Riceviamo da Riccardo Lo Schiavo e pubblichiamo:
Nella giornata di ieri si è celebrato nella chiesa di S. Pietro a Lipari il funerale del “maestro” Giuseppe Criscillo, per tutti lo “zio Pino”.
La funzione è stata officiata da padre Sardella che nella sua omelia ha ricostruito con passione, sentimento e dovizia di particolari la vita di uomo che è stato certamente esempio di correttezza, onestà ma soprattutto il simbolo di un valore oggi sempre più in crisi: il matrimonio, la vita coniugale, l’amore sponsale.
Proprio per questo motivo quando convolai a nozze non ebbi dubbio alcuno su chi dovesse essere uno dei miei testimoni!
Di quel matrimonio u zù Pinu fu in un certo senso anche artefice: ... era l’estate del 1997, durante una gita in barca alla Sciara del Fuoco conobbi Manuela, una vacanziera milanese sbarcata per caso nella remota e selvaggia Ginostra (allora non c’era ancora neppure l’elettricità!!).
Fu subito amore vero… ma presto le vacanze finirono e arrivò il giorno della partenza. Col cuore in gola ci promettemmo che ci saremmo presto rivisti, ma i chilometri erano davvero tanti. Finché un giorno ebbi un’illuminazione: lo zio Pino, come era solito fare, era seduto sul suo bisuolo col suo mandolino… gli chiesi di avvicinarsi ei di intonare via telefono una serenata, una canzone di passione per il mio amore lontano. Dapprima esitò, poi mi guardò, capì la sincerità della mia richiesta, mi sorrise, e si abbandonò nei suoi impareggiabili virtuosismi.
Quelle note arrivarono dritte al cuore di Manuela che alcune settimane dopo si imbarcò sul traghetto da Napoli e tornò nuovamente a Ginostra per poi restarci per sempre..
Di momenti vissuti con lo zio Pino ho la fortuna di poterne raccontare tanti ma quelli che certamente ricordo con più nostalgia sono le uscite in barca a pesca.
Zio Pino aveva un vecchio conso – una lunga corda con attaccati a distanza regolare una serie di ami. Era una delle sue passioni più vere. Per approntarlo impiegava intere giornate, non certamente perché non avesse assoluta padronanza dell’uso di quell’attrezzo ma semplicemente perché ogni filo, ogni amo, ogni nodo, insomma ogni minimo particolare doveva essere preparato alla perfezione.
Quando decidevamo di “calari u consu” l’appuntamento era al tramonto al “porto Pertuso". Innescavamo con cura i grandi ami - esattamente 200, non uno in più, perché questo è il massimo numero consentito dalla legge - e quindi solcavamo il mare di Ginostra fino a raggiungere la posta prescelta.
Al mattino dopo, all’alba, ma non senza prima avere sorseggiato il suo caffè immancabilmente in compagnia dell’amata Lina, la moglie cui per l’occasione toccava la levataccia, mi bussava alla porta e si ripartiva per salpare il conso.
Erano lunghi momenti di straordinaria intensità che lui quasi rallentava per goderne della maggiore durata: anche quando sentiva i violenti strattoni di un grosso pesce - una murena, un grongo o in qualche caso più fortunato una cernia - che aveva abboccato, non si lasciava prendere dalla frenesia, continuava a tirare quel filo con regolarità ma i suoi occhi ( mentre i miei lacrimano) iniziavano a brillare di una luce di felicità, e sul suo viso gioioso appariva un sorriso che io mi porterò sempre dentro.