Mai come in questa fase della
storia dell’umanità l’accoglienza dei
più poveri ed emarginati è stata posta sotto attacco. Addirittura il presidente
americano Trump se l’è presa con i i bambini degli immigrati che vengono
separati dai loro genitori perseguiti penalmente e rinchiusi in campi di
concentramento per bambini ed è arrivato a dire che la loro morte toglierebbe
di mezzo futuri delinquenti. E solo le forti reazioni degli americani a
cominciare da sua moglie e dalle altre first lady e di Papa Francesco, gli
hanno fatto fare marcia indietro.
Ma non meno sconsiderata è stata la
decisione del Ministro degli interni italiano, Matteo Salvini, di avere
rifiutato l’attracco ad un porto italiano alla nave Acquarius col suo carico di
oltre 600 persone di cui molti bambini e persino donne in cinta pescati nelle
acque Mediterranei e salvati dagli scafi che li portavano via dall’Africa. E
così per giorni questa povera gente è rimasta in balia delle onde in rotta
verso la Spagna che le aveva dato accoglienza.
Il povero sacramento di Gesù
11 gennaio 2015 "Gesù lo
possiamo riconoscere nel volto dei nostri fratelli, in particolare nei poveri,
nei malati, nei carcerati, nei profughi: essi sono carne viva del Cristo
sofferente e immagine visibile del Dio invisibile". E’ una delle tante
immagini che Papa Francesco usa per ricordarci che i poveri sono sacramento di
Cristo. Questa è una citazione presa dall'Angelus dell’11 gennaio del 2015,
ricordando che con la nascita di Gesù "la terra è diventata la dimora di
Dio fra gli uomini e ciascuno di noi ha la possibilità di incontrare il Figlio
di Dio, sperimentandone tutto l'amore e l'infinita misericordia". Così
Gesù, ha spiegato, "lo possiamo incontrare realmente presente nei
sacramenti, specialmente nell'Eucaristia" e ritrovare nel volto degli
ultimi.
Questo collegamento forte fra
l’accoglienza di Gesù e quello dei poveri e degli emarginati in Florenzia è
sempre stato particolarmente presente.
La prima esperienza di accoglienza dei sofferenti scoprendo in
loro il volto di Gesù , Florenzia, ancora Giovanna, dovette farla, al capezzale
del padre durante la lunga malattia che lo portò alla morte.
Alle suore missionarie in Brasile
che erano andate a prestare la loro opera ai malati scriveva – probabilmente
ricordando quelle lunghe giornate passate
a spiare la sofferenza di papà Giuseppe –“Oh come sarebbe bello se in uno dei tanti ammalati trovereste Gesù in
persona! Ma se non lo trovate visibile. Lo trovereste sempre invisibile, Quindi
quando avvicinate l’ammalato andate con
quel pensiero che vedete Gesù”.
Ed una suora commentando questa
lettera osservava che in Madre Florenzia il motivo teologico della carità per
il prossimo era il corpo mistico di Cristo da curare così come si legge in
Matteo 25,26 “Tutto ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo
avete fatto a me”. E per Florenzia divennero Gesù i fanciulli abbandonati e
bisognosi, le giovani universitarie da ospitale, le anziane, gli ammalati “quanti non trovano sulla terra l’atmosfera
della pace cristiana e la fortezza serafica”.
Suor Colomba ricorda che
Florenzia usava dire frequentemente: “Quando un povero bussa alla nostra porta,
bisogna accoglierlo ed aiutarlo, perché in lui c’è l’immagine di Gesù Cristo”
E suor Gemma aggiungeva che “ I poveri bussavano con fiducia alla porta, non
tollerava che se ne andassero a mani vuote e se qualcuno si mostrava avaro nei
loro confronti, ne esigeva la riparazione. Anche alle ammalate andavano le sue attenzioni
ed erano oggetto delle sue predilezioni. Non lasciava intentato alcun rimedio
pur di ridare loro salute e vigore”.
La scuola dell’accoglienza
Questa scuola dell’accoglienza che
per Florenzia cominciò a Pirrera accanto al letto del padre continuò nella
esperienza negli Stati Uniti col viaggio in nave, la quarantena ad Ellis
Island, le immagini di miseria e di emarginazione viste a New York a partire
dai quartieri di Little Italy a poche centinaia di metri da Sullivan Street
dove andò ad abitare con la madre ed i fratelli. La vocazione di Florenzia è
vocazione di accoglienza che trova espressione nel francescanesimo che conobbe
proprio a Sullivan Street dai francescani del distretto dell’Immacolata
Concezione che gestivano la chiesa di Sant’Antonio da Padova.
