A cura degli alunni della classe III A della Scuola Media “G. Galilei” di Canneto Lipari.
Anche quest’anno, in occasione della giornata della memoria con la nostra insegnante, la prof.ssa Carmelita Merlino, abbiamo approfondito questo particolare momento storico con documenti, immagini, filmati e riflessioni che ci hanno gradualmente condotto ad una rilettura critica di una pagina drammatica della nostra storia che ha segnato irrimediabilmente l’esistenza di migliaia di cittadini italiani e non solo ebrei. Perché la deportazione non fu solo per gli ebrei ma anche per tutti coloro che ebbero il coraggio di opporsi al fascismo e di non tradire mai la propria patria, sfidando il nemico e non alleandosi mai con esso alla luce delle nuove vicende politiche dopo l’armistizio dell’otto settembre del 1943. L'accostamento e il confronto delle diverse situazioni hanno consentito di passare dalla soggettività del racconto alla comprensione di un fenomeno storico, e di soffermarci su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia del nostro Paese e dell’ Europa, affinché simili eventi non possano mai più accadere.
A supporto di questa attività e con l’intento di trasferire dalle pagine del testo di storia al vissuto personale di uomo che sulla propria pelle ha sperimentato l’angosciante esperienza della deportazione, abbiamo invitato nella nostra scuola il Sig. Giuseppe Mollica, che di recente è stato insignito della medaglia d’onore concessa dal Presidente della Repubblica in quanto deportato, durante il secondo conflitto mondiale, in un lager nazista e destinato al lavoro coatto per l’economia bellica. Il signor Mollica, il quale ancora ringraziamo per la Sua grande disponibilità e cordialità, con dovizia di particolari e con tanti riferimenti storici, con forte intensità e profondo realismo, sul filo della memoria e sull’onda delle emozioni, ci ha raccontato la “Sua Storia” catapultandoci in prima linea e facendo “vivere” anche a noi una triste pagina del nostro passato, oltre che a trasmetterci dei grandi valori, quali la Patria, la Pace e l’incommensurabile valore della VITA, approdando così alla riflessione finale che è dentro di noi che dobbiamo imparare a nutrire il seme della fratellanza e della pace, perché possa un giorno germogliare, dando finalmente frutti a beneficio dell’intera umanità.
Ecco l’intervista che abbiamo realizzato.
- Quali ricordi conserva di quella terribile esperienza che ha vissuto nel lontano 1943? E come è stato fatto prigioniero dai tedeschi?
R. A seguito l’Armistizio dell’8 settembre 1943, firmato dall’Italia, durante il Governo Badoglio, con gli Alleati venne meno il patto con la Germania e ciò scaturì le dure rappresaglie da parte dei tedeschi verso gli italiani, sia verso quelli che si trovavano al fronte che verso migliaia di civili rastrellati e trasferiti nei campi di prigionia. Io, a quel tempo, avevo 19 anni e mi trovavo militare presso la IV Armata di Artiglieria a Piacenza. La mattina del 9 settembre eravamo in libera uscita, quando abbiamo sentito il suono della tromba che ci richiamava in caserma, perché i tedeschi ci avevano attaccato. In un primo momento il nostro Capitano ha deciso di resistergli e così è iniziato il conflitto a fuoco, tant’è che una pallottola mi ha sfiorato la testa. Ma dopo una lunga giornata di combattimento, ormai stremati, abbiamo deciso di arrenderci ed esponiamo la bandiera bianca. I tedeschi ci circondano e ci fanno prigionieri. Dopo 4 giorni ci trasferiscono alla stazione e ci chiedono se vogliamo combattere al loro fianco contro gli americani, ma nessuno di noi accetta e così ci fanno imbarcare su un treno merci e ci trasferiscono in Germania in un campo di prigionia a 30 Km da Berlino, dove qui c’erano altri prigionieri, francesi, russi e belgi.
- Come si svolgeva la vita in questo campo?
R. Eravamo in delle baracche e dormivamo su delle dure panche di legno; abbiamo patito tanta fame e freddo. La mattina ci svegliavamo prestissimo, e a piedi percorrevamo 3 Km per raggiungere la fabbrica bellica dove ci avevano destinato per costruire motori per aerei, e dalle 7 del mattino lavoravamo per 12 ore di seguito senza mangiare e sempre sotto sorveglianza, perché i tedeschi temevano un eventuale boicottaggio agli impianti della fabbrica. La sera tornavamo al campo, nuovamente a piedi per altri 3 Km, dove ci davano un misero pasto che consisteva in un mestolo di una specie di minestra di patate con le bucce, una rapa, 200 gr di pane e 20 gr di margarina. Questa era la sola ed unica razione di cibo. E ogni giorno era così, non c’erano feste, né Natale, né Pasqua, né domenica. Stavo così male che per salire le scale dovevo aggrapparmi alla ringhiera. E in queste condizioni ho trascorso anche il mio 20° compleanno. Era il 1° febbraio del 1944.
- Come ha fatto a sopravvivere?
