(Lino Natoli) Ci sono occasioni in cui sfogliando un giornale si apprendono cose che ti lasciano inerme di fronte la tua stessa ignoranza. Domenica scorsa, per esempio, leggendo La Repubblica, ho apprezzato due intere pagine del quotidiano nazionale dedicate alla cucina eoliana. Molta pubblicità più che contenuti, ma di questi tempi autentico dono del cielo.
A pagine 37 è stato riproposto un brano del libro di Roberto Alajmo “L’arte di annacarsi. Un viaggio in Sicilia”, ho potuto così scoprire una cosa per me impensabile, ovvero che a Salina il piatto ricorrente era il brodo di sasso. Secondo l’autore, infatti, “si faceva bollire un grosso ciotolo marino, fin quando non rilasciava i suoi umori più reconditi regalando una zuppa di pesce talmente povera da prevedere del pesce solo una memoria minerale”. La prima immagine che mi è venuta in mente è stata quella di Charlot che ne “La febbre dell’oro” fa il brodo con il suo scarpone. Tutto molto romantico, molto suggestivo, persino esotico.
Confesso la mia ignoranza: non lo sapevo. Non solo, non lo sospettavo, non l’avrei mai immaginato, non ci avrei mai creduto. Di più, nonostante l’autorevolezza dell’autore, non ci credo. Non posso crederci. Perché, benché in queste isole si siano a lungo provate fame e miseria, una cosa nel passato non è mai mancata, la possibilità di affacciarsi su uno scoglio per prendere due altrettanto miserabili pesci. Due teste di pesce da cui ricavare un brodo meno patetico, meno poetico del brodo di sasso, ma più volgarmente saporito. Magari ai salinari sarà mancata la cipolla, lo scalogno, l’olio, i capperi (sic!). Ma per quale motivo dovevano privarsi di ciò che era ampiamente disponibile per surrogarlo con un sasso rimane per me un mistero.
Tuttavia, siccome non posso provare il contrario, e siccome nonostante la mia incredulità, si dimostrerà che la storia è vera, che a Salina facevano il brodo con i sassi del bagnasciuga, mi riprometto di provare la ricetta a costo di dover tenermi anche questo sullo stomaco.