Certamente la povertà c’era anche a
Lipari, soprattutto negli ultimi decenni dell’800 e c’era anche la miseria dei
bambini senza famiglia, delle donne abbandonate, dell’infame commercio di
alcool e prostituzione che si alimentava grazie alla colonia coatta e ad una
gioventù borghese che si credeva emancipata ma in realtà era solo dissoluta e
priva di ideali. Si, tutto questo c’era anche a Lipari ma probabilmente
Giovanna che viveva a Pirrera – nel tranquillo ritmo della vita contadina, a
pochi chilometri dalla cittadina ma che allora volevano dire più di un’ora di
cammino a piedi per viottoli impervi - non ne coglieva gli aspetti più crudi.
Ora improvvisamente sono proprio questi aspetti che le si impongono, che la
obbligano a considerarli da vicino e quasi dall’interno, sulla nave, a Ellis
Island e per le strade di una New York caotica e violenta dove la gran parte
della gente viveva nella sporcizia, nella sopraffazione, nel degrado. Ed è
sicuramente di questo che parla con i frati francescani e soprattutto con padre
Daniele che era divenuto il suo confessore e consigliere. Ed è proprio perché
convinto che la sua vocazione all’accoglienza è forte e genuina che padre
Daniela fa il nome di Giovanna, divenuta nel frattempo Florenzia, per l’esperienza
a Pittsbourg dove si trattava di assistere i bambini dei lavoratori italiani
immigrati in questa città industriale cresciuta in pochi anni fino a divenirne
una della più importanti del mondo. L’esperienza di Pittsbourg fallirà, non
certo per responsabilità di Florenzia. Ma con la chiusura della casa di
Pittsbourg di fatto si conclude anche la sua esperienza americana e si apre la
storia dell’Istituto delle suore francescane dell’Immacolata Concezione di
Lipari che è, fin dall’inizio, una storia di accoglienza perché per questo era
stata chiamata Florenzia a Lipari da Mons.Raiti, creare una casa di accoglienza
per le i figli di nessuno e le donne abbandonate..
Di questa storia di accoglienza
voglio ricordare quattro di questi momenti voluti e decisi da Florenzia.
L’accoglienza dei bambini abbandonati
Il primo è un episodio dei primi
anni dell’Istituto, che è un po’ il simbolo della passione che Florenzia dedicò
all’accoglienza dei bambini abbandonati. Siamo nel 1908 all’indomani del
terribile terremoto di Messina del 28
dicembre e molti scampati da quella tragedia furono portati a Lipari. Fra
questi vi era pure una bimba di 5 anni rimasta sola che si chiamava
Linuccia. Madre Florenzia, saputo
di questa orfanella chiese alle autorità
l’affidamento come Istituto e l’ottenne. Linuccia divenne la beniamina della
casa circondata dall’affetto della Madre, delle suore, ma anche delle altre
bambine che frequentavano la casa di via Diana. Era intelligente studiava con
amore ed a scuola era fra le più brave. A 8 anni cominciava già a suonare il
piano. Ma cresceva sempre esile
malaticcia e verso il 12 anno di età peggiorò in salute. Si ammalò di tisi polmonare
e fu costretta dal medico ad essere abbandonata dalla comunità per non
infettare gli altri bambini. Florenzia pensò di portarla a Pirrera, a casa sua,
dove si respirava aria pura ed ossigenata. Lì, lei stessa, assieme ad un’altra
suora, la serviva con affetto materno, senza paura del contagio. Ma un giorno
purtroppo Linuccia morì. Sicuramente Florenzia fu affranta dal dolore ma capì
anche che l’accoglienza mette in conto il distacco e non può essere un
sentimento proprietario. E tornò alla sua missione curando la sua ferita con
l’amore per gli altri bambini come Francesca
che nove anni dopo si trovò fra le braccia una notte, messagliela dalla
madre morente e che accudì e seguì nella crescita fino a trovarle lei stressa
una famiglia che poteva offrirle un avvenire che l’Istituto non poteva. E poi
Angelino e poi tanti altri. I bambini di Lipari, i bambini dei paesi della
Sicilia, i bambini di Palermo, di Catania e di Trapani terrorizzati dai
bombardamenti che li costringevano a correre nei rifugi, i bambini di Roma
traumatizzati da una guerra che si era conclusa ma che presentava ancora aperte
tutte le ferite di miseria e di fame, i bambini infine del Brasile e poi del
Perù alle prese con una povertà ancora più profonda di quelle che alla fine
dell’800 c’era a New York.
