Lettera aperta di Dario Famularo, presidente dell'Associazione Balneari Isole Eolie e associato di Assobalneari-Confindustria
Sono sicuro che il dott. Gian Antonio Stella non leggerà mai questa mia nota, ma voglio illudermi che lo faccia. Che possa dedicarmi qualche minuto del suo tempo.
Caro Stella, mi scuserà se le do del qualunquista, ma è quello che penso leggendo il suo articolo sui lidi in Italia. Inizio in modo aggressivo? Sono fuori luogo? Ho esagerato? Probabile, ma generalizzare non è per niente generoso nei confronti di coloro (me per primo) che gestiscono una piccola attività su un lembo di spiaggia, come facciamo noi alle Eolie. Non tutti i calciatori guadagnato quanto Cristiano Ronaldo e non tutti i giornalisti guadagnano quanto lei.
Ritengo non interessante per lei sapere come la penso e non credo la gratifichi sapere quale degli aspetti che ha evidenziato nel suo articolo io condivida. Voglio però che lei sappia cosa vuol dire gestire un’attività qui nelle nostre isole. Non voglio annoiare nessuno e non voglio in alcun modo prendere le distanze da colleghi (scusate se considero collega Briatore) che hanno la fortuna di vivere in contesti completamente all’opposto dei piccolissimi lidi come i nostri, ma noi facciamo enormi sacrifici in termini logistici, noi portiano avanti le nostre attività offrendo servizi altrimenti inesistenti, e se oggi le isole Eolie si fregiano della famigerata Bandiera blu, il merito è anche di noi balneari eoliani.
Tornando all’articolo, vorrei chiarire al dott. Stella che le piccole aziende del comprensorio eoliano lavorano appena quattro mesi l’anno (quando il tempo lo permette), dando in questo breve periodo una breve prospettiva di lavoro ai nostri ragazzi altrimenti disoccupati. Le nostre concessione hanno un’estensione massima che varia da 500 a 750 metri quadrati, pagando non meno di 5.000 euro di canone e 2.000 euro di Tari. Non abbiamo ristoranti ma solo un’offerta di panini preconfezionati, non abbiamo discoteche ma solo impianti impolverati dalla pomice, da noi per due comunissimi lettini e un semplice ombrellone si pagano in media 15 euro.
Caro dott. Stella, in Italia non ci sono solo Twiga. In Italia esistono micro realtà e tra queste esistono le spiagge delle isole Eolie, e pazienza se noi viviamo, come viene scritto nel suo articolo, con “il turismo da ciabatte”. In ogni caso viviamo.
L’aumento dei canoni che lei auspica ci costringerebbe a chiudere e la Bolkestein avvantaggerebbe i colossi della balneazione. Distruggerebbe quello che di buono le nostre piccole aziende hanno fatto fino a oggi, mantenendo il giusto equilibrio anche a livello ambientale con modestissime strutture posizionate sui litorali, nel rispetto del nostro territorio e delle sue peculiarità. Fonte: MondoBalneare.com
Cosa aveva scritto Gian Antonio Stella
Stupendi tendaggi, stupendi divani, stupendi lettini e teli da mare: ma se lo Stato incassa di concessione mensile per il «Twiga» di Flavio Briatore quanto costa una sola giornata (e mezzo) d’affitto di un solo «Presidential Gazebo» sulla spiaggia non è un po’ poco? Dirà lui: offrire il lusso è un lusso. Costa. Giusto. Anche l’area di Forte dei Marmi e Marina di Pietrasanta, però, dovrebbe costare. O no?
L’abbronzatissimo imprenditore dai mocassini rossi, in realtà, non è il bersaglio esclusivo delle denunce di Angelo Bonelli, coordinatore dei Verdi. Anzi. È solo il caso simbolo, per i prezzi altissimi del suo stabilimento balneare (di cui è socia Daniela Santanchè), di una stortura contro la quale gli ambientalisti danno battaglia da anni. Vale a dire la riluttanza dei governi italiani a applicare davvero la «direttiva Bolkestein», la legge europea del 2006 che in nome della concorrenza prevede tra l’altro la messa a gara delle concessioni balneari. Legge recepita obtorto collo (con proroga allegata) dall’ultimo governo Berlusconi nel 2010 ma contestatissima (e se i grandi gruppi spazzassero via i titolari dei «bagni» storici?) non solo in Italia ma anche, ad esempio, in Francia e in Spagna. E così divisiva da esser poi parzialmente rinnegata dallo stesso Frits Bolkestein, ex commissario interno Ue («La direttiva che porta il mio nome non è applicabile ai balneari perché le concessioni non rientrano nei servizi») ma ribadita nel luglio 2016 da una sentenza della Corte di giustizia Ue: «Il diritto dell’Unione osta a che le concessioni per l’esercizio delle attività turistico-ricreative nelle aree demaniali marittime e lacustri siano prorogate in modo automatico in assenza di qualsiasi procedura di selezione dei potenziali candidati».
