C’è chi nel Parlamento nazionale ed all’Assemblea regionale siciliana sta con la piazza ma si batte per lasciare le cose come stanno. Vogliono la botte piena e la moglie ubriacae mentre che ci sono, tengono due piedi in una scarpa. Danno ragione a tutti, ai Forconi che vogliono mandare a casa governanti e parlamentari spendaccioni ed inefficienti e fanno barricate per conservare gli apparati. Una indecenza.
L’abolizione delle Province, icona di questa ambiguità, è vecchia come il cucco, e non c’è verso di schiodarla. Si è riusciti a ridimensionare con il groppo alla gola la rete degli uffici giudiziari, un servizio importante per i cittadini, ma non si riesce a cancellare le province. Soprattutto queste siciliane, che avevano dato alla Regione una sorta di primogenitura, giacché proprio nell’Isola il processo di abolizione era iniziato prima che altrove. Ora la Regione siciliana è passata in coda: l’Assemblea non riesce a cavare il ragno dal buco ed ogni giorno c’è qualcuno che gira la frittata a suo uso e consumo con il risultato che non si cambia di una virgola.
Le motivazioni dei provincialisti sono poco chiare, a parte il vulnus alla democrazia (verrebbe scippato ai cittadini il diritto di scegliersi gli amministratori provinciali). Si sostiene che si spenderebbe di meno tenendole in piedi (rispetto a che cosa, non si capisce) e non c’è santo che tenga. E le spese per pagare gli amministratori, i presidenti, i collaboratori, gli uffici di gabinetti, gli autisti, i portaborse, come fanno ad aumentare se scompare tutta la filiera? Eppure fanno entrare l’asino per la coda, ormai non c’à da meravigliarsi di niente. In questi ragionamenti privi di senso scompare l’apparato che gira attorno agli amministratori provinciali.
L’apparato viene oscurato e si usa, come prova della permanenza dei costi, il personale alle dipendenze delle amministrazioni provinciali, che – naturalmente – rimarrebbe in servizio, pur cambiando “datore di lavoro”.
A Palazzo dei Normanni sull’argomento è stata scritta un’altra pagina indimenticabile: il riordino delle nove amministrazioni provinciali è stato rinviato, restano i commissari. Si è deciso di non decidere.
La distanza fra le logiche della politica e quella dei comuni mortali rischia di divenire siderale: quando vengono meno le risorse a casa nostra, si tagliano le spese, superflue e di “seconda” necessità. La politica, invece, lascia le cose come stanno, perché chi decide non ci mette niente di tasca e l’idea di chiudere il bivacco spaventa.
Il costo per il funzionamento dei Consigli e Giunte provinciali, come si ricava dai Bilanci di previsione del 2012, è di 409 milioni di euro (13 euro medi per contribuente). Se le Province si fossero limitate, nel 2011, a spendere risorse solo per i compito che loro attribuisce la legge, secondo il Rapporto Uil 2012, il risparmio sarebbe quantificabile in un miliardo e duecento milioni di euro l’anno. Su questi dati non ci piove, è la realtà con la quale dovrebbero misurarsi. Ma non c’è verso. I costi derivanti dalla “sovrabbondanza” del sistema istituzionale fanno gola ai “resistenti”.
L’abolizione delle Province, icona di questa ambiguità, è vecchia come il cucco, e non c’è verso di schiodarla. Si è riusciti a ridimensionare con il groppo alla gola la rete degli uffici giudiziari, un servizio importante per i cittadini, ma non si riesce a cancellare le province. Soprattutto queste siciliane, che avevano dato alla Regione una sorta di primogenitura, giacché proprio nell’Isola il processo di abolizione era iniziato prima che altrove. Ora la Regione siciliana è passata in coda: l’Assemblea non riesce a cavare il ragno dal buco ed ogni giorno c’è qualcuno che gira la frittata a suo uso e consumo con il risultato che non si cambia di una virgola.
Le motivazioni dei provincialisti sono poco chiare, a parte il vulnus alla democrazia (verrebbe scippato ai cittadini il diritto di scegliersi gli amministratori provinciali). Si sostiene che si spenderebbe di meno tenendole in piedi (rispetto a che cosa, non si capisce) e non c’è santo che tenga. E le spese per pagare gli amministratori, i presidenti, i collaboratori, gli uffici di gabinetti, gli autisti, i portaborse, come fanno ad aumentare se scompare tutta la filiera? Eppure fanno entrare l’asino per la coda, ormai non c’à da meravigliarsi di niente. In questi ragionamenti privi di senso scompare l’apparato che gira attorno agli amministratori provinciali.
L’apparato viene oscurato e si usa, come prova della permanenza dei costi, il personale alle dipendenze delle amministrazioni provinciali, che – naturalmente – rimarrebbe in servizio, pur cambiando “datore di lavoro”.
A Palazzo dei Normanni sull’argomento è stata scritta un’altra pagina indimenticabile: il riordino delle nove amministrazioni provinciali è stato rinviato, restano i commissari. Si è deciso di non decidere.
La distanza fra le logiche della politica e quella dei comuni mortali rischia di divenire siderale: quando vengono meno le risorse a casa nostra, si tagliano le spese, superflue e di “seconda” necessità. La politica, invece, lascia le cose come stanno, perché chi decide non ci mette niente di tasca e l’idea di chiudere il bivacco spaventa.
Il costo per il funzionamento dei Consigli e Giunte provinciali, come si ricava dai Bilanci di previsione del 2012, è di 409 milioni di euro (13 euro medi per contribuente). Se le Province si fossero limitate, nel 2011, a spendere risorse solo per i compito che loro attribuisce la legge, secondo il Rapporto Uil 2012, il risparmio sarebbe quantificabile in un miliardo e duecento milioni di euro l’anno. Su questi dati non ci piove, è la realtà con la quale dovrebbero misurarsi. Ma non c’è verso. I costi derivanti dalla “sovrabbondanza” del sistema istituzionale fanno gola ai “resistenti”.
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