(di Gianni Farinetti - pubblicato su lastampa.it) Ci sono nomi di luoghi che hanno un misterioso potere evocativo, proprio il loro suono, intendo. Già prima di andarci la prima volta rotolavo fra le labbra: Stromboli, Stromboli, Stromboli, detta Strogile, esotico vocabolo greco che vuol dire «la rotonda». O rotondo, essendo l’isola, con Iddu il suo vulcano, un maschio.
Andò così: nell’autunno del 1978, il mio amico Sandro tornò da un viaggio in Afghanistan (sì, in quei beati, normali, anni si poteva andare in automobile, anche da soli, fin laggiù) e mi disse che aveva conosciuto un fascinoso architetto torinese che stava restaurando la fortezza di Kabul, Roberto Pagliero. Mi accompagni? Andiamo a trovare il suo compagno, l’attore teatrale Alberto Marché. Roberto e Alberto stavano allora in un attico di palazzo Cavour a Torino, una casa di sorprendente bellezza, zeppa di kilim, opere di Carol Rama (loro grande amica) e Giovanni Anselmo (altro stromboliano acquisito), terrazzi, fiori. Diventammo amici - tra gli amici più cari della vita - e l’estate dopo m’invitarono nella loro casa sull’isola, ci sarebbe stata anche l’imponente fantesca veneta Maria, una delle donne più finto burbere e baffute mai conosciute. Stromboli non sarebbe più stata così un inesplorato puntino nero sperduto nella carta geografica e la parola avrebbe acquistato un contorno, un peso.
Eccolo che respira, Iddu, ultimo fronte dell’arcipelago. Ciclopico, con i fianchi ruvidi, nero e viola, rotolato in un mare anch’esso screziato di neri, di blu mai pensati, di altri viola. Scesi sul molo di cemento inciampando nell’ultima maglia metallica della scaletta. Sul molo ci atterrai sulle ginocchia osservando l’elegante traiettoria aerea dello zaino. Sventura? Proprio da risalire sull’aliscafo - gelido e umidissimo - e tornare detto fatto a Milazzo, e da lì avviarmi per la più domestica, confortevole Taormina? Un uomo di età imprecisata, magari la mia stessa età, che era di anni venticinque, afferrò lo zaino e lo caricò su una scassata Ape Piaggio.
Era il salvifico Italo che mi disse col suo sorriso ridente e storto: «Va a casa di Alberto, eh? Il trasporto - del solo zaino - lo paga al ritorno». E sparì in una sinfonia di schioppettii marmitteschi. Sbagliai subito strada, io e le mie ginocchia sanguinanti, imboccando il lungo mare, un sentieraccio di sabbia e cemento che mi condusse in un campo di capperi ognuno col suo bel cartello Proprietà Privata ficcato in mezzo. Ma poi, improvvisa, la spiaggia di Ficogrande, e poi le languide anse della «strada bassa», e poi il bivio «del castello», con quelli che erano allora dei bui ruderi smozzicati, dove le uniche due vie, la «bassa» e la «alta», si congiungono nella borgata di Piscità. Dopo c’è solo l’ultima spiaggia (ah, l’ultima spiaggia), scogliere, il sentiero per la vetta di Iddu. E lui sempre lassù, fosco e incurante, schermato dall’ombra delle sette di sera. E poi, lì sulla sinistra, davanti a un portoncino, il mio zaino posato a terra. E oltre il portoncino il vialetto che attraversa in diagonale il giardino di Casa Warka con le dature pronte a sbocciare velenose nella notte. E poi il fico piantato da Maria quindici anni prima e l’enorme buganvillae che ricopre e ripara la terrazza. E quella terrazza silenziosa e deserta e bianca. Fu lì, un secondo prima che apparisse dalla porta del soggiorno Tìmur, il levriero bigio di Roberto, che capii, sentii in modo esatto, inappellabile, come l’avanzare di un rullo di tamburi - il sotterraneo rombo del vulcano che da quel momento imparai a conoscere - che la mia vita sarebbe da quel momento completamente cambiata.
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