Una sentenza subìta a malincuore dai francesi, che dopo molte proteste si sono rassegnati ad applicarla. Ma non dai governi Renzi e Gentiloni (proroga al 2020) e men che meno da quello gialloverde che, indifferente al verdetto europeo e alle previsioni del ministro del Turismo Gian Marco Centinaio («al 99,9% andremo in infrazione comunitaria») ha donato ai vecchi concessionari-elettori una maxi proroga di 15 anni fino al 2034. Anzi, ha detto, «personalmente ne avrei concessi 30». Fino al 2049. E la concorrenza? Uffa…
Ed è lì che il coordinatore dei Verdi ha deciso di andare ad approfondire qualche caso simbolo per controllare le contraddizioni più vistose tra la legge e i lamenti. Punto di partenza, ovvio, gli stabilimenti più cari. Che stanno, dice un’inchiesta Codacons del 2017, all’Argentario, a Forte dei Marmi, a Lerici ma più ancora al «Romazzino» di Porto Cervo (400 euro al giorno un ombrellone e due lettini), all’Excelsior di Venezia («capanna in zona centrale 410 euro al giorno») e, in testa a tutti, al Twiga di Marina di Pietrasanta. Dove, riporta l’Ansa, Briatore ha introdotto i «Presidential Gazebo, strutture dotate di televisione e musica, due letti marocchini, tavolo centrale, quattro lettini, il cui costo di noleggio giornaliero ad agosto è pari a 1.000 euro».
Tanti. Ma si sa come la pensa Briatore: «Il turismo delle ciabatte non dà niente al territorio né basta a trasformare un Paese o una regione in una destinazione appetibile. Il turismo di lusso porta soldi che fanno il bene di chi vive e lavora lì. Se volete alzare l’asticella, bene. Altrimenti tenetevi i turisti in sacco a pelo che fanno pipì per strada». I numeri, scrive Carlo Festa sul Sole24Ore, gli darebbero ragione: «Il Billionaire di Dubai genera ben 18,1 milioni di giro d’affari e 5,7 milioni di margine operativo lordo. Seguito dal Twiga di Montecarlo con 11 milioni di fatturato e 3,9 milioni di Ebitda (con una redditività del 35%). Il Sumosan Twiga di Londra 8 milioni di giro d’affari e oltre 2 milioni di Mol. C’è poi il Cipriani, sempre di Montecarlo, con 7,7 milioni di fatturato e quasi 3 milioni di margine operativo lordo. Il Beefbar di Dubai vale invece circa 7 milioni di fatturato e 2 di Mol». Il Twiga di Forte dei Marmi meno, ma comunque fa «4 milioni di fatturato e 1 di Ebitda». Cioè di margine operativo lordo.
Va da sé che gli investimenti, in questi casi, sono alti. Sulla professionalità del personale, sulla scelta degli arredi, sulla qualità e la gestione dei prodotti: se ti arrivano dei milionari russi che ordinano 250 mila euro di «Armand de Brignac» da 500 euro a bottiglia per cantare tutti insieme l’inno russo, com’è successo al Twiga di Montecarlo, o lo champagne ce l’hai lì pronto o addio. Ma se i russi non passano le bottiglie restano lì. In magazzino.
A farla corta: il rischio di impresa c’è e Briatore fa il suo mestiere. Quel Twiga Beach Club col ristorante e le tende e la «disco» e i divani e tutto per tutti i lussi, però, non può esser fatto all’Idroscalo: deve stare lì. Dov’è il turismo storico d’élite. Perché dunque per le concessioni di quei 5.834 metri quadri della «spiaggia più sognata d’Italia» (copyright Twiga) lo Stato (cioè i cittadini) dovrebbe prendere solo 17.619 euro l’anno tra «superficie scoperta», «coperta facile da rimuovere» e «cabine», pari a una media per i tre settori di tre euro e tre cent a metro all’anno? Se il fatturato è di quattro milioni l’anno può pesare l’affitto dell’area solo un 227esimo?
Briatore, Santanché e soci, del resto, sanno che il valore di quel «Bagno» è ben altro. Tant’è che a lungo avrebbero preso in subaffitto a cifre stratosferiche la gestione dell’area dalla «Gardenia di Galeotti Giuseppe & C» alla quale il rinnovo della concessione era costato nel 2005 4.322 euro l’anno. Briciole. Finché nell’ottobre scorso, a dispetto delle polemiche sulla grande pagoda abusiva piantata sulla battigia e accanitamente difesa dalla Santanchè contro Giorgio Mottola di «Report», i soci si sono decisi. E han comprato con la «Mammamia Srl» il ramo d’azienda «afferente l’esercizio di attività di discoteca e stabilimento balneare con annessi bar e punti ristoro», cioè il Twiga, per 3.900.000 euro. Ma come: tutti quei soldi un anno prima della scadenza della proroga targata Pd? Dopo che Parigi aveva già messo a gara le spiagge francesi e comuni come Ramatuelle (cui appartiene la mitica Pampelonne) avevano già fissato con un decreto controfirmato dal prefetto le nuove tariffe demaniali per le proprie 21 concessioni pari a 225.057 l’una (fate voi i confronti) di sola quota fissa? E se quelle teste matte dei grillini si fossero imputate sul rispetto delle leggi e delle sentenze europee? Macché: il fiuto del vecchio corsaro del lusso aveva già annusato come andava a finire...(corriere.it)
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