Sabato sera sono salito a Quattropani,
per la festa “A luna nova”. Arrivare a Chiesa Vecchia mentre
l’orizzonte era rosso del tramonto e interrotto soltanto dalle
sagome grigie e lontane di Salina, Filicudi e Alicudi, sarebbe stato
già sufficiente per collocare la serata tra i migliori ricordi
dell’estate, quelli che riscaldano la memoria e il cuore nei mesi
invernali. Ciò che si è presentato dopo, tuttavia, renderebbe
necessario uno spazio mnemonico supplementare, una sorta di hard disk
portatile dove conservare le sensazioni che in molti – credo – si
sono ritrovati addosso tornando a casa. Grazie alla generosità,
all’intelligenza e alla passione degli organizzatori, ho potuto
godere di una bellissima e gratificante serata plasmata su due
qualità, purtroppo rare: semplicità e buon gusto. Cinema, teatro,
arte, poesia, musica, cibo e vino, si sono alternati sullo sfondo
dell’umile – e splendida – sagoma dell’antico santuario, ma
anche di un arcaico paesaggio di pietre monumentali, al quale si
accedeva lungo un percorso segnato da luci sobrie ed eleganti. C’era
spazio per il silenzio attento, e anche per il chiacchiericcio
allegro, per scambiarsi convenevoli, pettegolezzi, quattro
chiacchere; c’era chi accennava qualche passo di danza al ritmo di
un samba jazzato, chi si interrogava sul perché un quadro di
Stromboli fosse stato appeso all’ingiù, chi ridacchiava davanti
alle scene di “Arradio” o se riconosceva il vicino di casa tra
gli attori di “Ciaula scopre la luna”, chi faceva la fila due o
tre volte per un piatto di insalata o si perdeva dietro ai nomi
esotici declamati nei versi di Davide Cortese. Ognuno avrà
certamente preferito un determinato momento, una tra le tante cose
che la festa proponeva alla nostra attenzione; tutti, sono convinto,
abbiamo lasciato la piazzetta molto più ricchi, però, di quando vi
eravamo arrivati. Perché una festa, anche la festa di una contrada,
può regalare questa sensazione. “A luna nova” lo ha fatto
sottraendoci per qualche ora alla banalità, e restituendoci la
bellezza attraverso cose apparentemente insolite e inconsuete per una
festa “tradizionale” che, in quanto nuove, ci rendevano
protagonisti della loro scoperta. Così come era bello percepire
l’orgoglio della comunità che aveva lavorato per la sua riuscita,
dei tanti che avevano collaborato in mille modi diversi; e chi –
come me – non aveva fatto nulla ma beneficiava dei loro sforzi, si
sentiva un ospite gradito, un’emozione antica che riempie di
immenso piacere.
Certo, non c’erano le bancarelle con
le noccioline tostate, i cd pirata di Brigantony a tutto volume o la
posateria da un euro, né il ronzio martellante dei gruppi
elettrogeni; nessuno, quella sera, avrà fatto pipì dietro le siepi
o dormito in mutande su una panchina; e, soprattutto, qualche
migliaio di euro non è andato in fiamme in tre minuti scarsi di
giochi pirotecnici. Un gran peccato, davvero. Peccato, perché la
loro assenza dimostra come anche una festa popolare dove prevalgono
la cultura, il buon gusto, le cose semplici ma allo stesso tempo
ricercate, e magari – eresia! – costata pochi soldi, possa essere
gradita. In realtà, non credo che qualcuno ne abbia sinceramente
avvertito la mancanza. E questo insinua il dubbio che tante feste
paesane, inesorabilmente scandite da un rituale che le rende tutte
uguali, perpetrato in nome della formula “tanto la gente vuole
questo”, siano soltanto un grottesco riflesso della nostra
incapacità di vedere oltre, di pensare che stimolando curiosità e
intelligenza si possa crescere, migliorare, arricchirsi, essere
soddisfatti e felici, sentirsi più uniti. Oppure è proprio questo,
il rischio che si vuole evitare?
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