R. Finalmente a Pasqua del 1944 è venuto a trovarci un cappellano militare, ci ha confessato e fatto la comunione. Ha visto le nostre terribili condizioni e così ci ha promesso che, rientrato a Roma attraverso la Santa Sede, avrebbe cercato di aiutarci. Dopo 15 giorni è arrivata una commissione medica tedesca e ha constatato il nostro grave stato di salute e le nostre precarie condizioni di vita. Molti erano infatti deperiti ed ammalati di tubercolosi. Da quel giorno qualcosa è cambiato. L’orario di lavoro è stato ridotto a 8 ore e con un due brevi momenti di pausa. E’ arrivata anche una cucina da campo e abbiamo avuto un pasto in più.
- Ha mai avuto momenti di sconforto, di paura ? E come li ha superati?
R. Vivevamo nella paura e nello sconforto perché i pericoli e la morte erano sempre in agguato. Ricordo la domenica mattina del 6 agosto 1944, mi trovavo in fabbrica ed è suonato l’allarme che preannunciava l’arrivo dei bombardamenti aerei, perché intanto gli americani avanzavano e perlustravano i territori dei tedeschi. Alle 11,30 iniziano a bombardare a tappeto sulla fabbrica per lunghi 20 minuti; a noi ci avevano fatto rifugiare nei sotterranei dove vi erano i depositi e così ci siamo salvati. Ma in quella giornata in tutta la fabbrica ci sono stati circa 2000 morti e per i quali, nei giorni successivi, ci hanno fatto scavare le fosse. Tutto era stato distrutto ed incendiato. Abbiamo poi raccolto i pezzi dei macchinari che potevano ancora essere utilizzati e per lavorare ci hanno trasferito in una miniera di alluminio e argento abbandonata.
Un altro momento di grande paura l’ ho vissuto quando, a seguito un guasto agli impianti dove lavoravamo, ci hanno portato al tribunale militare per indagare come era avvenuto il danno al motore, perché i tedeschi pensavano sempre che noi potessimo sabotare la fabbrica. Alla fine dell’interrogatorio un ufficiale che parlava italiano mi ha chiesto: “Tu cosa pensavi nel momento che c’è stato il guasto?” Ed io gli risposi: “Pensavo a mia madre”. Dopo un pò ci hanno rilasciati e fatto rientrare. La mia unica forza è stato veramente il pensiero della mamma, dei familiari e di Dio. Dio esiste ed io sono un miracolato e la fede in Lui mi ha salvato.
- Ha avuto la possibilità di stringere amicizia con qualche altro deportato italiano?
R. Purtroppo si pensava solo a sopravvivere a quel dramma, a salvarci la pelle. Si pensava solo a se stessi; era tanta la sofferenza e la disperazione; li dentro non eravamo persone ma solo dei numeri. Io conservo ben inciso nella mia memoria il mio numero di matricola 112313.
- Come è riuscito a tornare finalmente alla sua amata isola?
R. Era la fine del mese di marzo del 1945, sentivamo sempre più vicino al nostro campo i rumori dei cannoni degli americani, quando a mezzanotte non abbiamo più visto le guardie tedesche; avevano abbandonato noi ed il campo per mettersi in salvo. E così in fretta ci siamo organizzati ed avviati a piedi, possibilmente da soli, o a molta distanza l’uno dall’altro, verso l’Italia. Il cammino era lungo ed incerto. Ma la speranza di tornare a casa era immensa. Tante sono state le peripezie ed i pericoli affrontati durante questo rientro. La prima tappa è stata Stoccarda. Era aprile, qui una signora mi ha notato e mi ha fatto entrare in casa; era ben informata, infatti mi ha detto che tra un mese circa la guerra sarebbe finita. Mi ha offerto da mangiare e mi ha indicato la strada per il Consolato Italiano. Ma qui anche loro erano in fuga, mi hanno solo dato un pacco di viveri e così ho ripreso il cammino a piedi. Dopo un po’ sono giunto ad Innsbruck. Da qui, in treno con altri reduci, ho varcato il confine ed abbiamo cantato “Mamma son tanto felice perché torno da te”. Finalmente ero in Italia, a Bolzano e con un camion ho raggiunto Verona, dove mi sono fermato alcuni giorni, perché intanto vi era la risalita delle forze alleate e per le strade e le città vi era tanta confusione. Dopo, finalmente, ho raggiunto Roma e da qui, dopo tanta attesa con altri meridionali, con un treno sono arrivato in Sicilia. E poi con una nave sono giunto a Lipari. Era il 4 o 5 maggio del 1945. La guerra era finita, la mia prigionia si era conclusa e finalmente potevo riabbracciare mia madre ed i miei familiari tutti. L’emozione nel rivederli è stata tanta e loro mi hanno abbracciato piangendo.
- Ha mai pensato di raccontare la sua storia in un libro affinché tutti possano conoscere il sacrificio di un uomo di grande valore come Lei?
R. Il mio desiderio è quello di scrivere un diario su questo triste periodo della mia vita, a ricordo di una delle più grandi tragedie che le popolazioni della mia epoca ha vissuto, affinché tutto ciò non venga dimenticato e sia da monito per le generazioni future.
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