori è stata di ricostruire la storia del magma e le condizioni nelle quali questo viene immagazzinato per decine di migliaia di anni. Il banco di prova della teoria di Cooper e Kent è stato il Monte Hood, un vulcano attivo che si trova nell'Oregon.
Analizzando i materiali prodotti dalle ultime due eruzioni del vulcano, avvenute all'incirca 220 e 1.500 anni fa, i ricercatori hanno scoperto che per la maggior parte del tempo in cui il magma è immagazzinato all'interno del vulcano si trova in uno stato molto denso e viscoso. E' una condizione che persiste per decine di migliaia di anni, ma che in periodo brevissimo può modificarsi. L'afflusso di nuovo magma può infatti alzare la temperatura del magma già presente nella camera magmatica portandolo a diventare meno viscoso, quindi più mobile e a rischio di eruzione. E' una condizione rarissima, della durata di due mesi contro decine di migliaia di anni, ma è la condizione ideale perché il vulcano si risvegli e cominci ad eruttare.
"E' una ricerca interessante, ma ancora poco generalizzabile", commenta il direttore della struttura Vulcani dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Paolo Papale. Il Monte Hood, osserva, "è un vulcano molto particolare e non facilmente confrontabile, ad esempio, con i vulcani italiani: hanno caratteristiche molto diverse". Inoltre non esistono ancora tecniche in grado di riconoscere le trasformazioni che avvengono nella camera magmatica. Gli stessi autori della ricerca riconoscono che l'analisi fatta sul Monte Hood è solo l'inizio e prevedono di raccogliere dati ulteriori con ricerche analoghe su altri vulcani
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