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domenica 1 agosto 2010

Eolie, mitico e "selvaggio" arcipelago

(Romano Belladonna- Gazzetta del Sud) Certo, le strade non sono le stesse e nemmeno i rumori (forse Alicudi esclusa). E non sono le stesse le case e tanto meno i traghetti (gli aliscafi li immaginava soltanto Verne all'epoca). Eppure, ciò che videro gli occhi di Alexandre Dumas padre prima e, mezzo secolo più tardi, Guy de Maupassant, raggiungendo le Eolie, non doveva essere molto dissimile da ciò che vedono i nostri occhi, magari mentre ci avviciniamo in barca a vela, senza il rumore del motore.
Il Centro di studi eoliano ripubblica le pagine scritte dai due autori francesi nel corso del Grand Tour, tra i pochi spintisi fin così a Sud, nelle allora ancora selvagge Eolie. I "Diari di viaggio alle isole Eolie" ("Cahiers de voyage aux iles Eoliennes"; pp. 116; 15 euro) con tanto di testo a fronte in francese raccolgono scritti comparsi qua e là, finalmente riordinati in nuova compilazione.
Ecco le Eolie, galleggianti sul mare, quel «mare vasto e tranquillo» racchiuso in «quell'orizzonte vaporoso formato dalle coste siciliane e dalle montagne della Calabria» che appaiono così anche oggi. E come si possono vedere qui nelle tre splendide incisioni realizzate dall'arciduca Luigi Salvatore d'Austria (1847-1915), il viaggiatore per eccellenza fra quelli che visitarono le Eolie, tratte dalla sua opera "Die Liparischen Inseln" edito a Praga nel 1894, tuttora il più completo sulle Isole Eolie mai pubblicato. Merito della distanza forse, soprattutto degli eoliani che, come si chiedeva lo stesso Dumas, non si capisce perché se ne stessero abbarbicati su un costone di vulcano spento, un «orribile soggiorno». C'era, e c'è, una ragione: «Non vi è alcun angolo del mondo ove non starebbero meglio di lì».
Eoliani: una stirpe che non esiste. Chi abita l'arcipelago praticamente non ha avi. La fillossera ciclicamente ha divorato ogni pianta commestibile, da frutto o comunque produttiva sulle isole, costringendovi i residenti ad andarsene da un giorno all'altro per fame. E più volte – recitano le storie locali – i Borboni sono stati costretti a incentivare il ripopolamento. Quando non erano i galeotti, erano i napoletani: cittadini, gente dell'entroterra, scarsa in marineria, avvezza all'agricoltura. È questa la ragione per cui in quasi nessuna delle sette isole ci siano pescatori. Quantomeno strano per gente che vive circondata dal mare. Non è Ustica questa, dove i ragazzi per divertirsi salgono a bordo del barchino e se ne vanno a pesca di notte. Dumas, ospite del governatore di Lipari, attraversa in quaranta minuti su una barca di abili rematori le tre miglia d'acqua che separa la più grande delle isole da Vulcano, «l'antica Vulcania, l'isola di cui Virgilio ha fatto la succursale dell'Etna e la fucina di Vulcano». Era il 1835.
Cinquant'anni dopo Maupassant, più naturalista che romantico come era il suo connazionale, anche lui rimane colpito dalle visioni infernali di Vulcano salendo fino al bordo del grande cratere. «Tutto è giallo intorno a me, di un giallo accecante, di un giallo pazzesco. È tutto giallo: il suolo, le alte muraglie e persino il cielo. Il sole giallo versa nell'abisso muggente la sua luce ardente. Si vede bollire il liquido giallo che scorre, si vedono sbocciare strani cristalli spumeggiare acidi splendidi e bizzarri sull'orlo delle labbra rosse dei focolai». E nel fare il percorso inverso, Maupassant assaggia da una bottiglia una bevanda particolare: «il vino dei vulcani, denso, dolce, dorato, talmente pregno di zolfo che fino a sera me ne rimane il gusto. Si direbbe il vino del diavolo». Sbagliava il figlioccio di Flaubert, era un vino paradisiaco, la Malvasia.

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