(PIETRO LO CASCIO) Molti di noi conservano qualche ricordo personale, qualche aneddoto, la memoria di uno o più episodi legati alla figura di Vartuluzzo. Da chitarrista, anche io ne custodisco numerosi, più per avere incrociato il maestro in tante occasioni musicali che per avere avuto il piacere di suonare con lui. Eppure, una sera di venti anni fa, ci siamo seduti imbracciando i rispettivi strumenti e abbiamo fatto musica, insieme, io fissandolo con attenzione per accompagnarne le note, lui con impercettibili movimenti della testa o inarcando appena le sopracciglia per richiamare il cambio di un accordo o un finale sfumato. Era uno degli ultimi compleanni di mia nonna e, non sapendo cosa regalarle, organizzai questa sorpresa, dopo avere avuto la disponibilità del maestro. Il problema, posto subito, fu: chi mi accompagna? Vartuluzzo era infatti un “tradizionalista”, e il mio chitarrismo era troppo inquinato da influenze sudamericane per soddisfarlo, ma accettò di buon grado la mia offerta, forse per tolleranza, forse per simpatia. Venne fuori una bella serata, guastata alla fine dalla mia proposta di pagare il tempo dedicatomi dal maestro, che invece rifiutò omaggiandomi del titolo di collega, e tra colleghi si parla di soldi per queste cose. Così, Vartuluzzo regalò il concertino da terrazzo di quella sera d’agosto.
Non è per questo, naturalmente, che lo ricordo con affetto, né per le tante serate fatte di bonaria “rivalità” mentre magari suonavamo lui in un bar, io in un altro, e alla fine ci chidevamo a mo’ di rituale “come è andata?”. Lo ricordo invece come elemento fondamentale di una musicalità eoliana, popolare, rigorosamente legata ai canoni tradizionali di cui egli era davvero un sapiente cultore o più aperta a suggestioni “forestiere”, come quella di Angelo e Benito Merlino. Questa musicalità ha dato vita a una vivace parentesi culturale che oggi sembra essersi dissolta, decimata da un anno feroce che si è portato via due irripetibili maestri e, poco tempo prima, le belle note della fisarmonica di Nino Sulfaro. Pino Paino scriveva di Vartuluzzo come “l’ultimo aedo eoliano”, biasimando invece Angelo al quale non poteva “eolianamente perdonare alcune ricercatezze esotiche”; non riesco a condividere questo giudizio, poiché entrambi mi sembrano artefici di una musica ancora solidamente aggrappata a qualcosa che abbiamo lasciato alle spalle, qualcosa che era riflesso di una cultura, di una sapienza, del vivere su una piccola isola mediterranea e ancora non aggredito dalla banalizzazione del “tutto uguale dappertutto”. Vartuluzzo, Angelo, avevano imparato a essere musicisti prima che esigenze di omologazione avessero chiesto di perdere linguaggio, di cedere grammi di personalità, di assomigliare a qualche altra cosa. Parlavano la loro lingua, raccontavano le loro poesie fatte di note, su strade diverse ma profondamente vere. Chi ha avuto il privilegio di condividerne la musica, conserverà sempre un legame con questo mondo come se lo avesse visto e conosciuto, pur non avendolo vissuto. Per questo motivo avverto oggi il grande vuoto lasciato da questi maestri, e desidero ringraziare Vartuluzzo per ciò che ci ha regalato, forse inconsapevolmente, augurandogli con affetto buon compleanno.
Pietro Lo Cascio