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mercoledì 3 marzo 2010

Il tema più brutto della mia vita (di Renato Candia)

(Renato Candia) Sono il preside delle scuole di Lipari e di Canneto e vorrei raccontare una piccola storia. Ero bambino e frequentavo gli ultimi giorni delle elementari di piazzale Giusti, dove c'era anche il figlio di un grande calciatore di quei tempi, Vinicio, che giocava nel Lanerossi Vicenza. Dovevo fare l'esame di quinta, la prova di italiano, la mamma mi dice di sbrigarmi ma io giocavo con un piccolo pulcino colorato che allora regalavano con la spesa nei supermercati della città.
Mi sbrigo e dimentico il pulcino fuori dalla scatola. Errore madornale, perché Susy, la gatta siamese, in un balzo lo piglia e gli fa la festa. Ho dimenticato tutto e la mamma mi ha dovuto portare di peso alla scuola di Piazzale Giusti perché il mio unico pensiero era il mio pulcino che non c'era più. Qualsiasi tema il maestro m'avesse dato avrei parlato solo del mio pulcino morto: così fu, e il tema era il migliore della classe.
Non ricordo la mia faccia di allora, ma ricordo lo sguardo, incredulo e inconsolabile. E' lo stesso che ho rivisto ieri guardando gli occhi del mio vicino di casa: all'ora di pranzo se ne stava seduto per terra, con il suo cane stretto al petto, il suo cane morto, avvelenato da una mano ("da una mano", come si dice qui in Sicilia) che oggi gli ha ammazzato l'altro cane, che la settimana scorsa ne ha ammazzati altri tre, che ha ridotto in fin di vita quello dell'altro mio vicino di casa.
Una mano che a Calandra ci sta andando pesante: una mano che forse non sa (o invece, magari lo sa benissimo) come si riduce un cane avvelenato, che agonizza con la bava alla bocca, tremando dalle convulsioni e guardandoti impaurito perché non sa cosa gli stia succedendo e, in quanto cane, non ha mai elaborato culturalmente il concetto di morte (diversamente dall'uomo, che quasi sempre la patisce, qualche volta la dà).
Un cane che vive dell'affetto degli uomini, ha tale e tanta fiducia in loro che non si immagina mai strumento dei loro conflitti, dei loro odii, delle loro frustrazioni: così di tutte le schifezze che annusa, lecca e ingoia per la strada gli è impossibile immaginare che qualcuna possa fargli male fino ad ammazzarlo, perché tutte quelle schifezze sono del mondo di quelli che camminano su due gambe, di quelli a cui chiede solo una carezza ogni tanto per essere felice ed avere una ragione di vita.
Nei "Sillabari" di Goffredo Parise, alla voce "anima", si racconta del padrone di un cane che alla sua morte si domanda se i cani abbiano un'anima. Se ce la dovessero avere sicuramente non è un'anima che cova vendetta, che non ha frustrazioni, che non è in conflitto con niente e nessuno ma che è stata felice di avere avuto un padrone che le ha voluto bene. Non so quanto e perché quella mano abbia avvelenato Calandra, so soltanto che questo, probabilmente, è il tema più brutto della mia vita.