Chi ha la fortuna di visitare i musei
stranieri si rende conto immediatamente del perché i nostri beni
culturali sono allo stremo, privi di risorse, incapaci di
autofinanziarsi e con la naturale propensione a respingere i
visitatori piuttosto che attrarli. La visita ad un qualsiasi museo
europeo rende plasticamente evidente la diversa impostazione
culturale che la pubblica amministrazione ha nel nostro paese nei
confronti dei luoghi deputati a fornire e far fruire cultura. Mentre
all'estero i musei, le opere d'arte in genere, vengono considerati
opportunità per produrre ricchezza, richiamare turisti, creare
occasioni di lavoro, ma soprattutto fucine di idee, creatività,
conoscenze; da noi i musei si considerano ancora come delle specie di
carceri dove le opere vengono detenute al riparo da malintenzionati,
custodite da una pletora di secondini, spesso insofferenti nei
confronti dei visitatori considerati dei potenziali nemici mortali
della loro placida quotidianità. Quando uso la metafora dei
secondini non mi riferisco soltanto ad alcune tipologie di custodi,
ma soprattutto ai responsabili delle pubbliche amministrazioni e
degli enti deputati alla migliore gestione dei beni affidatigli. In
questo modo il museo, anziché produrre ricchezze di vario tipo,
riesce a produrre soltanto debiti, divenendo una voce passiva dei
bilanci statali e regionali, sopportata con rassegnazione piuttosto
che esibita con orgoglio.
In Sicilia, in particolare, la nascita
dei beni culturali è stata salutata dai partiti politici del tempo
come l'ennesima occasione per creare risorse elettorali, assunzioni a
ripetizione a cui non è seguita mai alcuna strategia di promozione e
sviluppo. Più recentemente, i beni culturali sono serviti a dare
rifugio a precari, lsu e varie tipologie di lavoratori a rischio.
Anche in questo caso senza che sia seguita alcuna azione di rilancio
del patrimonio artistico e culturale della regione. La testimonianza
di questa pochezza, dell'incapacità culturale di misurarsi con i
propri compiti è in questi giorni testimoniata dall'imbarazzo
proveniente da più parti nei confronti della dinamicità del museo
di Lipari. Non volendo rimanere carcere di reperti di straordinario
valore, il museo ha aperto nuove strade offrendo l'opportunità al
visitatore di misurarsi anche con l'arte contemporanea, con
l'antropologia, con la filosofia, con la musica. Riappropriandosi
così del proprio ruolo che è quello di motore e stimolo della
crescita culturale della comunità nella quale sorge. Perché sia
chiaro che i musei hanno un senso se sono destinati ai vivi e non ai
morti. Tuttavia questa inattesa attività, questa insospettata
volontà di mettersi in gioco, di andare oltre i propri compitini
d'ufficio, ha terrorizzato qualche solerte burocrate, poco propenso a
visitare i musei altrui, che l'ha considerata come una specie di
commistione immonda; contaminazione di sacro e profano, miscuglio di
generi che avrebbe danneggiato il buon nome dell'istituto.
In queste condizioni è difficile
mantenere l'entusiasmo e coltivare la buona volontà, ma siccome la
sopravvivenza dei beni culturali dipende dalla nostra capacità di
difenderli, dobbiamo trovare il coraggio di insistere e di fare
argine contro questa soffocante incapacità di apprezzare la
conoscenza, contro questo atteggiamento retrivo che non protegge i
musei ma li accompagna progressivamente alla chiusura. Il compimento
di un disegno perverso che ci vuole tutti più poveri ed ignoranti.
Lino Natoli
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