La Grande Evasione
La clamorosa fuga di Rosselli, Lussu e
Nitti nel luglio del 1929 rappresentò una vera e propria cesura
nella storia della Colonia di Lipari.
Dai documenti di archivio risulta che
le autorità fasciste erano state abbondantemente ed esattamente
informate dal progetto di evasione di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e
Francesco Fausto Nitti. Le informazioni venivano dai confidenti
infiltrati nell’ambiente dell’emigrazione antifascista. Tanto più
bruciante fu quindi lo smacco e esplose l’ira del capo della
polizia Bocchini allorché “nonostante le misure adottate con ogni
diligenza” il 27 luglio 1929 i tre antifascisti se ne partirono da
Lipari.
«Nella notte dal 27 al 28 luglio sono
evasi da Lipari i confinati ex deputato Emilio Lussu, prof. Carlo
Rosselli e Francesco Fausto Nitti». Attenzione alle date. Il
giornale ufficiale del regime, il “Popolo d’Italia”, impiega
più di una settimana a decidere se pubblicare o no la notizia, e sia
pure in quella forma scheletrica soltanto il 9 agosto 1929.
La verità è che di quella evasione si
stanno già occupando i giornali di mezzo mondo. A Parigi Salvemini
si è fatto «impresario» del terzetto dei fuggiaschi e li trascina
da una conferenza stampa all’altra. A ragione. La fuga da Lipari
sarà l’evasione più importante e più clamorosa del ventennio,
insieme con l’uscita clandestina dall’Italia di Filippo Turati.
«Il raid di Lipari - scriverà Lussu - fu una vera impresa di
guerra, in cui la audacia di pochi uomini infranse lo sbarramento di
un’isola di deportazione e, con rapidità fulminea, trasse in salvo
dei condannati politici». «Fu sì un capolavoro di organizzazione,
ma in fondo non fu che una fuga. Ora, a scappare tutti suon buoni».
Da quella fuga il fascismo riceve un
colpo all’immagine di cui porterà a lungo il segno. Non per niente
nei primissimi giorni di libertà Lussu scrive un pamphlet (un
instant book, si direbbe oggi) in cui descrive l’autentico sistema
carcerario in cui il fascismo ha imprigionato la vita degli italiani.
Un posto di rilievo nella
memorialistica della grande evasione trova l’eoliano Edoardo
Bongiorno.
Nitti: (…) Un bravissimo ed
onestissimo cittadino, il sig. Buongiorno, socialista, ci fu amico in
segreto fin dal primi giorni, era stato perseguitato e minacciato,
lui liparese, di “confino” in un’isola! Doveva quindi essere
molto prudente nei suoi rapporti con noi. Ma sempre ricorderemo la
sua fisionomia aperta e leale di brav’uomo e il suo gran cuore.
Busoni: Edoardo Bongiorno, a torto
dimenticato nella rievocazione televisiva della fuga diversi anni or
sono fatta dalla TV, era una singolare ed esemplare figura di
cittadino democratico. Fino dal lontano 1895, quando aveva 16 anni,
aveva fondato a Lipari il Movimento operaio socialista. Per la sua
correttezza, la sua dirittura, la sua serenità, la sua fede
professata con fermezza e cortesia, e per la quale non aveva mai
perduto occasione durante tutta la sua vita di cercare di comunicarla
e trasmetterla agli altri con la parola e l’esempio, era da tutti
considerato con riguardo e simpatia, ed era generalmente conosciuto
dai liparesi, malgrado la modesta ascendenza e la modesta condizione
economica, come “don Eduardu”.
Musicologo appassionato aveva diretto
per molti anni la Scuola di musica. Capobanda del corpo musicale
locale – di cui per un certo periodo fu anche direttore – si era
trovato poi a farne parte anche durante il periodo fascista, quando
era invalsa l’abitudine di far precedere ogni manifestazione dal
suolo di “Giovinezza” o della “Marcia reale”. Ebbene, al
suolo di quegli inni, il capomusica Bongiorno non partecipava ed
ostentava il suo gesto polemico mantenendo in tutta evidenza – con
compiacimento particolare di noi confinati – abbassato il suo
strumento, per riprendere poi a suonare le musiche del repertorio
normale.
