L'argomento che in questi giorni
più appassiona i frequentatori dei blog è la concessione dell'ingresso di una
sagrestia a privati che organizzano e vendono escursioni in barca. Alcuni
sollevano eccezioni di ordine religioso, altri etici. C'è chi si sente ferito
nei propri sentimenti di credente, chi ne fa una questione di giustizia. Vi
sono poi i sostenitori dell'iniziativa che, al contrario, la giustificano sia
dal punto di vista religioso, sia etico.
Personalmente non mi appassionano
né l'aspetto religioso della vicenda, né quello etico. La sensibilità religiosa
del credente praticante e professante dovrebbe essere ormai a prova di bomba.
Se ha superato il profluvio di notizie riguardanti casi conclamati e
sentenziati di pedofilia e abusi su chierichetti, ritrovamenti di cadaveri nei
sottotetti delle canoniche, riciclaggio di denaro sporco, seppellimento solenne
dentro le basiliche romane di efferati mafiosi, supererà senza troppi affanni
anche questa. Anche il risvolto etico della questione mi sembra trascurabile:
la raccomandazione del parroco fa parte della nostra tradizione ed è
rintracciabile nella letteratura e nella cinematografia di ogni epoca, non solo
di quella democristiana.
Ciò che mi pare invece più
interessante è l'aspetto sociale della vicenda e che riguarda un comportamento
sempre più diffuso che immagino, come molti altri usi, tipicamente locale e
difficilmente riscontrabile in altre realtà. Mi riferisco al proliferare di
punti vendita di gite in barca nei luoghi più eccentrici. Non solo in
botteghini e locali autorizzati, ma anche in finestre, androni, ingressi di
abitazioni e portoni che d'estate mutano la loro naturale destinazione d'uso
per diventare luoghi d'informazione con accanto relativa attrezzatura
pubblicitaria. Immagino che i proprietari di portoni e finestre li mettano
anch'essi gratuitamente a disposizione per incrementare i posti di lavoro e
dare un'opportunità a giovani intraprendenti in tempo di crisi.
Tutto questo incontra ampi
margini di tolleranza proprio perché è parte della nostra tipicità, è il nostro
turismo, il modo in cui ci presentiamo ed offriamo al mondo. Un atteggiamento
che ormai ci caratterizza e che è diventato il marchio, il brand direbbero gli
esperti, l'immagine delle nostre isole. È la consacrazione del precario,
dell'instabile, del posticcio, dell'arrangiato, dell'improvvisato. Un
atteggiamento diffuso che è ormai parte della nostra cultura, tant'è che
possiamo considerarlo naturale, persino rappresentativo. È la trasposizione
plastica di ciò che veramente siamo, del talento di cui disponiamo,
dell'abilità e della furbizia di cui siamo capaci. Parlare di organizzazione,
regolamentazione, professionalità, rispetto per il lavoro altrui, capacità
cooperativa, è il vero sacrilegio che non siamo disposti a commettere.
Lino Natoli
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