“L’amore – scriverà nel messaggio di Natale del 1954 – deve essere il movente di ogni vostra aspirazione,
di ogni opera intrapresa, l’amore che innalzi all’Onnipotente un cantico di
gloria, di gratitudine e di riconoscenza nel trambusto di una vita sacrificata,
francescanamente vissuta”.
L’accoglienza richiede amore ma
anche accettazione del distacco. Distacco dalle persone ma anche distacco dalle
esperienze: da quelle con i bambini, con le universitarie, con gli anziani con
i derelitti dell’America Latina. Ed anche distacco dai luoghi Quella di vivere
una vocazione di pellegrinaggio Florenzia la incarnò nella sua esistenza tanto
da farne una costante della sua missione. Un andare da un posto ad un altro che
non vuol dire sradicamento ma capacità di moltiplicare le radici.” Suscitare raggi di luce dovunque –
scriveva nel messaggio natalizio del 1953 –
come da una irradiazione del sole mille riflessi si sprigionano” Le radici
di Lipari, degli Stati Uniti, di Acireale, di Palermo, di Roma, dell’America
Latina.
L’accoglienza non è appartenenza a
qualcuno ma capacità di essere tutto a tutti.
La povertà della borghesia di Palermo
Nel luglio del 1939 c’erano già le
avvisaglie della prossima guerra mondiale. E quando Florenzia ed una suora
partirono per Palermo, perché Florenzia riteneva che fosse giunto il tempo di
una nuova esperienza per il suo istituto, uno stuolo di apparecchi volteggiava
sulla stazione di Catania. Ma questi non preoccupavano la Madre che riteneva la
tappa di Palermo una passo importante nel percorso che serbava nel suo cuore.
Da qualche tempo infatti Florenzia andava
riflettendo sulle povertà che si sviluppavano soprattutto nelle grandi
città. Che non erano quelle tradizionali di chi aveva problemi di sopravvivenza
non sapendo come arrivare al giorno dopo, ma anche di chi viveva nell’agiatezza
e qualche volta nella ricchezza ed era privo di valori che dessero significato
all’esistenza. Era una povertà che colpiva in particolare i giovani delle
famiglie borghesi. Sotto questo aspetto Palermo era il posto ideale giacchè sul
finire dell’Ottocento ed i primi del novecento una nuova classe dirigente aveva
fatto vivere alla città il sogno dell’industrializzazione e della rinascita
commerciale ed era divenuta quindi un faro di sviluppo e di speranza di
progresso per tutta la gente della Sicilia.. L’accoglienza questa volta era
rivolta alle giovani ragazze che venivano a Palermo per studiare. Erano le
figlie di una borghesia agiata ma anche di famiglie modeste che cercavano un
riscatto sociale. Venivano dal circondario ma anche da tutta la Sicilia e
qualcuna anche dalla Sardegna. Quando la casa aprì le sue porte il 1° settembre
tutto era in ordine anche se le camerette riservate alle suore erano piuttosto
spoglie, anzi, siccome arrivavano più pensionate di quante se ne aspettassero,
si dovettero riservare anche i loro materassi e come altre volte era accaduto
esse si adattarono, per qualche tempo, a dormire per terra in serena e
francescana letizia. L’esperienza del pensionato andò avanti malgrado sul
finire del 1940 scoppiasse la guerra ed era un continuo susseguirsi di
bombardamenti, il razionamento dei generi alimentari di prima necessità e poi
anche lo sfollamento quando le suore, con un buon numero di pensionanti, si
rifugiarono a Petralia Sottana.
Ma anche la guerra passò senza
gravi danni per l’Istituto e in seguito al Pensionato si aggiunse un asilo e la
scuola elementare. Le suore erano divenute di pieno diritto cittadine
palermitane e Florenzia decise che fosse giunto il momento di mettere mano ai
risparmi delle varie case ed acquistare una sede propria anche a Palermo.
Il mendicicomio di Giarre
Nel 1954 Florenzia accetta di
assistere gli anziani d un mendicicomio di Giarre. Tutto era nato per
iniziativa di una dama di San Vincenzo che si era imbattuta un giorno in una
capanna su un misero materasso giaceva un paralitico. Qualche passante gli
portava un pezzo di pane ma nessuno s’interessava di sollevarlo dalle sue
sofferenze giunte al punto che nell’immobilità a cui era sottoposto, oltre alle
piaghe, i topi gli avevano rosicchiato le dita dei piedi. Nacque così l’idea di
una casa di riposo per i vecchi abbandonati ed emarginati. Ci fu chi ci mise il
terreno e chi si interessò ad avere i contributi dalla Regione. Si realizzò il
pianterreno e poi anche il primo piano ed i poveri cominciavano ad abitarci.