Naturalmente, per quanto più che
rispettato dai suoi concittadini, era nell’occhio delle autorità
che, dopo la fuga di Rosselli, Lussu e Nitti, lo diffidarono a
lasciare l’isola senza loro autorizzazione. E la sua casa veniva
messa ripetutamente a soqquadro con perquisizioni diurne e notturne
e grave disagio soprattutto dalla moglie. Fu tra l’una e le due di
una di quelle notti che ai tre poliziotti i quali lo invitavano a
controllare la perquisizione disse: “Fate per vostro conto quello
che volete. Ma se nelle vostre tasche avete delle carte
compromettenti che vi hanno ordinato di inserire in un mio libro per
scoprirle alla prossima perquisizione, arrestatemi subito e dite che
le avete già trovate”.
Per poter contribuire con lo stipendio
della moglie, insegnante da Canneto e che doveva percorrere ogni
giorno cinque chilometri a piedi all’andata e al ritorno, aveva
ottenuto l’incarico di gestire un’agenzia marittima. Due eminenti
fascisti locali scrissero alla società concedente per fargli
togliere il posto. Edoardo venne a conoscenza anche dei loro nomi, e
il figlio Leonida fu stupito che, incontrandoli, il padre accettasse
le loro abituali manifestazioni di affetto e di amicizia invece di
rinfacciare aspramente la loro malvagità e doppiezza. E quasi
sentisse la non espressa sorpresa del figlio, ripreso il cammino,
ponendogli una mano sulla spalla gli disse: “non ti meravigliare: è
povera gente”.
Lo stesso atteggiamento tenne anche
quando, presidente del CLN dopo la liberazione, il governatore
alleato colonnello Joe, gli chiese di fornirgli indicazioni circa i
fascisti liparesi da processare, facendo scorrere fra le mani un
foglio sul quale erano i nomi di Ninì Fiorentino, di Vitale, Lino
Carnevale, Saltalamacchia e altri. Rispose: “Questa gente io non la
conosco”. E a chi poi, negli anni che seguirono e che videro la
fortunosa rimonta politica di alcuni di quei fascisti frettolosamente
confluiti nella democrazia cristiana, gli rimproverava quelle
generosità considerata eccessiva anche per il suo alto senso
d’umanità, spiegava: “La vendetta e l’odio non sono mai state
buon nutrimento. Mi è bastato mortificarli dimostrando loro che li
avevo sempre ignorati”.
Fu nel suo bugigattolo d’agenzia a
Sottomonastero dove, fra il rilascio di una polizza e di un biglietto
di viaggio studiava i suoi amati spartiti musicali, che si consultava
con Nitti e particolarmente con Rosselli, per i dettagli della fuga e
fu lì che consegnò a Rosselli le cartine nautiche poi passate a me
per farle giungere a Firenze alla moglie di Carlo, la quale li
inoltrò a Parigi e servirono ai guidatori del motoscafo per venire a
prelevare i fuggitivi. Anticlericale e tuttavia credente, col suo
carattere bonario e cordiale che non disdegnava le facezie, non
mancava di motteggiare e redarguire anche con invettive dantesche i
parroci liparesi i quali malgrado ciò, continuarono a stimarlo e a
volergli bene; finché sull’ultima panca della chiesa di S. Pietro,
il 2 gennaio 1961, alla fine del rito funebre per un nipote a lui
caro, silenziosamente e placidamente, reclinata la testa sulle mani
poggiate sul pomo del bastone, immobile e fermo nella sua forte
figura di un metro e ottantadue di altezza, “don Eduardu” si
addormentò del sotto eterno.
Di lui ha raccontato Giuseppe di Salvo
nel “Progresso italo-australiano” di Thoresbury che Filippo
Turati col quale era in contatto ebbe a dire: “è un innovatore
sociale di tale compatta levatura quell’Edoardo, che la sua
personalità diviene quasi un enigma e un rimprovero per gli uomini
di poca fede”.
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