Il primo a tornare suoi suoi passi è stato Angelino Alfano, poi sono arirvati Ignazio La Russa e Gianfranco Miccichè, infine è stato il turno di Renato Schifani. Avevano promesso sfracelli, ed ora si sono ritrovati allineati e coperti come un sol uomo. Anche la decisione di Ignazio La Russa di lasciare il Pdl per presentare una sua lista, Centrodestra nazionale, di affiancamento, sta dentro la strategia di Silvio Berlusconi, che l’aveva illustrata e sostenuta trovando resistenze e dissenso. Una separazione consensuale e concordata nei minimi dettagli. Ignazio resta uno dei colonnelli del Cav, cui è stato affidato di combattere il nemico fuori le mura.
Torniamo a Angelino Alfano. Aveva una sua idea di partito – elezione dei dirigenti, organismi democratici, radicamento nel territorio, primarie ecc – ed un proposito ben preciso: dare vita ad un grande partito popolare ad immagine somiglianza del Ppe.
Da delfino a leader, sembrava fatta. Con le primarie alle porte e il rassemblement popolare possibile, è crollato tutto. Avesse assunto le redini del Pdl e “pensionato” il Cav, l’area dei moderati sarebbe diventata un’opzione concreta. E’ prevalso il Cavaliere a tutto campo con l’invito a Mario Monti di guidare la coalizione dei moderati, la cui sorte era segnata, mentre ad Alfano è toccato di trasformarsi in killer di Mario Monti pronunciando alla Camera la requisitoria contro il presidente del Consiglio e il suo governo e l’uscita dalla maggioranza che ha provocato le dimissioni del Professore e il conseguente scioglimento delle Camere.
“Mai più con Berlusconi”, aveva detto a squarciagola Gianfranco Micciché quando il gruppo dirigente del Pdl siciliano lo ha “evirato”, sconfessando il Cavaliere. Era il candidato del centrodestra alla Presidenza della Regione con una investitura di Berlusconi. Mai avrebbe immaginato che Castiglione, Cascio, ed altri si mettessero di traverso fino a far cambiare idea al Cavaliere. Ma è andata così, e Miccichè ha sospettato che il suo mentore l’avesse tradito o che, comunque, avesse difeso la scelta tiepidamente. Da qui l’anatema, quel “mai più con Berlusconi”. Tutto dimenticato? Di necessità virtù?
Pare proprio di sì. Del resto qual è l’alternativa?
L’ultimo componente del quartetto, il Presidente del Senato, Renato Schifani, si è esibito in una difesa d’ufficio del cavaliere e in una critica a Mario Monti, apprezzato ed a volte osannato. Era apparso il più critico nei confronti del partito e, di fatto, di Silvio Berlusconi, aveva incoraggiato l’anelito all’autonomia del suo sodale, Angelino Alfano, rimproverando una fase acuta di smarrimento al gruppo dirigente, definito la linea del Cav “grillismo d’imitazione” ed annunciato un manifesto per la terza repubblica di stampo montiano. Poi anche per lui è suonata l’ora della ritirata.
Ai giornalisti in Afghanistan, ha detto che il Professore si è comportato malamente, ha fatto malissimo a trasformare la sua conferenza stampa di fine d’anno in una confronto politico. Le sue critiche verso Berlusconi sono ingenerose. Quanto istituzionale sia la scelta del presidente del Senato, seconda carica dello Stato, di prendere parte alla disputa fra Monti e Berlusconi, è tutto da scoprire. Come si fa a pretendere che il Capo del governo non difenda la sua azione politica dopo avere subito un feroce attacco a Montecitorio da parte del segretario del Pdl, causa delle sue dimissioni?
Tutto questo è però secondario. I componenti del quartetto siciliano che avevano preso strade diverse hanno scelto di suonare agli ordini del Cavaliere. Avrebbero potuto esibirsi “altrove”? Che cosa sarebbe Apicella senza la voce familiare di Silvio Berlusconi?
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