Era già meglio delle capanne ma c’era bisogno di chi si prendesse cura di
questi derelitti e fu allora che si pensò alle suore francescane la cui fama
cominciava a circolare in quella parte
della Sicilia. Per Florenzia questa era una nuova sfida e l’idea di operare per l’accoglienza a poveri che
languivano nella miseria in cui vedeva accumulato quanto di più penoso vi era
sulla terra – dolori fisici e morali, povertà, amarezza, sconforto, abbandono –
l’appassionava. Ci pensò su molto ma alla fine non seppe resistere alla
richiesta e mandò le sue suore gratuitamente. Ci fu festa in questa casa di
Giarre perché i vecchietti che vi erano ospitati avevano finalmente l’affetto
di una famiglia. Grandi furono i disagi del primo anno perché nel reparto degli
ospiti e delle suore mancava di tutto. Ma questa non era una esperienza nuova
per Florenzia e le sue figlie, la povertà era stata loro compagna in tutte le
iniziative. Le dame di San Vincenzo si misero a raccogliere fondi e Florenzia
che aveva imparato a districarsi nei meandri della burocrazia pubblica ottenne
dal ministero dell’interno materassi, biancheria per i letti, copette di lana,
stoffe per i vestiti. E così passo dopo passo si avviò la casa. Prima le vecchiette che occuparono il pianterreno
mentre i muratori lavoravano al primo piano, poi quando questo fu abitabile le
donne passarono sopra ed a pianterreno furono accolti i vecchietti. Nell’arco
di qualche anno i lavori furono finiti e si arredarono decorosamente i locali e
la chiesa che nelle case di accoglienza delle suore non mancava mai ma aveva il posto più bello nella struttura.
Gli emarginati
di Bosco di Rosarno
Nel maggio del 1942, in piena guerra, le suore vennero
invitate ad occuparsi della direzione di un asilo infantile in una frazione di Rosarno chiamata “Bosco”.
Rosarno, al tempo, era un comune di circa 10 mila abitanti
della provincia di Reggio Calabria e della diocesi di Mileto, situato su una
collina che si affaccia su una pianura ora ricca di aranceti ed uliveti ma
oggetto, a partire dai primi anni dell'800, di una intensa opera di bonifica.
Bosco di Rosarno si stende, guardando il mare, ad est
dell'abitato da cui dista poco più di sette chilometri. Nel passato era stata
zona di caccia rinomata per l'abbondanza della selvaggina e per le sue erbe
medicinali, poi, nell'800 vi trovarono rifugio, per diversi anni, alcune bande
di briganti fedeli ai Borboni. Ora i briganti non c’erano più ma
persisteva una realtà che aveva bisogno di una significativa opera
di redenzione sociale, di bonifica umana perchè era abitata da una popolazione
di agricoltori mezzo inselvatichiti dall'isolamento e dall'abbandono.
Florenzia volle
accompagnare le suore nell’avvio del loro lavoro e rimase con loro circa un
mese finchè non fu sicura che tutto procedeva come previsto. Malgrado
l'isolamento della zona e la miseria di chi l'abitava, il centro era una vera
“oasi di pace” immersa fra gli olivi. Era di recente costruzione e, sulla parte
destra, vi era l'asilo, la casa delle suore e la cappella, mentre sul lato
sinistro si trovava uno “stanzone” in cui veniva organizzata la mensa per i
figli dei contadini; nell'atrio, invece, veniva attivato in alcuni giorni della
settimana, il laboratorio di ricamo.
Quando si aprì
l’Asilo, fin dal primo giorno, molti piccoli riempirono l’aula, lieti di
trovarsi in ambiente nuovo, pulito e ordinato dove vi erano tanti giocattoli e
materiali che non avevano mai visti e che guardavano con grande curiosità
balbettando parole dialettali che la suora si sforzava di capire.
Nelle domeniche,
festività e primi venerdì del mese vi era una lunga fila di ragazzi, padri e
madri di famiglia, vecchi che avanzavano
poggiandosi al bastone, che si snodava
per i campi percorrendo tanta strada a piedi sfidando la polvere e il fango,
sotto il sole cocente o la pioggia, per raggiungere la chiesetta improvvisata
preso i locali dell'asilo e dell'istituto. Era gente che manifestava una grande
fede ma anche una forte ignoranza religiosa perchè per molti era la prima volta
che assistevano ad una funzione religiosa. Così le suore iniziarono la scuola
di catechismo per i grandi e per i piccoli con una notevole partecipazione di
gente desiderosa di ascoltare e di apprendere, anche perchè quello organizzato
dalle suore era, nella zona, l'unico punto di aggregazione.
