
Solita vecchia storia insomma: l’Iccat si riunisce e cambia le carte in tavola. Le stesse approvate dalla Commissione a Marrakech nel 2008. “Regole che l’Italia ha rispettato appieno mantenendo il piano di riduzione e distinguendosi in Europa per virtuosismo”, spiega al VELINO il direttore di Federcoopesca Gilberto Ferrari. Tutto in discussione dunque, con Stati Uniti, Canada e Giappone che giocano al ribasso sulla pelle europea. Il fatto è - da quanto ha appreso IL VELINO – che il Giappone pur di non vedere inserito il tonno rosso nel Cites, è disposto ad accettare un ulteriore taglio dello sforzo di pesca. Taglio che andrebbe a pesare però sulla pesca dei paesi europei. Una situazione, quella dei operatori del mare, che non si distingue troppo da quella degli agricoltori: drammatica. Se si tiene conto che le barche oggi in Italia sono 47 e che 21 di queste hanno aderito al bando di demolizione, le barche sopravvissute sono – se si considerano anche i ritardatari – circa 25. Se poi si tiene conto che ogni barca avrà a disposizione circa 70 tonnellate di pescato all’anno a cinque euro al chilo, i conti sono presto fatti: un fatturato per imbarcazione di circa 350 mila euro. Ma, come si sa, fatturato non vuol dire guadagno. Ogni barca ha un costo di cantiere e manutenzione di circa 50 mila euro, di gasolio di circa 80 mila euro e di personale di circa 120 mila euro. Senza considerare poi il valore intrinseco delle imbarcazioni – più o meno 2,5 milioni di euro – gli imprevisti e gli investimenti di ammodernamento fatti e richiesti compiuti attraverso mutui. Totale: il guadagno è poco meno di zero. “I pescatori non ce la fanno più”, spiega Ferrari. Senza considerare la confusione che la decisione Iccat genererà a livello nazionale. Le quote di pescato per ogni barca andranno riviste a seconda di quelle che rimangono e che restano. Tutto in forse quindi, soprattutto il futuro dei pescatori.