La proposta dell’on. Musumeci di ridurre l’indennità di carica ai deputati regionali che lasciano il gruppo parlamentare di originaria appartenenza può sembrare una provocazione. Invece non lo è, e non solo perché proviene non da un peones ma dal leader parlamentare dell’opposizione.
Com’è noto, il fenomeno del c.d. transfughismo parlamentare, cioè degli eletti che s’iscrivono o passano ad un gruppo parlamentare diverso rispetto a quello costituito dal partito nelle cui liste si sono candidati e sono stati eletti, è presente anche nell’Assemblea regionale. Su di esso ho già scritto (v. Ars: sette deputati hanno cambiato bandiera, record del 12 dicembre). Da allora se n’è aggiunto un ottavo (Savona passato da Grande Sud al misto), probabilmente ce ne sarà un nono (Gianni) e chissà a quanti altri ancora, visto che il Presidente della Regione dovrà cercare volta per volta la maggioranza in Assemblea.
Di solito, coloro che cambiano casacca invocano a loro favore il vecchio ritornello del parlamentare chiamato a rappresentare “l’intera regione” (art. 3.6 Statuto), senza sottostare ad alcun vincolo di mandato imposto dal partito e dagli elettori. Essi quindi possono cambiare posizione politica, senza per questo perdere il seggio.
Si potrebbe immediatamente obiettare che, invero, di divieto di mandato imperativo lo Statuto non parla. Inoltre, come le cronache politiche hanno ampiamente dimostrato in questi ultimi anni, spesso si cambia partito e gruppo non a seguito di profonde o motivate crisi di coscienza ma semplicemente per calcolo personale. Ma è pur vero che nessuno può ergersi a giudice della coscienza altrui.
Ma è soprattutto l’interpretazione del divieto di mandato imperativo per cui l’eletto potrebbe impunemente cambiare partito che non mi ha mai convinto, così come non convince la gran parte degli elettori, i quali, indignati e delusi, considerano tali fenomeni un tradimento della loro volontà elettorale. A che vale, infatti, votare per la lista di un partito, per un programma e per un candidato presidente, se poi i singoli eletti possono fare e sfare tutto ciò che vogliono in nome del loro libero mandato parlamentare?
In realtà questa mitica concezione del parlamentare come libero interprete del bene supremo della Nazione è frutto di una visione paleoliberale, ottocentesca della rappresentanza politica, quando i pochi cittadini con diritto di voto eleggevano senza alcuna intermediazione coloro che reputavano per capacità personali i “migliori”, come tali in grado di interpretare ciò che era bene per tutti.
L’introduzione del suffragio universale e la nascita dei partiti politici di massa segnano il passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico, dove la sovranità spetta non alle istituzioni statali ma al popolo, il quale la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (articolo 1), e precipuamente attraverso i partiti che sono lo strumento attraverso cui i cittadini sono in grado di concorrere quotidianamente alla determinazione della politica nazionale (articolo 49). Il voto, infatti, oggi non è più delega in bianco a chi si ritiene superiore perché interpreti la volontà comune ma è scelta di un indirizzo politico di partito e di coloro che, una volta eletti, sono chiamati a perseguirlo. Se così non fosse, saremmo come il popolo inglese di cui parlava Rousseau che credeva, sbagliandosi di grosso, di essere libero: in realtà lo era solo il giorno delle elezioni; appena eletti i parlamentari, esso tornava schiavo, non era più niente.
Si è passati così dal divieto di mandato imperativo al mandato di partito. Gli elettori oggi non votano per il candidato a prescindere dal partito, né il partito a prescindere dai candidati, ma votano insieme per il partito e per i candidati. In democrazia, gli eletti quindi sono chiamati a perseguire il programma politico del partito che li ha candidati e che gli elettori hanno votato.
Se così è, occorre interpretare il divieto di mandato imperativo alla luce del preminente principio della sovranità popolare e non, viceversa come oggi si è soliti, il principio della sovranità popolare alla luce del divieto di mandato imperativo, trovando soluzioni intermedie che rendano il rappresentante né il libero ed assoluto interprete del mandato ricevuto dagli elettori né, per non cadere nell’eccesso opposto, il pavido e docile esecutore di direttive oligarchiche di partito, pena la perdita del mandato. Bisogna infatti pur riconoscere che non si può nemmeno pensare di abolire la garanzia del divieto di mandato ed introdurre la perdita del seggio per chi abbandona il partito. L’effetto sarebbe quello di trasformare i deputati regionali in tanti soldatini che, nel timore di perdere la poltrona, sarebbero costretti ad ubbidire pavidamente agli ordini di partito, annullando così completamente quel minimo di pluralismo e di dialettica interna che è essenziale in ogni ordinamento democratico.
E allora? Non c’è nessuna alternativa tra l’assoluta libertà di mandato di cui attualmente gode il deputato ed il suo assoggettamento ai diktat di partito?
Invece, come in tutte le cose, c’è una “terza via” e la proposta dell’on. Musumeci va esattamente in questa direzione. Si tratta, infatti, non di revocare il mandato al deputato transfuga ma di prendere atto del fatto che, passando ad altro gruppo, egli ha reciso il nesso di rappresentanza politica che lo legava agli elettori del partito nelle cui liste è stato eletto.
Da tale decisione se ne potrebbero trarre alcune conseguenze, peraltro presenti nei regolamenti assembleari di ordinamenti stranieri:
1) vietare a costoro il diritto di costituire gruppi consiliari privi d’identità politico-elettorale, cioè non corrispondenti a partiti politici presentatisi alle elezioni, oppure subordinarla ad un più elevato requisito numerico (oggi bastano cinque deputati per formare un gruppo);
2) obbligarli ad aderire al gruppo misto, senza possibilità invece oggi prevista, di aderire ad altro gruppo o di costituirne uno nuovo; ,
3) al limite abolire il gruppo misto, cosicché il deputato transfuga acquisisca lo status di deputato “non iscritto”, con le conseguenze (anche sotto il profilo economico) indicate dalla proposta Musumeci.
A mio parere si tratterebbe di soluzioni equilibrate, costituzionalmente legittime, tese ad evitare che per proteggere il parlamentare dal partito lo si mantenga sovrano interprete della volontà dei suoi elettori.
*Docente di diritto costituzionale
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