Cos’hanno in comune una simpatica vecchietta francese impegnata per una gestione più sostenibile dei rifiuti a Stromboli, un ragazzo marocchino che ha recuperato un terrazzamento nella Valle del Brenta per
coltivarci la menta, e un gruppo di signori bolognesi alle prese con i
loro orti urbani alla periferia della città? Sono i protagonisti di tre
pellicole italiane in concorso quest’anno a CinemAmbiente, uno dei festival più importanti a livello internazionale nell’ambito del cinema ambientale, che si aprirà questa sera a Torino.
Tre film in realtà un po’ speciali, perché, in linea con il cambio di
passo della kermesse, abbandonano l’approccio angosciante di certi
documentari (comunque molto pregevoli) sui disastri ecologici, e
assumono un atteggiamento più costruttivo. “Dopo anni di
documentari che terrorizzavano il pubblico con le prospettive
apocalittiche dello sfruttamento dell’ambiente, adesso è arrivato il
momento di lungometraggi che propongono delle soluzioni”, spiega il direttore artistico Gaetano Capizzi. Film che, aggiunge il responsabile Programmazione del Festival Francesco Giai Via “rappresentano milioni di persone che si prendono sulle spalle la responsabilità del cambiamento”. Proprio come loro.
Salvo Manzone è il regista de “La crociera delle bucce di banana”,
primo capitolo di un documentario più ampio, ancora in fase di
lavorazione, sulla gestione dei rifiuti. Protagonista è Aimée, anziana
signora francese che da 40 anni abita a Stromboli: combatte per una
corretta gestione dei rifiuti sulla sua isola, dove le limitazioni del
suolo obbligano a trasportare tutto via mare. Le soluzioni ci sarebbero
(il compostaggio, il progetto sperimentale di raccolta “carretta
carretta”), ma il politico, “che rappresenta la forza
conservatrice, preferisce lasciare tutto com’è e creare il problema dei
rifiuti da usare come pretesto per ricevere finanziamenti”, racconta il regista, lui stesso impegnato nell’associazione Rifiuti Zero Sicilia. Di fronte a esperimenti di gestione alternativa ben riusciti, infatti, “si giustifica ingigantendo il problema, dicendo che tutto è molto più complicato di come sembra”.
E così Stromboli, diventa il “paradigma della Sicilia. In scala
ridotta sono riconoscibili le stesse dinamiche della regione e
dell’Italia intera: l’emergenza rifiuti, l’assenza di raccolta
differenziata, il disagio dei netturbini, le lotte degli ambientalisti e
l’opposizione dei potenti”. Alla fine, in bocca rimane il sapore dolce
amaro delle piccole buone pratiche finite in una bolla di sapone, ma
l’impegno di Aimée e la sua determinazione autorizzano a sperare.
Così come lasciano un po’ di spazio all’ottimismo le storie raccontate da Michele Trentini in “Piccola Terra”, ambientato in Valstagna, in provincia di Vicenza.
I protagonisti, racconta il regista, “sono persone che con entusiasmo
cercano di dare nuova vita ad un paesaggio terrazzato piuttosto
suggestivo” oggi spesso in stato di abbandono. Tra di loro c’è anche Aziz,
un ragazzo di origine marocchina che “ha avuto la felice intuizione di
adottare un terrazzamento per coltivarvi la menta del Maghreb e
l’integrazione. Assieme siamo andati sui monti dell’Atlante per
recuperarla”. Accanto a questa, ci sono altre storie di ritorno alla terra, controcorrente:
da chi rimane aggrappato con ostinazione e orgoglio all’antico podere
di famiglia, a chi decide di lasciare il posto di operaio presso una
cava per ritrovare se stesso, fino a chi, venendo dal mondo urbano,
decide di prendersi cura di campi e muri a secco grazie a un innovativo
progetto di adozione. “Ognuno dei protagonisti – spiega Trentini, che si
è laureato a Dresda con tesi su una comunità ecologista della Germania
dell’Est – comunica le idee e i valori in cui crede. La menta di Aziz,
ad esempio, ha un grande valore simbolico; riuscire a mettere le mani
nella terra che da anni ti ospita è un po’ come affermare per sé e per i
propri figli: ‘Questa è anche la nostra terra’. In generale ognuno dei
protagonisti è la dimostrazione di quanto si possa ricevere dalla terra e dall’ambiente, non solo in termini materiali, se ci si prende cura di loro”.
Proprio come avviene tra gli anziani del centro sociale Casa del Gufo, che coltivano gli orti urbani nella periferia bolognese. La loro storia è al centro di “Ortobello. Primo concorso di bellezza per orti”, diretto da Marco Landini e Gianluca Marcon.
“E’ una comunità molto interessante di persone che frequentano l’orto e
hanno molte cose da raccontare”, spiega Landini. Dalle parole degli
ortolani, “a emergere è il rapporto dell’uomo con la natura,
l’inesorabile scorrere del tempo che appassisce il primo e fa maturare
la seconda e l’esperienza di un gruppo di anziani trasformata nel
racconto di una memoria collettiva, pubblica e universale”. Tra zucche e
pomodori, in questi pezzetti di terra “bellissimi anche dal punto di
vista estetico”, infatti, “si vive in un tempo dilatato e sospeso,
lontano dai ritmi concitati della città. Negli orti non serve andare veloci: è un buon modo di affrontare la vita”.
Veronica Ulivieri
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