La vicenda della
cisterna di Filo di Braccio a Filicudi, approdata agli onori della cronaca nei
giorni scorsi grazie all’intervento del Circolo Legambiente delle Eolie, suscita
un indubbio fascino, anche se certamente è delle difficoltà dei tempi che stiamo vivendo.
Ai margini dell’abitato, vicino ai recenti scavi archeologici di un villaggio
dell’età del Bronzo, c’è un terreno incolto da tempo immemorabile, forse perché
pietroso o flagellato dalla salsedine. Ne è proprietaria una società
immobiliare di Gravina di Catania, che probabilmente medita di riconvertire le
proprie attività in forme più sostenibili. Non potendovi edificare una palazzina,
infatti, la società presenta un progetto per realizzare una cisterna interrata
di cinquanta metri quadrati, che servirà – secondo la relazione tecnica – come
riserva idrica per le colture di olivi e capperi che vorrebbe impiantare. Una
stradina permetterà di accedere dal confine del fondo alla cisterna; è naturale
che, dopo aver realizzato l’opera, si voglia andare lì di tanto in tanto,
magari a controllare se è troppo piena, o se la riserva basterà per irrigare le
colture. Fin qui, dunque, nulla di strano: memento audere semper.
Ciò che affascina,
però, è la risposta della severissima Soprintendenza di Messina – proprio lei,
il flagello dei proprietari di vetrine, la tomba dei pannelli solari sul tetto.
Il fondo ricade in area archeologica, ed è classificato come TI (tutela
integrale) nel Piano Territoriale Paesistico; ma l’eco lontana dei colpi di
vanga, l’immagine dell’ombra degli ulivi che torna a proiettarsi sul suolo
dell’arido incolto, le erbacce estirpate per far posto ai piedi di cappero, esercitano
evidentemente un richiamo irresistibile sul funzionario della Soprintendenza,
che infatti non resiste e concede l’autorizzazione paesaggistica, con un colpo
da maestro.
Malpensanti e delatori
credano ciò che vogliono. Io invece preferisco pensare che in questo gesto si
celi un momento di nostalgia, di affinità bucolica, un’inconfessabile, languida
passione per l’aratro che lunghi anni di studio e di carriera e una vita
cittadina in mezzo al traffico hanno represso nel funzionario. Peccato.
Pietro Lo Cascio
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