L’approvazione del bilancio interno dell’Ars ha registrato due novità quest’anno: la contestazione di alcuni deputati – fra gli altri l’ex capogruppo parlamentare Pd, Antonello Cracolici – e la riduzione, seppur lieve, dei costi (circa otto per cento). Curioso: in passato i costi sono aumentati e non ci sono state contestazioni. Segno che le sensibilità verso i costi della politica sono aumentate? Chi lo sa.
Ma le contestazioni non hanno inciso per nulla sull’approvazione, tutto si è svolto con la consueta sobrietà e speditezza. Due terzi dei deputati sono al loro debutto, ci sono gruppi barricaderi, come il M5S, ma le liturgie sono rimaste le stesse. O quasi.
Vediamo di capire allora, andando al di là dell’elencazione delle spese, buttate giù a sacco d’ossa.
Con la Guardia di Finanza “in casa”, cioè a Palazzo dei Normanni, l’ex Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana Francesco Cascio, allargando le braccia, spiegò che “Ci sono spese dei gruppi politici su cui l’Ars non ha alcun tipo di controllo. I Gruppi sono associazioni di diritto privato e l’Ars non può entrare nella gestione dei contributi che ricevono se vengono impiegati in attività a carattere politico”.
Aggiunto un posto a tavola – un altro componente nel Consiglio di Presidenza dell’Ars, grazie all’autorizzazione di un nuovo gruppo parlamentare “in deroga” , il Presidente dell’Assemblea in carica,Giovanni Ardizzone, allargando le braccia, spiegò che non avrebbe potuto essere posto un veto. Sarebbe stato altrimenti, ha lasciato intendere, un trattamento discriminatorio. Consiglio più largo, maggiori spese. Inevitabile.
Sia Cascio quanto Ardizzone hanno manifestato correttamente le loro ragioni, ma hanno omesso un dettaglio: l’Assemblea avrebbe potuto modificare le regole in qualunque momento e comportarsi diversamente. E, aggiungiamo, virtuosamente. Deliberando, quanto a Cascio, l’0bbligo della rendicontazione certificata. Fino a che, infatti, si lasciano le cose come stanno, si allargano le braccia e tutto resta come prima.
L’autodichia dell’Assemblea regionale – autonomia amministrativa e gestionale del Parlamento – permette di decidere la spesa, il trattamento del personale, l’entità e la qualità delle spese, non ha limiti e preclusioni, esercita il suo ruolo sia quando concede che quando toglie. Finora, tuttavia, è stata usata soltanto per adeguarsi alle consuetudini di longanimità e generosità, dettate dal cosiddetto parametro con il Senato della Repubblica.
Fra Cascio e Ardizzone, tuttavia, qualcosa è cambiato, e non solo per il clima ormai surriscaldato che si respira attorno ai partiti: il bilancio interno dell’Assemblea regionale siciliana registra quest’anno una riduzione della spesa di unidici milioni di euro. Non è un granello di sabbia ma nemmeno il taglio auspicato e risolutivo, l’approdo alla sobrietà.
La strada è lunga. Rispetto alle giaculatorie settimanali della legislatura precedente – l’annuncio di risparmi del Presidente Cascio, traditi puntualmente dal bilancio – il bicchiere è mezzo pieno; rispetto al bisogno di destinare risorse consumate in eccesso dall’Ars a bisogni elementari inevasi, il bicchiere è mezzo vuoto.
Centosessantaquattro milioni di euro – questa la cifra che “chiude” il bilancio interno 2013 - sono niente nel mare magnum degli sprechi e dei costi (esorbitanti) degli apparati (27 miliardi di euro). Sono stati risparmiati undici milioni, abbassando i contributi ai gruppi parlamentari e spalmando i risparmi a quasi tutte le voci di bilancio, con l’eccezione della Fondazione Federico II, una anomalia in considerazione delle maggiori erntrate per i ticket, delle agenzie d’informazione, i servizi informatici e duplicazione dei documenti. Aumentano addirittura le spese per il personale di segreteria e consulenza (da 2,4 milioni la prima voce, da 288 mila a 340 mila la seconda), mentre lievitano le spese correnti (39,5 milioni per il personale in quiescenza; 36,8 per il personale in dserviziuo; 20,4 milioni per i deputati in carica e 20 milioni per il vitaliozio ai deputati).
Il destino cinico e baro non c’entra nulla. Se gli aumenti degli emolumenti, a qualsiasi titolo, si conteggiano in percentuale invece che in valore assoluto le spese aumenteranno in modo esponenziale o quasi; se si ricorre alle consulenze giudicando insufficiente il supporto di funzionari pagati profumatamente; se non bastano i soldi dei ticket per mantenere la Fondazione (480 mila euro di contributo); se si tolgono quattrini ai gruppi e si passano alle segreterie dei componenti del consiglio di presidenza; se l’informatizzazione non fa calare la spesa (e invece la fa crescere), vuol dire che si è scelto di continuare a tirare fuori più quattrini di quanto si dovrebbe.
Nel Lazio ed in Friuli, tanto per citare alcuni casi, si è fatto di più e di meglio. La Sicilia, ci viene ricordato, è una Regione a statuto speciale, e Palazzo dei Normanni è una sede prestigiosa, antica, bisognosa di grandi attenzioni. Giusto, ma questo con gli stipendi, i vitalizi, le consulenze, le spese esorbitanti della Fondazione che c’entra?
La specialità non deve pesare sul groppone dei siciliani, ma deve permettere e suggerire vantaggi attraverso una gestione autonoma ed oculata delle risorse. Serve, insomma, a fare meglio delle Regioni a statuto ordinario, non il contrario.
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