Oltre che
all’apostolato le suore si dedicarono anche alla carità: visitavano ammalati,
curavano piaghe, consolavano gli afflitti, si interessavano di ogni necessità,
assistevano i moribondi. Con una cassetta di pronto soccorso offerta
dall’ufficio dell'INAIL di Reggio Calabria,
si trasformavano in infermiere per medicare ferite e curare malattie
ricevendo la gente all'asilo o girando per le loro abitazioni. Quante volte,
anche di notte, con la pioggia ed il vento, venivano chiamate per recarsi al
capezzale di qualche agonizzante. Già l'anno dopo, il primo maggio del 1943, si
apriva la scuola di taglio e cucito per le ragazze e a distanza di poco tempo
sorse anche la scuola rurale frequentata
da un buon numero di alunni. Le ragazze
del laboratorio, una cinquantina, insieme al taglio e al cucito e al ricamo
imparavano ad affrontare anche i problemi della vita.
La popolazione,
grazie all’operato delle suore, era cambiata, si notava una nuova
consapevolezza non solo religiosa ma anche civile soprattutto fra le famiglie
che più frequentavano le iniziative.
Le “favelas”
del Mato Grosso in Brasile
Nel 1953 Florenzia ha ottant’anni
ed è piena di acciacchi. Ma non si ripiega sui propri malanni. Pensa che ha
ancora un importante passo da far fare al suo Istituto prima di chiudere gli
occhi. Deve fargli vivere una nuova tappa nel percorso di accoglienza che ha
segnato tutta la sua esperienza. Quello della missione verso i popoli che
vivono una grave situazione di miseria e di emarginazione dove accoglienza vuol
dire prima di ogni altra cosa sopravvivenza e promozione sociale. Alla missione
Florenzia ci pensava da molti anni, dal 1937 quando voleva mandare le suore in
Africa orientale. Ora è il Brasile ed in particolare il Mato Grosso che le
schiude le porte attraverso le parole di un padre cappuccino missionario che le
aveva parlato della drammatica situazione dei poveri e dei bambini in quelle
terre. Una terra dove alla base della fame e della miseria c’erano soprattutto
l’ignoranza e, per quanto riguardava gli indios, un’esistenza disumana e priva
di ogni diritto civile.
Florenzia tutte le volte che le sue
figlie partivano per dare vita ad una nuova esperienza le accompagnava per
condividere con loro i disagi e le difficoltà degli inizi. Ma ormai da diversi
anni aveva dovuto rinunciare a questo rituale perché la salute non glielo
permetteva. Comunque è pienamente partecipe dell’avventura. Sceglie una ad una
le suore da mandare affidando loro, in una funzione solenne, l’incarico
formale. E così il 3’ giugno quattro suore – “nel nome del Signore” - partono per il Brasile. Non è facile
l’insediamento a Jatai anche perché il loro compito è quello di realizzare
l’accoglienza in un ospedale che prendeva le mosse proprio col loro arrivo. E
dove il loro servizio – oltre che per i problemi di ambientamento in un altro
emisfero, la lingua, le abitudini - era complicato dai rapporti con
un’amministrazione che tendeva a scaricare sulle suore le difficoltà di
gestione, con le infermiere dove molte erano protestanti e mal sopportavano la
funzione di controllo che svolgevano le suore.
Florenzia seguiva le sue suore da
Roma con partecipazione e apprensione. Attendeva le loro lettere, le
consigliava, le stimolava, qualche volta non mancava di rimbrottarle quando le
sembrava che si stessero lasciando sopraffare dalle difficoltà. L’esperienza
nell’ospedale di Jatai durerà solo tre
anni ma l’esperienza brasiliana continua ancora oggi e si estesa anche al Perù
dando vita a numerose opere di condivisione e quindi di promozione umana e di
evangelizzazione.
La grande lezione umana di
Florenzia era che nelle situazioni difficili, se si era convinti dell’obiettivo,
bisognava avere pazienza e perseveranza. Alle suore in Brasile scriveva
attingendo ad una saggezza contadina che aveva maturato, senza mai
dimenticarla, nella sua giovinezza a Pirrera. “Il fico maturo si prende dall’albero e si mette in bocca, ma per le
altre cose si richiede tempo e poi la tristezza sarà cambiata in gioia”.
Ecco che cosa era l’accoglienza per
Florenzia: un filo dorato che univa fra di loro l’amore, la perseveranza,
l’accettazione del distacco, la capacità di mettere radici dovunque, un animo missionario
itinerante aperto a tutti con l’impegno di darsi “tutto a tutti”.
Michele
Giacomantonio