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mercoledì 22 maggio 2013

Il contributo della Soprintendenza di Messina all’agricoltura di Filicudi.

La vicenda della cisterna di Filo di Braccio a Filicudi, approdata agli onori della cronaca nei giorni scorsi grazie all’intervento del Circolo Legambiente delle Eolie, suscita un indubbio fascino, anche se certamente è  delle difficoltà dei tempi che stiamo vivendo. Ai margini dell’abitato, vicino ai recenti scavi archeologici di un villaggio dell’età del Bronzo, c’è un terreno incolto da tempo immemorabile, forse perché pietroso o flagellato dalla salsedine. Ne è proprietaria una società immobiliare di Gravina di Catania, che probabilmente medita di riconvertire le proprie attività in forme più sostenibili. Non potendovi edificare una palazzina, infatti, la società presenta un progetto per realizzare una cisterna interrata di cinquanta metri quadrati, che servirà – secondo la relazione tecnica – come riserva idrica per le colture di olivi e capperi che vorrebbe impiantare. Una stradina permetterà di accedere dal confine del fondo alla cisterna; è naturale che, dopo aver realizzato l’opera, si voglia andare lì di tanto in tanto, magari a controllare se è troppo piena, o se la riserva basterà per irrigare le colture. Fin qui, dunque, nulla di strano: memento audere semper.
Ciò che affascina, però, è la risposta della severissima Soprintendenza di Messina – proprio lei, il flagello dei proprietari di vetrine, la tomba dei pannelli solari sul tetto. Il fondo ricade in area archeologica, ed è classificato come TI (tutela integrale) nel Piano Territoriale Paesistico; ma l’eco lontana dei colpi di vanga, l’immagine dell’ombra degli ulivi che torna a proiettarsi sul suolo dell’arido incolto, le erbacce estirpate per far posto ai piedi di cappero, esercitano evidentemente un richiamo irresistibile sul funzionario della Soprintendenza, che infatti non resiste e concede l’autorizzazione paesaggistica, con un colpo da maestro.
Malpensanti e delatori credano ciò che vogliono. Io invece preferisco pensare che in questo gesto si celi un momento di nostalgia, di affinità bucolica, un’inconfessabile, languida passione per l’aratro che lunghi anni di studio e di carriera e una vita cittadina in mezzo al traffico hanno represso nel funzionario. Peccato.
 Pietro Lo Cascio

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